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Le emozioni sono fondamentali per la conoscenza del mondo di cui facciamo parte, quelle che proviamo nella nostra vita quotidiana

sono pienamente sociali e culturali, vanno regolate secondo logiche diverse dalla razionalità favorendo lo spiazzamento, la moltiplicazione dei punti di vista, l’accoglimento

dei paradossi.

Sclavi Marianella, Quando la diversità è questione di cornici

Nonostante da tempo si parli di società multiculturali non è detto che il passaggio all’intercultura sia immediato e automatico207. Esistono molteplici difficoltà per quanto riguarda la gestione dei diversi gruppi di immigrati. Molteplici sono gli atteggiamenti contraddittori che vanno dall’apertura al relativo desiderio di integrazione, comunicazione e disponibilità relazionale alla chiusura con la difesa della propria appartenenza. A queste difficoltà di carattere relazionale e culturale che gli immigrati incontrano, si aggiungono molto spesso atteggiamenti di chiusura da parte della popolazione autoctona, i quali possono impedire la costruzione di una società aperta allo scambio culturale e al confronto. Un atteggiamento interculturale, basato innanzitutto sul decentramento del soggetto, potrebbe essere una alternativa ai foschi scenari predicati in questi anni dal centro dell’impero.

Concepire quindi la cultura come una realtà omogenea, compatta, pura secondo Mantovani non ci sarà d’aiuto a vivere in un mondo che è al tempo stesso sempre più locale e sempre più globale. L’essenzialismo, infatti, consiste nel vedere la cultura non come un repertorio di risorse per l’azione, ma come una cosa stabile, omogenea, delimitata da precisi confini sia spaziali che simbolici. Questa concezione della cultura reificata, intesa appunto come una cosa, ha la stessa funzione che aveva il concetto di ‘razza’ nell’ideologia coloniale del secolo scorso208. Secondo Bauman: “c’è un intento ideologico dietro ogni visione di ‘cultura omogenea’, e l’idea di eterogeneità culturale paga un tributo enorme a quell’ideologia”. Quell’ideologia non è mai stata messa in evidenza (e tanto meno

207 Franca Pinto Minerva, L’intercultura, Laterza, Roma-Bari, 2005, p. 14. 208 Cfr. Giuseppe Mantovani, Intercultura, op. cit., p. 36.

in discussione) in condizioni decisamente diverse dalle nostre, quando rifletteva la

pratica moderna dell’omogeneizzazione sostenuta dal potere. Quell’ideologia era di casa nel mondo delle nazioni nascenti, delle crociate culturali, degli stili di vita improntati a criteri uniformi, dell’assimilazione forzata e della ricerca dell’armonia culturale”209.

Più utile sarebbe invece riconoscere che identità e culture differenti costituiscono aree di scambio, narrazioni di volta in volta condivise o contestate dalle stesse persone che ne fanno parte. Non un mosaico multiculturale con barriere erette in nome della comune appartenenza, ma spazi in cui dei noi particolari vivono in mezzo a dei loro altrettanto particolari, ciascuno con la propria storia e con il proprio vissuto. Se prestiamo attenzione all’altro, incontriamo la relatività delle emozioni, la necessità di un terreno comune di dialogo, di un codice di comunicazione che consenta un rapporto pacifico e civile con le molteplici diversità che percorrono le nostre realtà quotidiane.

Il più delle volte, invece, la resistenza difensiva all’altro si trasforma facilmente in un atteggiamento aggressivo contro la minaccia che l’altro rappresenta. Per incontrare l’alterità occorre essere pronti a cambiare; non possiamo comunicare o metterci in relazione con le differenze semplicemente restando noi stessi. Una soluzione dataci dai teorici della comunicazione interculturale, come ad esempio Milton J. Bennet, sembra essere quella di un ambiente inter-culturale dove sono necessarie comprensione, scelte ponderate ed empatia al fine di districare le cattive percezioni ed entrare in relazioni fluide. L’atteggiamento flessibile è basato su molte caratteristiche della personalità che ci aiutano a risolvere i conflitti più velocemente nel nuovo ambiente. Queste caratteristiche comprendono la consapevolezza di sé, la sospensione del giudizio, la complessità cognitiva e l’empatia culturale che trasformano le difese in uno stimolante apprendimento interculturale210.

209 Zygmut Bauman, La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano, 2000, p. 201.

210 Cfr. Milton J. Bennet, Comunicazione interculturale: una prospettiva corrente, in Milton J. Bennet (a cura di), Principi di comunicazione interculturale, Franco Angeli, Milano, 2002. Nell’introduzione di questo libro Ida Castiglioni fornisce delle definizioni di comunicazione interculturale. Nel suo aspetto pratico è un processo di negoziazione di significati tra due o più persone di cultura diversa in relazione ad un obiettivo.

L’empatia, secondo la prospettiva teorica di Edith Stein211, deriva dal verbo tedesco fühlen che significa andare a tastoni; nel XVIII sec. assunse il significato di percepire impressioni. L’atto conoscitivo dell’empatia è una percezione in cui io sono presso l’altro e rendo esplicita la sua esperienza vitale post-vivendola. L’oggetto del mio atto empatico è l’esperienza vitale altrui. Anche secondo la fenomenologia di Husserl l’atto empatico riguarda la comprensione dell’altro a partire da me stesso e sulla conoscenza che ho di me stesso. Viceversa, Ricoeur critica tale prospettiva e in Simpatia e rispetto ne enuncia, in una triplice direzione, le difficoltà: l’irrudicibilità che permane tra l’io e l’altro; la stranezza dell’empatia come analogia; l’incomprensibilità dell’apparizione dell’io estraneo212.

Vi sono tre gradi dell’atto empatico. Il primo grado indica la percezione del vissuto altrui. Per esempio un amico viene da me e mi dice di aver perduto un fratello ed io mi rendo conto del suo dolore. Nel secondo grado, invece della percezione del vissuto altrui, ne faccio una mia esperienza, ma lo è solo di riflesso, non è una mia esperienza diretta. Nel terzo grado quel vissuto è parte integrante della mia coscienza.

L’empatia, determinando la dimensione emozionale dell’incontro culturale con l’altro, consente all’educazione culturale di non esaurirsi nella sola esperienza cognitiva. Consiste, perciò, in una relazione umana che coinvolge la sfera affettiva e concretamente passa attraverso l’ascolto, l’accoglienza, il rispetto, la stima, l’apprezzamento, la tendenza alla condivisione per la cultura altra. Questo atteggiamento evita di degenerare in forme di curiosità, folclore, esotismo.

L’intercultura, dunque, si riferisce ai modi, agli strumenti, alle occasioni che servono per sviluppare un confronto costruttivo nelle comparazioni con culture differenti, al fine di trovare dei punti di incontro. In questo confronto costruttivo le differenze non vengono annullate, ma esaltate in modo tale da rendere reciproco il riconoscimento, lo scambio, la negoziazione.

L’educazione interculturale, oltre che una prospettiva, diventa una strategia per arrivare a questi risultati. Essa chiama quindi in causa –fra le politiche che i singoli paesi adottano nei confronti dell’immigrazione– soprattutto

211 Cfr. Edith Stein, Il problema dell’empatia, Studium, Roma, 1998.

quelle educative e linguistiche e, di conseguenza, la legislazione scolastica, la gestione degli istituti educativi e la formazione degli insegnanti. Prima ancora di essere riconosciuta come tale nella ricerca pedagogica, l’educazione interculturale ha una sede di elaborazione nei programmi scolastici e, di riflesso, nelle circolari e nei documenti ministeriali, nonché in numerosi documenti internazionali e comunitari.

L’intercultura può essere dunque intesa come la disponibilità a conoscere e interpretare altre realtà culturali attraverso un progetto, che renda possibile l’apertura mentale, che faccia individuare differenze e analogie tra la propria e le altre culture, che faccia valutare gli aspetti positivi e negativi senza dare nulla per scontato. Attraverso essa tutte le differenze vengono riconosciute come legittime. Anche se tale questione non è senza problemi. “Da qui –fa osservare Siebert- la preoccupazione che l’identità particolaristica possa essere posta al di sopra dei valori universali dell’essere umano, e che questo possa portare ad una erosione dei diritti umani fondamentali. […] una crescente chiusura particolaristica dei gruppi con appartenenze identitarie diverse e con propri stili di vita che può portare all’indifferenza ostile verso le condizioni di vita di tutti gli altri”213. Il conformismo e la chiusura culturale214 vengono sostituite dalla pratica di molte lingue, e di molti linguaggi, che fanno leggere e interpretare il mondo in modo diverso, liberandolo dalle vecchie e nuove forme di discriminazione e di esclusione. Si può dire che il prefisso inter, in un progetto di convivenza democratica, indica non tanto la “comparazione” quanto la reciproca esigenza di solidarietà.

I teorici di questo tipo di approccio delineano, inoltre, l’idea di

transculturalità’215. Questa è in grado di oltrepassare i limiti delle singole culture fondandosi sul riconoscimento dell’appartenenza alla comune specie umana, che coesiste pacificamente, e assicura a tutti i fondamentali diritti di libertà, nonché il rispetto delle proprie differenze, lingua, cultura e religione. Affinché si realizzi una inter-trans-cultura “è necessario che già a scuola si elaborino progetti finalizzati ad educare alle differenze, al dialogo e al confronto per andare oltre le rappresentazioni che sfociano in stereotipi e pregiudizi. Bisogna in un certo senso,

213 Renate Siebert, Il razzismo. Il riconoscimento negato, op. cit., p. 148. 214 La chiusura culturale porta all’intolleranza e all’aggressività.

imparare a conoscere l’identità dell’altro affinché la convivenza democratica possa essere messa in atto, così come la disponibilità alla relazione con l’altro, con la sua cultura, la sua storia, sia che a scuola siano presenti bambini/e o ragazzi/e stranieri/e oppure no” 216.