Annie era l’alunna preferita della maestra. La più coccolata e la più viziata. Quella mattina le stavamo tutte intorno perché aveva portato in classe i confetti della prima comunione […] non capivo bene che cosa fosse questa prima comunione: per quel che sapevo abito bianco e confetto si usavano ai matrimoni
Nassera Chohra, Volevo diventare bianca
Nelle società occidentali degli ultimi venti anni, l’espressione mediazione
culturale si collega a nuove forme di intervento in risposta al venir meno di strutture e ruoli sociali delle precedenti forme di organizzazione sociale. Basta camminare per le strade di una grande città per rendersi conto di quanto sia cambiato il paesaggio urbano rispetto a venti o trent’anni fa. Popoli, culture, lingue diverse si mescolano e si intrecciano spronando con urgenza l’esigenza di un dialogo e di un confronto tra chi è nativo del luogo e chi vi è giunto da molto lontano, in molti casi da altri continenti. Il tentativo però di tenere a distanza l’altro, il diverso, l’estraneo, lo straniero, la decisione di ignorare il bisogno di comunicazione, di incontro, di ascolto, di reciproco coinvolgimento, non è la sola risposta concepibile, ma la più prevedibile di fronte all’incertezza che si radica nell’attuale provvisorietà e fragilità dei legami sociali. Anche le nostre forme culturali, artistiche e architettoniche non presentano più uno stile unico e facilmente riconoscibile o inconfondibile. Essi derivano dalla sovrapposizione di stili nati originariamente in luoghi lontani nello spazio e nel tempo.
Nel tempo si sono sviluppati interventi e professioni nell’ambito della mediazione dei conflitti sociali, nell’area degli interventi penali, nell’ambito familiare. Queste pratiche hanno influenzato il dibattito in corso sulla definizione
della professione di mediatore culturale. Si tratta di un profilo professionale che, per le indubbie implicazioni sociali, si sta sempre più affermando, ma che un po’ ovunque, soprattutto in paesi come la Francia dove il fenomeno migratorio ha una storia più lunga, è al centro di un dibattito volto ad analizzarne ruolo, competenze e funzioni.
Nella quotidianità l’eterogeneità delle situazioni e delle storie che si ritrovano dentro i servizi porta sempre più spesso a richiedere figure e dispositivi che siano in grado di rendere più fluide le interazioni, arginando malintesi e fraintendimenti. Un’altra ragione che sta alla base del proliferare delle richieste di mediatori è legata alla scomparsa di spazi comuni di mediazione e di socialità. Il venir meno di ‘tradizionali’ ambiti di mediazione, si pensi alla famiglia, alla comunità, agli spazi aggregativi, delega a dei professionisti l’arte di smussare, comprendere, far comprendere, trovare territori comuni, stabilire intese e legami più o meno durevoli. Come nota Ceretti: “sono mutati e mutano repentinamente i luoghi nei quali tradizionalmente si sviluppa la socialità e si regolano i conflitti sociali: famiglia, quartiere, scuola, posti di lavoro vengono oggi percepiti con un senso di disordine in quanto differenti fattori, quali la crescita urbana e industriale, l’alta mobilità sociale, le ondate migratorie e perfino il welfare hanno, in epoche diverse, contribuito a destrutturarli”217.
Il conflitto si è dunque trasformato da fattore distruttivo in un elemento dinamico. L’incremento di complessità ha favorito il pluralismo, con la molteplicità delle concezioni del bene. Una terapia del ‘dialogo’ può contribuire a rendere meno rigide barriere e confini etnocentrici. Il dialogo, infatti, definisce le condizioni e i codici con cui è possibile aprirsi all’altro per creare nuovi simboli culturali condivisi. “Morineau insegna, secondo Ceretti, che in mediazione i soggetti lavorano per trovare degli spazi di coincidenza, un linguaggio comune e una visione differente rispetto a quella che hanno prima dell’incontro”218.
Il concetto di mediazione culturale, e ancora prima quello di mediazione, come abbiamo già visto, presuppone un confronto con i temi della complessità e del conflitto. Per trasformare i conflitti in qualcosa di utile è necessario gestirli in maniera opportuna, e, come sostiene Stefano Castelli, prendersene cura senza
217 Adolfo Ceretti, Mediazione: una ricognizione filosofica, in Lorenzo Picotti, La mediazione nel
sistema penale minorile, CEDAM, Padova, 1998, p. 22. 218 Ivi, p. 36.
volerli curare219. Sul piano dell’agire la mediazione è di conseguenza una prassi ternaria, discorsiva, conciliatoria, assertiva, che sposta le interazioni conflittuali dalla logica vincitori e vinti, che in realtà è un gioco a somma zero, in cui nessuno vince e tutti sono sconfitti, a quella io vinco, tu vinci, una situazione di equilibrio e paritaria.
Quanto più le relazioni sociali e interpersonali si moltiplicano e si complicano, tanto più la mediazione sembra necessaria e inevitabile: nella vita quotidiana e nelle interazioni fra i soggetti, come nei rapporti istituzionali e nelle organizzazioni, le occasioni di esercitare negoziazioni di significati e di posizioni, di favorire conciliazioni simboliche, di prevenire ed attenuare piccoli o grandi conflitti sono praticamente infinite. Partiamo dalla definizione proposta da Castelli, nel 1996, che è un ampliamento di quella proposta da Scaparro:
La mediazione è un processo attraverso il quale due o più parti si rivolgono liberamente ad un terzo neutrale, il mediatore, per ridurre gli effetti indesiderabili di un conflitto. La mediazione mira a ristabilire il dialogo fra le parti per poter raggiungere un obiettivo concreto: la realizzazione di un progetto di riorganizzazione delle relazioni che risulti il più possibile soddisfacente per tutti. L’obiettivo finale della mediazione si realizza una volta che le parti si siano creativamente riappropriate, nell’interesse proprio di tutti i soggetti coinvolti, della propria attiva e responsabile capacità decisionale220.
La mediazione culturale rientra in questa definizione, anche se il conflitto rimane sempre sullo sfondo e non si manifesta in maniera esplicita, riguarda il complesso problema culturale della convivenza e del confronto fra diversi sistemi semantici, punti di vista e progetti di vita, che si concretizza nelle forme del conflitto politico, sociale ed economico innescato dal fenomeno dell’immigrazione. Anche se gli addetti ai lavori più che di conflitto nell’incontro/scontro fra persone appartenenti a culture diverse parlano di
dissidio221, in quanto il linguaggio usato non può essere comparato, commisurato. Qui ognuno parla il proprio linguaggio, che è intraducibile, non comprensibile per
219 Cfr. Stefano Castelli, op. cit. 220 Ivi, p. 5.
221 Il concetto di dissidio secondo Lyotard mette in evidenza il non condiviso, significa un oltrepassa mento, un punto estremo nel quale i confliggenti non si riconoscono in quanto tali, come se viaggiassero in mondi paralleli (Cfr. Jean François Lyotard, Il dissidio, Feltrinelli, Milano, 1985).
l’altro222. “Non interrompe –secondo Eligio Resta– alcuna comunicazione per il semplice fatto che comunicazione non c’è”223. Questa affermazione ci permette di introdurre l’idea che in presenza del dissidio la sfida del mediatore è paradossalmente quella di trasformare il dissidio in conflitto, vale a dire quella di trovare le parole che permettano la traduzione dell’uno nell’altro. Nel momento in cui si trovano le parole il dissidio diventa conflitto e si aprirà uno spiraglio di trasformazione. Si passa da una situazione di totale frattura alla costruzione di uno spazio in qualche maniera confrontabile. Come nota Ceretti: “Se si trova di fronte a un dissidio, egli è costretto a perdere quella sua caratteristica di terzo neutro”224. In questi casi, il mediatore, nella costruzione di un linguaggio comune e rispondendo contemporaneamente alle aspettative dei due mediati, assume il ruolo di arbitro. Il mediatore non diventa il rappresentante di una comunità in particolare; questo suo stare al crocevia di tanti luoghi e il suo non appartenere a nessun territorio, occupare uno spazio interstiziale tra la società civile e le istituzioni, lo aiuta a creare e disseminare scambi, contaminazioni e sinergie.
Bisogna sapere inoltre che, nel caso dei dissidi, si mina l’identità degli individui. Mentre per molti conflitti i due desideri contrapposti, vitali per coloro ai quali appartengono, non si estendono all’identità degli attori, poiché l’identità collettiva è stabile e dura nel tempo (pensiamo ad esempio a una lite in un condominio che sfocia in reato). Nel caso, invece, dei dissidi la ricerca di condivisione abbraccia una domanda ancora più difficile: quella del
riconoscimento.
Quando consideriamo il conflitto, secondo Ceretti, non mettiamo mai in discussione l’appartenenza politica o la cittadinanza dei soggetti, anche se esso può essere minaccioso e contestare il patto sociale fra gli individui. Viceversa, nel caso del dissidio siamo di fronte ad attori che non mirano unicamente ad una condivisione che riduca lo spazio di incertezza. Nelle parole di Veca: “Il
disordine, l’instabilità, in una parola il dissidio che chiede di essere mediato sta in
222 Cfr. Eligio Resta, Rispondere ed essere responsabili, Conferenza, Milano Gruppo Scherìa 18 giugno 1995, non pubblicata in Adolfo Ceretti, op. cit., p. 41.
223 Cfr. Eligio Resta, Giudicare, conciliare, mediare, in Fulvio Scaparro (a cura di), op. cit., p. 34. 224 Adolfo Ceretti, op. cit., p. 43.
una domanda di identità, di riconoscimento da parte di chi non è incluso stabilmente, nello spazio e nel tempo, in una comunità politica chiusa”225.
Quale è in definitiva il potere del mediatore? Lo possiamo collocare su due livelli. Il primo è quello interno alle pratiche di mediazione. Come sappiamo, entro questi limiti, il mediatore non deve avere, e non ha, nessun potere, nel senso che non spetta a lui/o lei la risoluzione della disputa. Le sue capacità e possibilità sono quelle legate all’ascolto, all’imparzialità e alla neutralità. D’altra parte, egli deve sviluppare una capacità negativa: quella di rendersi vulnerabile al dubbio, di restare impassibile di fronte alla perdita di senso, di non volere a tutti i costi pervenire a fatti e motivi certi226. C’è chi sostiene, come Gian Vittorio Pisapia o Stefano Castelli, che il mediatore, proprio per il semplice fatto di essere in possesso di un sapere, di un saper fare e di un saper essere, debba essere considerato, a ragione, un soggetto dotato di potere, poiché grazie al suo intervento certi rapporti sociali diseguali possono subire un cambiamento. Anche se, come osserva Ceretti, “è difficile dire in che cosa consista effettivamente questo potere. Manca infatti un’analisi –fondamentale!– del ruolo che questo operatore gioca all’interno delle interazioni e delle strategie multiple del legame tra sapere e potere”227.
Quando si parla di riconoscimento delle differenze culturali di solito si rimanda al concetto di apertura, cioè alla capacità di ascoltare, assumere il punto di vista dell’altro, accettare intrecci e scambi. L’apertura annulla i confini, concreti e simbolici, così come fra forme culturali astratte, credenze, riti, norme e definizioni.
D’altra parte, secondo Santarrone la mediazione culturale “non significa neutralità asettica e priva di conflitti. Non è un luogo di coesistenza pacifica degli opposti, una terra di nessuno dove si allineano, privi di un ordine gerarchico, parole e pensieri. Essa, al contrario è lo spazio del conflitto fra diverse tradizioni, tra molteplici orizzonti di senso, tra scelte di carattere estetico, morale, politico”228.
225 Salvatore Veca, Il paradigma delle teorie della giustizia, in Sebastiano Maffettone, Salvatore Veca (a cura di), Manuale di filosofia politica, Donzelli, Roma, 1996, p. 196.
226 Giovan Francesco Lanzara, Capacità negativa, Bologna, il Mulino, 1993, p. 30. 227 Adolfo Ceretti, op. cit., p. 53.
La mediazione culturale si configura pertanto in una pratica costruttiva basata su un approccio che favorisca le relazioni, mediante la disponibilità all’incontro e al confronto dialettico delle diversità. Ne consegue che il mediatore
interculturale è un operatore sociale volto a facilitare la realizzazione delle pari opportunità di accesso dei cittadini stranieri immigrati nei vari ambiti della società (scuola, sanità, lavoro, giustizia). La sua opera può aiutare a prevenire situazioni di conflitto, intervenire in quelle in atto, contribuire a combattere pregiudizi, a creare aperture solidali, a favorire il dialogo, a individuare bisogni.
In sintesi, la mediazione culturale è da ritenersi utile e necessaria nell’incontro tra popolazioni di lingua e costumi diversi perché consente di:
• facilitare la comunicazione tra le persone e tra le minoranze culturali e le istituzioni, permettendo la reciproca comprensione dei codici culturali;
• sostenere condizioni di pari accesso e diritti per le minoranze etniche;
• favorire lo scambio e la trasformazione di pratiche e costumi; • sostenere l’inserimento e i processi d’integrazione della
popolazione immigrata 229.
Secondo Alain Goussot: “la mediazione culturale è un problema ermeneutico; una ricerca di significato per favorire la comprensione reciproca degli attori che interagiscono”230. Egli arriva a questa affermazione riprendendo le riflessioni e gli studi di Gadamer. Accosta l’esperienza interculturale al circolo ermeneutico che attiva la circolarità e la comprensione reciproca tra orizzonti di senso diversi, quello dell’immigrato e della società ospite. Chi vuol comprendere deve lasciarsi dire qualcosa dall’altro, l’esperienza interculturale è dunque l’esperienza del tu. Saper ascoltare l’altro e lasciare che ci parli. Questo implica apertura e ascolto reciproco. Senza questi due elementi non esiste nessun legame umano231.
Concludiamo il nostro quadro delle definizioni della mediazione con l’efficace sintesi proposta da Ceccatelli Guerrieri, la quale propone “il concetto di
229 Anna Belpiede (a cura di), Mediazione culturale. Esperienze e percorsi formativi, Torino, 2002, p. 24.
230 Alain Goussot, op. cit., p. 4. 231 Cfr. Hans Georg Gadamer, op. cit.
mediazione come prassi discorsiva, assertiva, conciliatoria, capace di disinnescare innumerevoli situazioni conflittuali e di trasformarle in negoziazioni simmetriche, in ragionevoli ricomposizioni delle pretese fra le due controparti”232.
La mediazione è quindi da considerarsi come un ‘atto intenzionale’233 che permette di facilitare e stimolare i legami che si instaurano fra due persone apparentemente lontane. L’immagine a cui ci rimanda Graziella Favaro per il processo di mediazione è quella di un “prisma che trasforma raggi di luce invisibili nei sette colori dell’arcobaleno”234. Il dar vita a interventi di mediazione permette di dare visibilità a culture altre e di riconoscere le differenze. La sfida attuale a cui la mediazione dà risposta è proprio quella di elaborare strategie e di sviluppare azioni positive che diano riconoscimento alle diverse identità.
Per favorire questo processo è indispensabile “fare dei tentativi per esplorare la diversità in modo autentico”235; dunque, per promuovere il dialogo ed il confronto i mediatori culturalihanno un importante ruolo da svolgere. Anche se bisogna stare attenti. Jean Wahl nei suoi Studi su Kierkegaard ha ragione quando afferma che la mediazione può essere il nemico del mediatore se tende a normalizzare e assimilare l’immigrato alle nostre regole e norme di vita. Questo processo di adattamento normativo nega la varietà, il pluralismo e la peculiarità di cui è portatore l’immigrato. Ma, anche, il mediatore può essere il nemico della mediazione se enfatizza e assolutizza un’identità culturale complessa, plurale e dinamica236. Per cui, secondo quanto afferma Alain Goussot, “il lavoro del mediatore è quindi una sfida tra la produzione di nuove forme di socialità, l’assimilazione negatrice della diversità, l’esclusione ghettizzante e l’autoghettizzazione”237. Oltre agli innumerevoli vantaggi che un intervento di mediazione produce, i rischi di una comunicazione mediata possono essere vari e complessi:
232 Giovanna Ceccatelli Guerrieri, op. cit., p. 10. 233 Stefano Castelli, op. cit., p. 5.
234 Graziella Favaro, op. cit., p.
235 Mariangela Giusti, Fenomenologia della mediazione. Materiali e idee per la comunicazione
interculturale, Thélème Editore, Torino, 2001, p. 11.
236 Cfr. Jean Wahl, La coscienza infelice nella filosofia di Hegel, Laterza, Roma-Bari, 1995 citato in Alain Goussot, Mediazione culturale e mediatori: considerazioni pratiche e teoriche, Progetto regionale: Sportelli informativi e mediazione per detenuti negli Istituti penitenziari della regione Emilia Romagna, Seminari formativi rivolti agli operatori penitenziari, Materiale di studio e di discussione, in http//:www.regione.emilia-romagna.it.
1. Rischi di riferimenti impliciti a culture rigide, stereotipate, uniformi. Questo blocca la relazione con l’altro/a e produce differenza;
2. La presupposizione di sapere: l’idea preconcetta che l’appartenenza culturale sia di per sé una garanzia di conoscenza della società di provenienza. In effetti molti immigrati conoscono i loro paesi d’origine in maniera superficiale anche perché molti di essi sono emigrati da molto anni, per cui non conoscono gli effettivi cambiamenti culturali e di stile di vita dei loro paesi;
3. La non autorevolezza necessaria. Il mediatore immigrato può essere delegittimato nel suo ruolo di operatore sociale proprio dai suoi connazionali o da altri immigrati; in fondo ‘è uno come noi’;
4. riduzione del livello di autonomia dell’utente immigrato (reale e simbolico);
5. atteggiamento di delega e di de-responsabilizzazione da parte dell’operatore del servizio;
6. la difficile gestione dei processi di identificazione. Molti immigrati nel rapporto con gli altri immigrati proiettano pregiudizi, stereotipie ed elementi puramente emotivi non rielaborati. Oppure possono attivare una tale identificazione con la società di accoglienza, quello che Frantz Fanon ha indicato con il processo di mimetizzazione o lattificazione pensando ai neri238 che non riescono più a leggere-interpretare con la giusta distanza le persone che arrivano dallo stesso paese.
Naturalmente, per by-passare questi rischi solo il sapere tecnico, le competenze e la pratica possono legittimare un bravo mediatore nel suo ruolo. Il suo intervento, quindi, passa attraverso la quotidianità.