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La nuova figura professionale del mediatore culturale è definita in modi molto diversi dai differenti attori sociali (associazioni, istituzioni, cooperative, ecc.), coinvolti in questi anni nella sua formazione. Esiste un dibattito fra gli esperti del settore sull’utilizzo delle diverse definizioni. C’è chi lo chiama mediatore culturale, chi mediatore linguistico-culturale, chi ancora mediatore inter-culturale a seconda della teoria di riferimento.

Un breve richiamo al significato del termine professione potrà aiutarci a trovare un orientamento in questa varietà di interpretazioni della nuova figura professionale del mediatore.

Per la sociologia del lavoro il termine professione ha due significati. Il primo viene direttamente dagli studi anglosassoni, dove il professionista è qualcuno che possiede due caratteristiche: da un lato, il professionista è chi possiede un sapere, la conoscenza in un campo specifico da luogo ad un certo numero di competenze tecniche, che possono essere esercitate solo da chi possiede un’abilità specifica. Dall’altro, l’accesso allo statuto è controllato dai propri pari, garanti non solo dell’applicazione delle regole tecniche, così come anche della deontologia. Nell’esercizio di ogni professione si nota spesso una specie di connessione fra sapere e potere343. Inoltre, il termine professione si differenzia da quello di mestiere seguendo l’opposizione fra intelletto e manualità. Polarità che ritroviamo allo stesso modo nell’opposizione fra qualificazione e competenze. Dal lato della qualificazione troviamo gli aspetti sociali, la nomenclatura, la classificazione ed i diplomi; dal lato delle competenze troviamo il saper-fare e il sapere legato all’esercizio del mestiere. Il binomio sarà così fra professione/qualificazione e mestiere/competenze344.

343 A questo proposito Lorenzo Speranza più che di potere, parla di poteri delle professioni. Nelle parole del sociologo: “Questo accostamento fra professioni e poteri non deve meravigliare, al contrario. Ove vi sia d’accordo che le professioni sono, fra le altre occupazioni, quelle caratterizzate da un rapporto più marcato e più frequente con il sistema della conoscenza, e ove si accetta la massima popolare secondo cui ‘la conoscenza è potere’, non dovrebbe apparire strano che, in una società della conoscenza, quale si vuole sia la nostra, le professioni sono un terreno privilegiato del potere (e perciò anche dei conflitti) [Lorenzo Speranza, op. cit., p. 8].

344Cfr. Bénédicte Madelin, Présentation du «Référentiel femmes-relais», de la démarche, questionnement, Professionnaliser la médiation sociale: pour un statut des femmes-relais, Profession Banlieue, p. 24.

Riferendoci al pensiero dei classici, Auguste Comte identifica una professione come un corpus di teorie e una particolare abilità intellettuale, ciò lo portò a considerare l’ingegnere una figura intermedia tra teoria e pratica345. Sulla scia di Spencer, che considerava le professioni come fattore di arricchimento della vita e come attributo essenziale di una società moderna, Max Weber affermò che la professione diventa l’espressione dell’azione razionale rispetto allo scopo. Molto interessante in Weber è anche il concetto di Beruf, di chiamata, che consiste nell’adempimento del proprio dovere professionale come il più alto contenuto che possa assumere l’attività umana e che quindi va al di là della pura sete di guadagno. Il termine professione sembra indicare che uno professi, ossia che uno creda nel proprio lavoro e che “dalla sua ricchezza non ricava nulla per se stesso tranne l’irrazionale sentimento del compimento del suo dovere professionale”346.

Estremizzando un po’ il discorso, possiamo affermare che qualsiasi tipologia di lavoro esprime una professionalità, intesa come identità di chi lavora. Le nuove professioni, nell’epoca tardo moderna, basate soprattutto sull’autonomia dei ruoli, portarono una vera e propria rivoluzione del lavoro. La riscossa del singolo, dopo decenni di organizzazioni orientate al collettivo, impose una nuova cultura del lavoro, secondo la quale il lavoro stesso si va trasformando in un insieme di prestazioni a libero servizio. Si passa così dal concetto di impiego a quello di professione, con una maggiore assunzione del rischio e della responsabilità. Il lavoro di massa, frutto dell’era industriale, si avvia a scomparire, surclassato da un lavoro più qualificato e alla portata di tutti.

In seguito, connotato essenziale del processo di professionalizzazione è l’acquisizione di una particolare abilità o specializzazione, ed a un livello più ampio la creazione di associazioni347. Difatti, ogni occupazione deve percorrere una serie di tappe o di stadi per arrivare alla terra promessa del

345 Cfr. Auguste Comte, Considerations philosophiques sur le sciences et les savant, citato in Michel Bourdeau, Les trois états. Sciences, théologie e metaphysique chez Auguste Comte, Les Editions du Cerf, Paris, 2006.

346 Cfr. Max Weber (1904-1905), L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, BUR Universitaria, Rizzoli, Milano, 1991, p. 59.

347 Le associazioni professionali agiscono come gruppi di interesse esterni, integrati strettamente con i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario.

professionalismo348. Il sociologo Harold Wilensky ne individua cinque: la comparsa di un’attività lavorativa come occupazione a tempo pieno; l’istituzione di scuole di formazione e poi di Università (dapprima a livello locale e successivamente a livello nazionale); il sorgere di associazioni professionali; la conquista del sostegno della legge (una forma di protezione legale del titolo di studio e della funzione) ed elaborazione di un codice deontologico349. Tale sequenza, pensata per gli Stati Uniti dal sociologo di Berkely, sembra funzionare anche in altri contesti nazionali350.

Le professioni, dunque, possono essere considerate occupazioni distinte e particolari, in virtù della capacità di soddisfare i bisogni del pubblico attraverso l’applicazione di una conoscenza e di un’abilità. É così anche per la nuova ‘professione’ di mediatore culturale?

Questa nuova professione, come molte altre professioni del sociale, racchiude al suo interno una base di conoscenza teoretica unita ad abilità specifiche, un binomio fra teoria e prassi. Essa, inoltre, potrebbe essere intesa, utilizzando un concetto di Accornero, come skill: un mix di capacità e di abilità che si accumula e si accresce con l’esperienza lavorativa. Si tratta di una sorta di investimento personale cumulativo: “l’utile di un capitale investito su se stessi”351. Inoltre, potremmo considerare anche un altro punto di vista, che considera tale professione come un fatto cooperativo, il risultato dell’integrazione delle conoscenze e delle esperienze del lavoro in équipes.

Nel nostro caso, la discussione sulla definizione del ruolo professionale è partita da quello che non è, prima ancora che per quello che è il mediatore culturale. Il percorso verso delimitazione e individuazione del profilo professionale, con conseguente riconoscimento legislativo, è oggi costellato da criticità e debolezze, così come è stato in passato per gli operatori sociali. Nelle parole di Manuela Fumagalli: “Una storia così complessa racchiude, al contempo, la forza di professioni che hanno radici dal basso e ciò, nel momento attuale della

348 Dalla definizione classica dataci dal sociologo tedesco Max Weber vediamo che: “Si deve definire professione ogni specificazione, specializzazione e combinazione delle prestazioni di una persona, che costituisce per essa il fondamento di una possibilità continuativa di approvvigionamento e di organizzazione”.

349 Lorenzo Speranza, op. cit., pp. 29-30.

350 Cfr. Willem Tousijn, Le libere professioni in Italia, il Mulino, Bologna, 1987. 351 Cfr. Aris Accornero, Il mondo della produzione, il Mulino, Bologna, 1994, p. 275.

mediazione, rappresenta un punto di forza da cui partire per la sua evoluzione”352. C’è da dire però che il forte incremento, negli ultimi anni, della richiesta di servizi da parte dell’utenza straniera ha comportato un altrettanto forte incremento di questa tipologia di professionisti.

E’ opportuno ricordare come, almeno in questa fase storica del nostro Paese, i mediatori culturali debbano essere, preferibilmente, di origine straniera. Ciò consente loro di esercitare meglio il proprio lavoro avendo vissuto sulla propria pelle l’esperienza migratoria. Come fa osservare Massimiliano Fiorucci, però, tale posizione, se portata all’estremo, potrebbe portare al rischio di delineare una sorta di professione etnica.

Fra le fragilità ricordiamo infatti che il mediatore culturale è ancora più esposto, rispetto alle altre professioni, ai rischi di “onnipotenza”, ovvero il farsi carico in modo sproporzionato dei problemi posti dall’utente straniero. Questo è un rischio tipico delle professioni sociali “deboli”, dai confini di ruolo poco definiti. “Le pressioni dei processi –secondo Anna Belpiede– in cui è oggettivamente inserito il MC lo condizionano a farsi carico di problematiche non risolvibili al suo livello, inoltre la difficoltà ad autodefinire i confini di ruolo del MC nel rapporto con professioni sociali altrettanto ‘deboli’ può generare tensioni di ruolo, dovute appunto a sovrapposizioni, sconfinamenti”353.

Un’altra fragilità della professione di mediatore culturale è la precarietà economica in cui vivono la maggior parte dei mediatori; una precarietà legata alla instabilità dei progetti. In molte Regioni italiane questi progetti sono finanziati da fondi regionali; essi hanno perciò una durata annuale e molto spesso non sono rinnovabili. Come sottolinea Miriam Traversi in un’intervista:

La figura del mediatore nel contesto nazionale è una figura ancora semi sconosciuta, che non ha ancora avuto un inquadramento normativo. E’ una figura del precariato che appartiene ad un mondo nuovo, dove ancora non ci sono le figure di supporto necessarie a questo nuovo operatore. [Miriam Traversi]

E ancora nelle parole di un mediatore culturale:

352 Manuela Fumagalli, op. cit., p. 159. 353 Anna Belpiede, op. cit., p. 69.

Si, la maggior parte dei colleghi hanno un lavoro precario. Se qualcuno magari ha un contratto full time o a tempo determinato ogni anno si parla… adesso si, ma dopo dicono non abbiamo finanziamenti e poi è un po’ così. Magari preferiscono che un altro collega che fa un altro lavoro rimane, però lo straniero aria (con tono avvilito)… [dopo si ride]. [Mohammed Louhi]

Tutto ciò porta alla necessità di fare un salto nell’inquadramento dello statuto professionale del mediatore. Questo mette in evidenza una non definizione e non riconoscimento di ruolo; un deficit di formazione in termini di qualità e omogeneità dei curricula formativi e uno iatus tra le competenze acquisite dal mediatore culturale nella formazione e quelle richieste dal contesto di lavoro.