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Egli era libero, ma infinitamente libero, fino a non sentirsi pesare sulla terra.

Gli mancava quel peso delle relazioni umane che ostacola il passo, gli mancavano

quelle lacrime, quegli addii, quelle gioie, quei rimproveri, tutto ciò che un uomo accarezza o distrugge ad ogni gesto che accenna, quei mille vincoli che lo

appesantiscono legandolo agli altri.

Antoine de Saint-Exupéry, Il piccolo principe.

Il tema del riconoscimento è una componente di un filone di pensiero politico esplorato dalla filosofia, presente in vari autori del passato e trascurato per tre secoli. Porre il riconoscimento come base di una filosofia politica significa rintracciare nei singoli individui l’esigenza di essere riconosciute, apprezzate, onorate. Un bisogno delle persone come esseri umani da valere in generale per tutti.

Il riconoscimento diventa un tema molto significativo per la sociologia contemporanea; esso ha aiutato questa disciplina a uscire dai limiti di un “paradigma utilitarista” di spiegazione dell’agire. Nell’epoca che precede la modernità: “[…] il riconoscimento non costituiva mai un problema; c’era un riconoscimento generale, connaturato all’identità derivata socialmente per il semplice fatto che quest’ultima si basava su categorie sociali che tutti davano per scontate”104. Nella società moderna, invece, l’identità personale non fruisce di questo riconoscimento a priori, deve conquistarselo attraverso uno scambio. In questa epoca non è nato un bisogno di riconoscimento, sono nate le condizioni nelle quali il tentativo di farsi riconoscere può fallire, dato che con la crescita del pluralismo, delle differenze sociali e culturali l’interazione non è più chiusa all’interno di gruppi connotati da una rigida condivisione di norme e di valori. A questo proposito Franco Crespi afferma: “l’età moderna è stata caratterizzata da una crisi generalizzata delle identità, conseguente alla diminuzione dei vincoli tradizionali che configuravano in modo relativamente stabile l’appartenenza

sociale dell’individuo ad ordini legati al territorio, alla nazione, alla distribuzione gerarchica degli status e dei ruoli sociali e via dicendo”105.

Tanti gli autori, tante le teorie: per economia di spazio non possiamo affrontarle e approfondirle tutte. Ne abbiamo scelto alcune che fanno riferimento ad altrettante tradizioni filosofiche e di pensiero politico comune. Per soddisfare le nostre domande faremo così riferimento ad alcuni autori, Axel Honneth, Charles Taylor, Avishai Margalit, Jürgen Habermas, Davide Sparti, Franco Crespi e Paul Ricoeur, che pur partendo da punti di vista diversi sono pervenuti a conclusioni sostanzialmente convergenti circa il presupposto universale del riconoscimento reciproco come fondamento della formazione degli individui e dei loro rapporti comunicativi e sociali. Partiremo da qui per sviluppare il nostro ragionamento sulla mediazione e la vita offesa, visto che il mancato riconoscimento crea dei graffi, delle fratture nell’identità delle persone, ferite che non sempre trovano un nome. Una società che non umilia le persone, e dove le persone non si umiliano tra loro, è una società che accoglie il grido della vita offesa riconoscendola; è una società in cui le persone possono vivere come tali e trovare un loro spazio.

Il tema del riconoscimento sociale è strettamente legato a quello dell’identità individuale. Secondo Davide La Valle, in Italia, è in primo luogo Alessandro Pizzorno106 che ha dedicato una particolare attenzione a queste due nozioni, e al nesso che le lega: “è attraverso l’interazione sociale basata sul riconoscimento che acquisiamo gli elementi che ci permettono di conoscere, valutare e agire”107. All’interno di questa prospettiva la costruzione dell’identità si realizza attraverso la condivisione di determinati standard culturali, che permettono all’azione di ricevere significato e al soggetto di essere riconosciuto.

Questo è un aspetto che troviamo anche nel lavoro di Axel Honneth108, allievo di Habermas. Secondo il filosofo e sociologo tedesco, è proprio attraverso il conflitto sociale e le lotte per il riconoscimento che esso produce che si ha un

progresso normativo. É proprio a partire da Hegel e Mead che Honneth sviluppa

105 Franco Crespi, Identità e riconoscimento nella sociologia contemporanea, Editori Laterza, Roma-Bari 2004, p. 89.

106 Alessandro Pizzorno, Il velo della diversità. Studi su razionalità e riconoscimento, Feltrinelli, Milano, 2007.

107 Davide La Valle, Riconoscimento e identità, in “Rassegna Italiana di Sociologia”, anno XLVI, N. 3, luglio-settembre 2005, p. 454.

108 Cfr. Axel Honneth, Riconoscimento e disprezzo. Sui fondamenti di un’etica post-tradizionale, Rubbettino, Soveria Mannelli, 1993.

la sua proposta teorica. Egli ritiene che esista un anello forte di collegamento tra una parte della filosofia di Hegel, quella che ha anticipato gli studi sociologici sulla devianza sociale, e la teoria sociale contemporanea rappresentata dal lavoro di Mead.

Hegel aveva messo in rilievo come un rapporto positivo del soggetto con se stesso dipenda dalle conferme ottenute attraverso il riconoscimento dell’altro. L’integrità individuale dipende da comportamenti che riceviamo dagli altri, in particolare da una comunità che riconosca i principi dell’individuo. A questo proposito Siebert sostiene che “Hegel affronta il problema della nostra socialità nella celebre dialettica del riconoscimento tra servo e padrone: il bisogno di riconoscimento è il fatto costitutivo dell’umano. L’uomo non esiste prima o al di fuori della società”109. Ognuno di noi non si vede mai per intero, sono gli altri che ci percepiscono nella nostra interezza di esseri umani.

Mead, nel suo lavoro Mente, sé e società, ha approfondito la formazione del sé. Egli sostiene che il sé nasce e si sviluppa dall’interazione sociale, interiorizzando come proprie le reazioni e il ruolo dell’altro. É proprio questa condivisione di significati la base della relazione di riconoscimento. Il sé è una costruzione sociale, che si realizza assumendo le attese normative del proprio ambiente sociale. Le attese degli altri diventano norme per il soggetto; egli può avere rispetto di sé per mezzo della stima degli altri. Sé e società sono dunque l’esito di un medesimo processo.

Date queste premesse, quando Honneth sposta la propria attenzione sulla violazione dell’integrità della persona, i processi di negazione sono pensati come mancanze o rotture di reciproco riconoscimento. “L’immagine normativa di sé di ogni persona – il suo ‘Me’, come direbbe Mead – non può che basarsi sulla possibilità della sua continua riconferma da parte dell’altro. Quindi l’esperienza del dispregio implica il rischio di una violenza che può portare al crollo l’identità dell’intera persona”110. Quotidianamente, in ogni parte del mondo, uomini e donne di ogni ceto, classe o etnia si trovano a lottare per difendere la loro dignità e integrità di persona dallo spregio e dall’umiliazione.

109 Renate Siebert, Il razzismo. Il riconoscimento negato, op. cit., p. 36. 110 Axel Honneth, op. cit., p. 19.

Honneth, nella sua analisi, propone di graduare le singole forme di spregio a seconda che l’offesa riguardi: il livello dell’integrità fisica di una persona; la comprensione normativa di sé di un individuo; le forme di svilimento, che riguardano modi e ideali di vita individuali o collettivi. A queste forme negative di misconoscimento egli propone altrettante forme positive di riconoscimento reciproco. Così, il rapporto di riconoscimento che corrisponde allo spregio delle violenze fisiche è dato dall’amore; alla privazione dei diritti e all’emarginazione sociale corrisponde il diritto; e alla svalutazione di determinate forme di vita corrisponde la solidarietà. Honneth applica questo modello all’analisi dei conflitti e dei movimenti sociali nella modernità. In questi conflitti sono in gioco l’identità personale attraverso la distribuzione della stima sociale.

A partire dagli anni Settanta del Novecento, i temi del bisogno e della domanda di riconoscimento occupano un posto centrale nel dibattito sulle politiche di convivenza legate al multiculturalismo. In termini strettamente politici, la questione del riconoscimento in paesi come il Canada e gli Stati Uniti si è imposta all’interno di spazi istituzionali, quali la scuola, l’università, quando interpretazioni su questioni importanti dal punto di vista socio-culturale sono entrate radicalmente in conflitto.

Un altro autore che ha usato la nozione di riconoscimento per interpretare tali aspetti della politica contemporanea (movimenti nazionalistici, femminismo, gruppi per la difesa delle minoranze) è Charles Taylor111. L’autore lega il bisogno di riconoscimento all’identità. La tesi è che la nostra identità è plasmata, in parte, dal riconoscimento o dal mancato riconoscimento. Da questo punto di vista: “un riconoscimento adeguato non è soltanto una cortesia che dobbiamo ai nostri simili: è un bisogno umano vitale […] per cui un individuo può subire una reale distorsione se le persone che lo circondano gli rimandano, come uno specchio, un’immagine di sé che lo umilia […]. La proiezione su un’altra persona di un’immagine inferiore e umiliante può, nella misura in cui questa immagine viene interiorizzata, produrre una distorsione e un’oppressione reale”112.

111 Filosofo contemporaneo canadese, appartenente alla cosiddetta schiera dei comunitaristi alla cui vasta opera, incentrata sulla politica del riconoscimento associata al multiculturalismo è interessato un crescente numero di studiosi anche in Italia. Per i comunitaristi l’identità e la dignità della persona si costruiscono nelle relazioni con gli altri a partire dal riconoscimento.

112 Charles Taylor, Multiculturalismo. La politica del riconoscimento, Anabasi, Milano, 1993, p. 22; p. 43.

Taylor ha cercato di ricostruire come sia emerso il significato che oggi attribuiamo a questi concetti. Per il filosofo canadese l’identità nella modernità è un modo d’essere che si genera all’interno dell’individuo, avendo però allo stesso tempo una valenza sociale. Il processo di formazione dell’identità, infatti, “è tale che non esiste una generazione interiore monologicamente intesa. Per comprendere quale sia la stretta connessione fra identità e riconoscimento dobbiamo prendere in considerazione un aspetto cruciale della condizione umana […] il suo carattere fondamentalmente dialogico. Noi diventiamo degli agenti umani pienamente sviluppati, capaci di comprendere noi stessi e quindi di definire la nostra identità, attraverso […] uno scambio con altre persone. […] In questo senso la genesi della mente umana non è monologica, non è qualcosa che ciascuno realizza per conto suo, ma è dialogica”113.

Per riconoscimento Taylor sembra quindi intendere la disponibilità di un tessuto relazionale la cui componente normativa rispetti i criteri dell’individuo. Se guardiamo agli esempi proposti, notiamo la disponibilità di una società di ‘riconoscere’ l’identità dell’individuo attraverso le leggi dello Stato. Un caso citato dall’autore è quello del Québec dove sono state adottate leggi a difesa della cultura, in particolare della lingua, del gruppo franco-canadese.

Anche Jürgen Habermas parte dalla considerazione che le lotte per il riconoscimento mirano “non tanto a eguagliare le condizioni sociali dell’esistenza, quanto a tutelare l’integrità delle forme di vita e delle tradizioni in cui si riconoscono i membri dei gruppi discriminati”114. Si tratta dunque di lotte per ottenere il riconoscimento di identità collettive, cioè di gruppi che vogliono conservare e sviluppare una propria identità specifica evitando il rischio di fondamentalismi da un lato e di forme costrittive di assimilazione dall’altro. Secondo il filosofo francofortese, possono essere riconosciute soltanto le tradizioni e le forme di vita disponibili a critica, che consentono la possibilità di apprendere da tradizioni diverse e camminare verso nuovi lidi. L’integrazione non puòessere raggiunta su un consenso sostanziale dei valori, ma solo attraverso un consenso sulle procedure relative alla produzione giuridica e all’uso legittimo del

113 Ivi, pp. 50-51.

114 Jürgen Habermas, Lotta di riconoscimento nello stato democratico di diritto, in Jürgen Habermas, Charles Taylor, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Feltrinelli, Milano, VII edizione, 2006, p. 66.

potere. Si tratta quindi di un universalismo dei principi giuridici che egli definisce anche “patriottismo costituzionale”. Lo stato democratico di diritto deve praticare una politica dell’immigrazione di tipo liberale: non soltanto importando manodopera che soddisfi i bisogni economici dei paesi ospiti, ma tenendo conto anche della prospettiva degli altri secondo criteri accettabili da tutti gli interessati115.

Molti ragionamenti sul reciproco riconoscimento dei sentimenti sociali in mediazione possono essere collegati secondo Ceretti anche alle teorie di Avishai Margalit contenute nel testo La società decente116. Secondo l’autore: “decente è una società in cui le istituzioni non umiliano le persone, civile è una società in cui i membri non si umiliano gli uni con gli altri […]. L’idea di società civile è un concetto microetico, che riguarda relazioni tra individui; l’idea di una società decente è un concetto macroetico che riguarda il modo di essere della società come un tutto”117.

Margalit parte dal presupposto che oggi, nelle nostre società, è molto più urgente rimuovere le cause di sofferenza, piuttosto che creare benefici godibili. L’umiliazione è un male penoso da eliminare, mentre il rispetto è un beneficio. Egli parte da una definizione normativa e non psicologica di umiliazione, per cui non va alla ricerca di motivi individuali che provocano umiliazione, quanto piuttosto alle modalità da seguire per promuovere una società decente. Il riconoscimento inteso come naturale esigenza dei singoli ad essere apprezzati, onorati, rispettati, deve essere portato agli esseri umani perché sono umani. Un comportamento umiliante esclude l’altro come non-umano, l’atto di rifiuto presuppone che sia una persona quella che viene esclusa. Margalit sostiene che i gesti umilianti “mostrano le vittime mancare anche del più piccolo grado di controllo sulla loro sorte; vale a dire che sono senza aiuto e soggette alla buona volontà (o piuttosto alla cattiva volontà) dei loro tormentatori”118.

Sulla stessa scia pare collocarsi il pensiero di Davide Sparti119 che nel suo testo L’importanza di essere umani affronta il tema del riconoscimento partendo

115 Cfr. Jürgen Habermas, Charles Taylor, op. cit., p. 103. 116 Cfr. Adolfo Ceretti, op. cit., p. 65.

117 Avishai Margalit, op. cit., p. 57. 118 Ivi, p. 150.

119 Cfr. Davide Sparti, L’importanza di essere umani. Etica del riconoscimento, Feltrinelli, Milano, 2003.

dai presupposti filosofici ed etici di Wittgenstein. Sparti, nel corso della sua trattazione, segue in modo puntuale un discorso etico, articolandolo attraverso tre momenti che presenta in una terminologia non solo wittgensteiniana. Il primo momento lo chiama diagnostico, e consiste nel chiarire perché siamo esposti a una pulsione che emerge dall’ansia per la condizione umana. In filosofia tale impulso si esprime attraverso la fantasia di una conoscenza di sé e degli altri fondata. Per questa ragione chiama tale impulso l’impulso scettico, sottolineando alcuni punti. Anzitutto, usando questo termine si riferisce non tanto a un impulso o istinto vero e proprio, quanto invece alla tendenza a esporsi a certe tentazioni teoriche. Sparti ci avverte: egli non ha mutuato questo concetto dalla filosofia di Wittgenstein bensì da Stanley Cavell120. Di più l’espressione scetticismo non si ricollega alla tradizione filosofica intellettuale, che ha indagato il problema della conoscenza, bensì l’atteggiamento che anima l’impulso scettico non muore mai, perché il senso di alienazione dalla comunità umana (il senso di impotenza nel conoscere gli altri, l’esperienza della separatezza) e la tendenza a perdere contatto con il linguaggio, non sono teorie filosofiche che possono essere vinte con un’argomentazione intellettuale.

Il secondo momento del percorso terapeutico egli lo chiama

conseguenzialista, poiché mostra quali effetti (negativi) tale atteggiamento scettico produce. L’esito più tragico è la nostra riluttanza a riconoscere e a essere riconosciuti per quello che siamo, l’elusione delle ordinarie situazioni del conoscere che provoca la perdita di contatto con la nostra condizione di essere umani iniziati ad una vita comune, una sorta di cecità nei confronti degli altri; dunque, uno stato di isolamento e di alienazione dalla nostra comunità di condivisione.

Il terzo e ultimo momento Sparti lo definisce terapeutico e consiste, infine, nell’indicare come possiamo ripristinare una forma di contatto con la nostra umanità, ogni volta che questa viene perduta o abbandonata. La circostanza di essere persone, con certe caratteristiche, non è semplicemente un fatto della vita. É un fatto che deve essere riscoperto, sia perché appartiene alla conoscenza di

120 Stanley Cavell, The claim of Reason. Wittgenstein, Skepticism, Morality and Tragedy, Oxford University Press, New Jork, 1979, tr. it. parziale: Davide Sparti (a cura di), La riscoperta

sfondo che tendiamo a perdere di vista121, sia perché in qualche modo spaventa: spaventa lo scetticismo che è in noi, nella sua nudità. Si tratta di una fatto impressionante e difficile da accettare proprio perché ci appare troppo banale e umano.

Seguendo quanto dice Sparti: “volendo riassumere questo movimento etico si potrebbe dire che se l’accettazione della condizione umana è il nostro problema, allora la co-presenza sarà fonte di ansia. L’elusione diventa così la nostra prima reazione, ma l’esposizione è il nostro destino. Il riconoscimento, ossia l’accettazione della nostra condizione e la ratificazione della presenza altrui, dovrebbe, invece, essere la nostra risposta terapeutica”122. Sparti, legando la nostra responsabilità etica al nostro essere responsivi verso gli altri, alla nostra capacità di rispondere in maniera sensibile e non cieca alla presenza altrui come presenza umana, ha cercato di identificare un modo della relazione etica, riportando la morale al punto di partenza del processo etico.

La condizione umana, secondo Sparti, non implica ancora l’etica. É un fatto ontologico che siamo mortali e quindi finiti e incarnati (distinti). L’etica non si riduce al riconoscimento che siamo fatti come siamo fatti, né si risolve in un puro e semplice “dire si” alla forma di vita umana, e neppure nell’accomodare la propria vita entro i limiti posti dalla condizione umana. “Diventa, invece, una base per l’etica l’esperienza che della condizione umana facciamo. Se il fatto della condizione umana, considerato ontologicamente, appare eticamente neutrale, il sentirsi vulnerabili nella propria finitudine non lo è, e genera proprio quel timore quando siamo vinti dall’ansia scettica”123. Proprio prenderne atto produce ansia e disagio, tendiamo ad eludere le situazioni che ci confrontano con la nostra condizione, in particolare le situazioni di co-presenza e d’intimità, situazioni di esposizione o di dipendenza da altri, che sottolineano la nostra vulnerabilità, incompletezza e fragilità umana124.

121 Secondo Sparti se certi aspetti vengono dati per scontato in quanto parte dell’ovvio quotidiano delle cose nascosti dalla loro semplicità e quotidianità, questo non significa che siano trasparenti. Per questo il lavoro del filosofo, e non solo da parte sua, consiste nel richiamare ciò che tendiamo a perdere o a rimuovere dalla vista.

122 Davide Sparti, op. cit., p. 25. 123 Ivi, p. 182.

Infine, anche per Franco Crespi il tema del riconoscimento è strettamente connesso a quello dell’identità individuale, dell’autocoscienza e alla crisi della solidarietà sociale. Il paradosso evidente, secondo l’autore, è che l’identità, una volta consolidatasi, può, per certi casi, diventare un ostacolo alla reciprocità del riconoscimento stesso. “Essere visti dall’altro e riconosciuti come aventi diritto all’esistenza al pari di ogni altro è condizione essenziale di rassicurazione riguardo al nostro esserci effettivo. Questo spiega perché nella vita di ciascuno di noi sia così importante il fatto di sentirsi amati”125. Lungo tutto l’arco della vita di ciascun individuo il riconoscimento è molto importante, visto che la cosa che egli teme di più al mondo è l’indifferenza dell’altro. Importante per la sua esistenza diventa l’incoraggiamento e l’approvazione degli altri.

La ricerca del bene attraverso il riconoscimento dell’altro nella vita quotidiana con i suoi conflitti, le sue passioni, le sue sofferenze e ipocrisie, le sue frustrazioni secondo Crespi non è priva di pericoli, in quanto, a seconda del modo in cui si pone, può anch’essa produrre effetti negativi. Occorre dunque chiarire i termini nei quali è possibile orientare una ricerca del bene non distruttiva, con la tesi che individua l’origine del male morale nella fuga dall’esistenza (ex-sistere) e nella mancanza di riconoscimento (per Sparti potrebbe essere, invece, non essere spettatori della vita, ma partecipanti). L’etica, per Crespi, consiste in un invito a vivere fino in fondo nella pratica l’ex-sistere secondo un’autenticità senza regole, ma che rinvia a scelte concrete e al senso di responsabilità di ciascuno. Essa, dunque, è orientata non tanto a cosa si deve fare, quanto a come si deve essere; è cioè un invito a cercare e realizzare se stessi e la propria libertà.

L’etica invita a scoprire le proprie possibilità a partire dalle esperienze vissute, nella consapevolezza che tale scoperta è un costante processo senza