Il ruolo è definibile come un insieme di aspettative che si hanno su un soggetto in quanto parte di un gruppo sociale. Questa definizione si propone anche per il mediatore nel momento in cui è chiamato ad agire in un determinato servizio.
Come abbiamo visto più volte, la professione del mediatore/trice culturale è abbastanza recente nel contesto italiano, per cui le sue funzioni, il suo ruolo333 e le sue relative competenze sono ancora oggetto di riflessione. I servizi si sono ritrovati così a lavorare con una nuova figura professionale334, con la quale condividere un progetto di intervento. Il servizio diventa il primo luogo entro cui fare mediazione. Il rapporto fra operatori e mediatori/trici è difatti una prima forma mediazione. In effetti, oltre ad essere una tipologia di intervento, la mediazione è innanzi tutto un approccio relazionale e una modalità di rapportarsi
332 Regione Emilia-Romagna, Il Repertorio delle qualifiche regionali in Emilia Romagna, Formazione Corsi e Percorsi per il Futuro.
333 Seguiamo quanto dice Lorenzo Speranza a proposito del ruolo: “Innanzitutto, nello schema di Parsons, come è noto, non si confrontano gli individui in ‘carne e ossa’, ma i ‘ruoli’, cioè i comportamenti ‘richiesti’ dalla posizione occupata” (Lorenzo Speranza, I poteri delle professioni, Rubbettino, Soveria Mannelli, 1999, p. 23).
334 “Per figura professionale si intende un insieme di ruoli lavorativi, operanti su processi lavorativi simili e connotati da competenze professionali omogenee, che possono essere esercitate in diversi contesti (occupazionali, organizzativi, contrattuali)” [Regione Emilia-Romagna, op. cit., p. 3].
all’altro, che tiene conto di differenze e di punti di vista che non riguardano solo i mediatori, ma tutti gli interlocutori coinvolti. Secondo Manuela Fumagalli: “In altri termini, i servizi non sono luoghi neutri, sia perché chi vi lavora o li frequenta è portatore di proprie specificità e modelli culturali, sia perché l’organizzazione a cui fanno riferimento plasma e condiziona, attraverso regole di funzionamento, la vita del servizio, le possibili prestazioni, le competenze, gli iter funzionali e burocratici”335.
Effettivamente, in molti casi un nodo critico è rappresentato dall’intreccio fra i confini delle varie professionalità. In questi casi, gli sconfinamenti fra professioni limitrofe diventano terreno di conflitti interprofessionali. Secondo il sociologo Lorenzo Speranza, tali conflitti derivano dal fatto che: “quello di professione non è un termine neutro o meramente classificatorio (tassonomico
appunto), ma rappresenta l’esito di una battaglia condotta con strumenti culturali”336. Attraverso pratiche culturali, le professioni trasformano le fonti di interrogativi in giurisdizioni. Le professioni si disputano una giurisdizione337, si stabilisce una divisione del lavoro attraverso la competizione, le cui armi sono i rispettivi corpi di conoscenze teoriche e il loro utilizzo. Tali dispute sono indirizzate a circoscrivere un territorio su cui una professione rivendica la competenza esclusiva. Nel nostro caso, più volte è stato sottolineato che gli operatori temono un’invasione del proprio spazio lavorativo, una ‘minaccia’ alle proprie competenze, a causa anche dell’indefinitezza dei ‘confini’ delle aree di intervento dei mediatori/trici. Difatti, il principale problema si pone a causa della mancanza di una chiara definizione professionale di questa figura, ed è tale carenza che comporta come conseguenza una serie di difficoltà. “Un ruolo senza confini –secondo Anna Belpiede– rischia di essere pressato da più controtendenze, come quella di espandersi troppo e di entrare poi in corto circuito, o di essere sensibile all’intervento altrui, di aver paura di essere invasi”338.
335 Manuela Fumagalli, Se le radici sono deboli…Mediazione interculturale in ambito sociale, in Lorenzo Luatti (a cura di), op. cit., p. 160.
336 Cfr. Lorenzo Speranza, op. cit., p. 37.
337 Anche se solitamente i conflitti di giurisdizione riguardano professioni diverse, essi esistono anche a livello intra-professionale e riguardano le diverse specializzazione all’interno della stessa professione. Nel nostro caso potrebbero esistere all’interno delle diverse aree di intervento: educativa-scolastica, sanitaria, del carcere, del lavoro ecc.
É chiaro che una confusa definizione delle competenze compromette la reale efficacia di un’azione di mediazione, sia nel senso che un mediatore si improvvisi tale, sia nel caso in cui, pur possedendo requisiti qualificanti, generi in chi vi incorre il dubbio di una scarsa professionalità. Nelle parole di una nostra intervistata:
La sovrapposizione dei ruoli tra le diverse professioni è anche data dalla complessità, dalla mancanza di risorse, e quindi ti lasciano fare cose che non dovresti fare e che non hai le competenze per farle. Si c’è uno scarico [ride] da tutte le parti e poi c’è anche che i confini, fra le varie professioni nel sociale, sono labili. I confini con le altre professioni si toccano in continuazione. [Mila Gallindo Flores]
Da ciò l’importanza della necessità di dare un riconoscimento professionale alla figura del mediatore che sia inquadrato anche dal punto di vista normativo. Questa ci sembra l’unica soluzione realmente in grado di rendere più certe e note competenze e professionalità. Solo in questo modo sarà possibile legittimare la presenza dei mediatori agli occhi di utenti ed operatori, rendendo più facile e plausibile il fondamentale raccordo del lavoro con questi ultimi.
Nello specifico, diverse ricerche hanno messo in evidenza come la conflittualità fra mediatori/trici ed operatori/trici cambia a seconda delle figure professionali con le quali si lavora. Nell’ambito sociale i rischi connessi a ciò possono essere svariati. Tra questi troviamo prima di tutto la richiesta al mediatore di svolgere ruoli prettamente esecutivi, o al contrario la delega totale, a volte in sostituzione di altre figure, come ad esempio l’assistente sociale.
Inoltre, nel rapporto operatore/trice italiano/a e mediatore/trice può essere presente il rischio della competizione, nel senso che gli operatori si sentono, a volte, tagliati fuori dalla relazione con l’utente, mentre il mediatore può vedere l’operatore come un’antagonista invece che come una persona con la quale collaborare. Spesso i mediatori si trovano in una posizione asimmetrica nei confronti degli operatori, non avendo un uguale ‘potere’ a causa della posizione lavorativa e della gerarchia del servizio.
Nei servizi pubblici e privati l’intervento del mediatore è maggiormente di affiancamento all’operatore nativo, e le funzioni più richieste sono: interpretariato
linguistico-culturale339, informazione della realtà organizzativa e istituzionale italiana, facilitazione della conoscenza reciproca fra operatore e immigrato. Si tratta di funzioni che, se svolte con un buon livello di professionalità, diventano fondamentali per promuovere interventi sociali corretti e adeguati nei confronti della popolazione immigrata. Difatti, il mediatore è una specie di supporto dell’operatore, non lo sostituisce e non deve farlo, pur partecipando attivamente all’intero processo che coinvolge l’utente/immigrato e l’operatore. Tale aspetto comporta che il mediatore abbia delle competenze specifiche, ad esempio le sue capacità relazionali e comunicative, ma anche delle caratteristiche personali che gli permettano un giusto relazionarsi ai due soggetti in una sorta di complessa, ma necessaria neutralità. Egli facilita l’incontro, ma non assume comportamenti e decisioni che restano comunque dei due contraenti.
Nei servizi pubblici la responsabilità dell’intervento ricade sull’operatore in diverse situazioni340:
• dove sono previste delicate funzioni di controllo sociale e/o dove gli operatori rivestono (con minore o maggiore responsabilità e conseguenze) funzioni, per le quali sono tenuti a rispondere del loro operato;
• dove il lavoro è fortemente qualificato e specializzato e con responsabilità penali, come in campo medico, sanitario, non di tipo preventivo.
In queste situazioni, il ruolo del mediatore è di fatto fortemente limitato, e il suo intervento, se non vuole tradursi in un semplice ruolo di interpretariato, necessita di un particolare affiatamento con l’operatore nativo.
É di fondamentale importanza che il lavoro di mediazione sia inserito in un progetto strutturato che prevede un’organizzazione specifica al quale il mediatore deve attenersi. Ciò che risulta importante affinché vada a buon fine questo tipo di lavoro è il coordinamento fra le strutture interessate, il così detto lavoro di rete. L’ottica da assumere è quella di inserire tale figura in un sistema e utilizzare il lavoro di un professionista, preparando il luogo dove egli/ella deve
339 Intendendo questa funzione nella sua accezione più ampia: traduzione, decodifica culturale, facilitazione della comunicazione e della relazione.
agire attraverso l’aggiornamento continuo degli operatori a contatto quotidianamente con l’utenza straniera.
Un ulteriore difficoltà può essere costituita da rapporti non corretti instaurati tra mediatore/trice e utente, che esulano dai canoni del rapporto professionale e che complicano il lavoro degli operatori. Marta Castiglioni ritiene che in alcuni casi il mediatore si identifica con l’immigrato. In questi casi, il pericolo è quello di sbilanciare a tal punto il suo intervento da favorire un feedback che escluda l’operatore italiano dal processo di comunicazione. Se i mediatori si lasciano coinvolgere emotivamente dalle difficoltà personali, o dalla situazione di vita dello straniero, difficilmente potranno svolgere il loro ruolo; essi si caricheranno di tensioni e ansie che renderanno difficoltoso il loro compito. Di fatto, i mediatori non riescono a stabilire degli ‘argini’ entro i quali contenere le aspettative, i valori, gli interessi, i bisogni e i sentimenti latenti o espressi, e decodificarli senza dimenticare il ruolo di interfaccia con l’operatore italiano. É di fondamentale importanza spiegare chiaramente all’immigrato il contesto organizzativo, differenziando i ruoli delle diverse figure professionali e accompagnandolo nei diversi passaggi burocratici.
Occorre tuttavia prendere in considerazione anche l’eventuale rifiuto da parte degli utenti di utilizzare la risorsa della mediazione, a fronte di scelte e di abbinamenti non consoni. Non sempre l’appartenenza allo stesso paese di origine facilita la comunicazione del mediatore con lo straniero perché possono scattare dei meccanismi di diffidenza e sentimenti persecutori da parte dell’immigrato, con il risultato di mascherare il suo reale problema. Inoltre, la presenza del mediatore può attivare il ricordo di modelli di comportamento socialmente desiderabili nel Paese di origine, lasciati da parte nella nuova realtà. Come afferma Castiglioni: “Nel caso di una donna che per la sua situazione di immigrata deve ricorrere all’IVG, se vi è conflitto con i suoi principi culturali, morali o religiosi, oppure quando si tratta di un problema di alcolismo in persone di religione islamica, la presenza di un mediatore di uguale appartenenza può essere fonte di conflittualità espressa o latente”341. In casi come questi è necessario che riservatezza e segreto professionale siano garantiti senza alcuna ambiguità. Questo messaggio deve essere esplicitamente manifestato quando mediatore e utente appartengono alla
stessa comunità. Un clima di fiducia nei confronti del mediatore è la base per un ‘buon’ esito del processo mediativo.
Infine, non si devono trascurare variabili quali il sesso, la nazionalità e il livello culturale, che inevitabilmente influiscono sulla possibilità di mediazione. Per esempio, il rapporto di mediazione con le donne arabe deve “essere tenuto da una mediatrice di sesso femminile dato che nella cultura di appartenenza di queste donne alcuni valori condizionano fortemente la possibilità di comunicazione: l’educazione legata alla separatezza dei sessi e il marcato senso del pudore, sono elementi da considerare dominanti nel rapporto con loro”342.
Non da ultimo, infine, il mediatore non dovrebbe cadere nell’estremo opposto trasformandosi nel portavoce del servizio, ed imponendo rigidamente la modalità omologante con cui questo spesso è organizzato.
Dall’analisi di esperienze ben riuscite e consolidate in tutta Italia, Anna Belpiede sollecita alcuni interventi, in orario di lavoro, che potrebbero sembrare un investimento di troppo, ma che, invece, facilitano e accelerano processi di buone pratiche. In particolare:
1. la formazione congiunta di mediatori e operatori al fine si supportare le nuove pratiche di lavoro congiunto e accompagnare processi di definizione dei ruoli tra mediatore culturale e le altre figure professionali;
2. la programmazione degli interventi congiunti, ovvero chiarirsi in anticipo gli obiettivi dell’intervento, in particolare quando si tratta di situazioni delicate o complesse;
3. preventivare riunioni di informazione tra mediatori e operatori sulla cultura degli utenti, in particolare su aree e tematiche presenti negli interventi;
4. far partecipare il mediatore alle riunioni di servizio per inquadrare gli obiettivi e i compiti di quel servizio;
5. formare i mediatori culturali sulle responsabilità e sui diritti e doveri a cui sono soggetti nell’inserimento nei servizi.
342 Ibìdem.