Continua in questo numero l’excursus sull’evoluzione dell’urbanistica di Firenze che più passa il tempo e più allarga il solco tra gli interessi della città e quello della speculazione.
1333-1841: quanto tempo è passato…
A
vevamo interrotto la nostra narrazione davanti all’immagine della città di Firenze cinta dalle mura della seconda cerchia, quella attribuita ad Arnolfo di Cambio. Guardiamole di nuo-vo queste mura: sono ancora quelle che furono ultimate nel 1333.La pianta è quella redatta dall’architetto Fantozzi nel 1841 quando Firenze contava circa 85.000 abitanti. La mostriamo, stavolta, in un suo particolare (fig. 1) perché sia evidente che, a quella data, sono ancora assai vasti gli spazi interni alle mura e, soprattutto, che tutto il perimetro esterno – concepito ampio a sufficienza per contenere ogni futura fortuna della città – è sempre percorso da una via di cir-convallazione e ampiamente libero da costruzioni.
1861: nasce l’Italia
È il 1861 quando Vittorio Emanuele ii, spinto dal conte di Cavour, cessa il suo titolo di re di Sardegna per darsi quello di re d’Italia fa-cendo così, di Torino, la provvisoria capitale della Nazione, in attesa che Roma venisse annessa al Regno. Su questo il conte di Cavour non transigeva ma la volontà di annettere all’Italia le terre del Vaticano, non piaceva a Napoleone iii, allora militarmente “padrone” di Roma
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e “protettore” del papa. Firenze, per la sua storia, aveva numeri suffi-cienti per essere riconosciuta Capitale e, infatti, bastò quella proposta a convincere i francesi che i Savoia non avevano mire sui territori della Santa Sede. Vittorio Emanuele e Napoleone iii addivennero così a un concordato per effetto del quale la Francia avrebbe ritirato le sue truppe da Roma.
La stessa proposta non convinse, però, i torinesi che, nel settembre 1864, armati non solo di bastoni, invasero piazza Castello e piazza San Carlo scontrandosi con i carabinieri. In due giorni si contarono più di cinquanta morti e centinaia di feriti.
Ciò nonostante, il 18 novembre 1864, la Camera dei deputati approvò:
«Vittorio Emanuele ii, per grazia di Dio e per volontà della Nazione Re d’Italia. Il Senato e la Camera dei Deputati hanno approvato; Noi abbiamo sanzionato e promulgato quanto segue: Art. 1. La capitale del Regno sarà trasferita a Firenze entro sei mesi dalla data della presente Legge; Art. 2. Per le spese di trasferimento è aperto nella parte straordinaria del Bilancio dell’Interno, ed in apposito capitolo, un credito di L. 7.000.000 ripartito come segue: Esercizio 1864: L.
2.000.000; Esercizio1865: L. 5.000.000».
fig. 1
fare e disfare…
1865-1870: Firenze capitale, il piano Poggi
Le mura erano sempre le stesse quando Firenze divenne capitale;
riuscivano ad accogliere comodamente 105.000 abitanti, ma subito si trattò per “rinnovare” e “ingrandire” la città, per renderla “più degna”
di accogliere la capitale del neonato Regno.
L’arrivo della capitale, al contrario di quanto era accaduto a Torino per la sua partenza, non provocò a Firenze particolari agitazioni; sol-levò, casomai, perplessità e preoccupazioni per gli effetti che potevano seguire l’evidente provvisorietà di quel trasferimento.
Le esprimeva anche uno dei principali fautori dell’Unità, il baro-ne Bettino Ricasoli. Primo ministro del Regno baro-nel 1861, scriveva a Puccioni, redattore de «La Nazione», il “suo” giornale, dallo stesso Ricasoli fondato nel 1859: «Firenze in questa occasione terribile avrà una bella pagina, come già ne aveva avute, e tanto più prosegua, che invero stimo che sia una vera disgrazia per essa l’essere stimata idonea a sede provvisoria del governo italiano, e le occorrerà un gran senno, una perfetta cognizione delle sue nuove condizioni onde evitare cru-deli e svariati disinganni».
Vittorio Emanuele ii fu il primo ad arrivare in città, ponendo la sua reggia in palazzo Pitti. Il re non amava Firenze, con le sue viuzze. Del resto, i Savoia anche a Torino avevano abbattuto quasi tutto ciò che c’era di “vecchio” in città, preferendo i grandi boulevard alle strette vie dell’Augusta Taurinorum, non più degne della capitale del Regno di Sardegna. Il Comune di Firenze, essendone sindaco Luigi Guglielmo Cambray Digny, obbedì così ai monarchici desideri, incaricando l’in-gegner Giuseppe Poggi della redazione di un “piano d’ingrandimento”.
Effettivamente il Poggi, che non si era mai impegnato nell’urbani-stica ma che conosceva le grandi città europee, cercò di arrivare alla richiesta grandeur con un uso smodato del piccone che non si fermava davanti a niente, nemmeno a monumenti come la Fortezza da Basso né alla parte più antica della città.
Il piano, che fu infine approvato, risparmiò la Fortezza ma demoliva radicalmente tutte le mura, prevedeva una quantità di sventramenti per allargare le strade dentro la cerchia, abbatteva completamente il centro storico intorno al mercato centrale per far posto alle costruzioni nelle quali si immaginava di trasferire anche i ministeri del neonato regno (fig. 2). La demolizione delle mura interessava beni già di proprietà pubblica ma gli sventramenti e le demolizioni nel centro avrebbero dovuto fare i conti con la proprietà privata ben protetta fino ad al-lora dallo ius del diritto romano, ma divenute possibili con l’istituto
dell’espropriazione per pubblica utilità, già introdotto nel Regno di Sardegna dallo Statuto Albertino e poi confermato nel 1865, con la legge 2359, prima legge urbanistica del Regno d’Italia. Operazioni possibili, dunque, ma onerose, essendo l’esproprio concepito solo come vendita coatta, indennizzata con l’intero prezzo di mercato dei beni espropriati.
Anche l’espansione della città fuori dalle mura, prevista dal piano Poggi, era necessario che fosse realizzata con grande rapidità, per dare casa ai dipendenti dell’amministrazione statale che sarebbero arrivati insieme ai ministeri. Qui, come sul fronte dei nuovi viali, l’espro-priazione non sarebbe servita: erano gli stessi proprietari chiamati a costruire sui loro terreni resi (finalmente!) edificabili. Ma i lavori andarono a rilento e i soldi disposti dalla legge del 18 novembre 1864, con Ricasoli ormai ritiratosi a Brolio, non furono sufficienti.
Dio volle che non tutte le previsioni urbanistiche dell’ingegnere ve-nissero attuate, grazie alla gravissima crisi finanziaria che investì Fi-renze per le troppe spese che dovette sopportare non sufficientemente compensate dal finanziamento governativo.
fig. 2
fare e disfare…
Firenze capitale: la bancarotta del comune e la fortuna dei privati Osserviamo ora un’altra immagine della città di Firenze, quella del 1865 per i tipi dell’Istituto Geografico Militare (fig. 3). È, si può dire, un’“istantanea” del 1865 scattata quando l’amministrazione del Regno aveva già scelto i luoghi dove operare; sui principali monumenti della città, infatti, leggiamo un numero che riporta all’elenco delle struttu-re governative che vi si insediarono: il Senato agli Uffizi, la Camera dei deputati e il Ministero degli Affari esteri in Palazzo Vecchio, il Ministero dell’Interno in palazzo Medici-Riccardi, il Ministero dei Lavori pubblici nel convento di Santa Maria Novella, il Ministero dell’Istruzione nel convento di San Firenze, il Ministero delle Finanze in via Cavour, il Ministero della Guerra nella Gendarmeria di piazza San Marco (dove oggi è l’Istituto Geografico Militare), il Ministero della Marina in palazzo Frescobaldi, il Tesoro alla Badia Fiorentina.
Dunque, tra palazzi già pubblici e i conventi già confiscati da Pietro Leopoldo nel 1786, tutti i ministeri trovarono subito il loro posto,
fig. 3
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quando ancora nessuno sventramento era stato fatto e le mura di Arnolfo erano ancora lì, intatte, con i grandi spazi che, per il divieto di edificare, esistevano ancora intorno alla cerchia. Li vediamo bene non solo nella pianta di figura 3 ma anche nelle stampe (fig.4) e pitture d’epoca (preziosa, per questo, la collezione dei dipinti di Fa-bio Borbottoni sulla Firenze scomparsa, conservata dalla Fondazione della Crf).
Ma ormai la “modernità” aveva affascinato tutti e il grandioso disegno poggiano fu inseguito con passione e col vivo interesse dei proprietari frontisti su entrambi i lati dei nuovi viali e la demolizione cominciò, anche se, ormai, la capitale stava già partendo per Roma e tutti quei boulevard il re non li avrebbe mai visti.
Firenze capitale mancata
Con la sconfitta di Sedan e la conseguente abdicazione di Napoleone iii, l’accordo stipulato con lui nel 1864, non aveva più significato e il Regno sabaudo decise che era giunto il momento di annettere Roma all’Italia. Già il 20 settembre 1870 i bersaglieri entrarono a Roma, con le milizie di Pio ix incapaci di qualsiasi resistenza e il 23 dicembre dello stesso anno la Camera, riunita in Palazzo Vecchio nel Salone dei Cinquecento, votò il trasferimento della capitale.
fig. 4
fare e disfare…
«Torino piange quando il prence parte.
Esulta Roma quando il prence arriva.
Ma Firenze, città culla dell’Arte,
se ne infischia quando arriva e quando parte.»
Questa quartina, orgogliosamente consolatoria, si diffuse tra i fioren-tini quando il piano Poggi non era stato ancora ultimato e ben poco era stato fatto della prevista espansione “fuori mura” che, del resto, sembrava non servire più: nel 1874 Firenze aveva già perso i 30.000 abitanti che erano arrivati con la capitale e, oltre ai “chiodi”, restò anche l’ultima cerchia che ancora ci soffoca: quella costruita dalle ferrovie del Regno spostata secondo il percorso voluto dal Poggi (fig.
2) e con la stazione centrale non più alla Leopolda.
Il trasloco della capitale a Roma si lasciò dietro una situazione finan-ziaria dissestata: i 7 milioni di lire disposti dalla legge del 1864 non bastarono nemmeno per cominciare e Firenze si ritrovò con quasi 90 milioni di lire in debiti da ripianare, con dubbi sulla correttezza della conduzione dei lavori, conseguenti polemiche e inchieste parlamen-tari nelle quali furono coinvolti l’ingegner Poggi e Ubaldino Peruzzi, dal 1870 sindaco di Firenze.
Nessun aiuto arrivò dallo Stato, al Comune di Firenze arrivò solo la donazione di Palazzo Vecchio, preziosa ma inutile per colmare i debiti.
1885-1890: la demolizione del centro
La demolizione delle mura non bastò a soddisfare la speculazione edilizia: nel progetto di Poggi c’era anche lo sventramento delle vie Calzaiuoli, Cerretani, Tornabuoni e la demolizione integrale del cen-tro storico, che faceva davvero gola alle imprese edili cui aveva portato capitale a buona parte della borghesia fiorentina e piaceva anche ai proprietari, alle famiglie della vecchia nobiltà, che si erano ritrovati a possedere immobili da loro abbandonati da tempo, rimasti senza reddito alcuno per il totale degrado. Infatti, dopo il lungo e triste periodo del ghetto ebraico, terminata la discriminazione razziale con l’arrivo dei Lorena, nessuno aveva più curato la manutenzione di quelle costruzioni; i servizi pubblici erano venuti del tutto a mancare e, pian piano, tutta la zona era stata completamente occupata dalla classe più povera dei fiorentini, da disperati e malviventi.
La legge n. 289 del 1885, detta “Legge di Napoli”, approvata per il risanamento di quella città, rendeva possibile l’espropriazione
cor-jodice
rispondendo anche assai meno della metà del valore di mercato dei beni espropriati. Poteva essere tranquillamente applicata in tutti i centri urbani purché fosse necessaria, come a Napoli, per restituire una perduta salubrità.
Questa legge sarebbe stata utile per “acquistare” al progetto tutti gli immobili da demolire, compresi quelli in mano a proprietari resisten-ti alle previsioni del Poggi.
Dunque, nonostante la contraria volontà di molti fiorentini, con un’abile operazione di manipolazione dell’opinione pubblica, a capi-tale mancata, a Comune fallito e a Fondiaria fondata, si dette comun-que inizio alle demolizioni, mentre Telemaco Signorini dipingeva il Mercato Vecchio e scriveva:
«Fosti per tutto de’ toscani autori sorgente viva di linguaggio usato, ed ora t’hanno ucciso i professori.
Addio per sempre, povero mercato, addio studio di forme e di colori, dal secolo dei dotti inesplorato.»
Le prime a crollare furono le piccole costruzioni dei beccai, che si erano adunate intorno allo spazio del mercato dopo che erano state sloggiate dal Ponte Vecchio in occasione della costruzione del Cor-ridoio vasariano. Nella piazza ormai vuota si vede bene che i fronti
fig. 5
intorno al mercato vecchio erano di costruzioni ancora dignitose (fig.5): i commercianti – proprietari o affittuari – avevano sostanze sufficienti per star dietro alle manutenzioni, ma il problema non era qui… il problema era in tutto ciò che vi stava intorno (fig. 6).
«Negli stessi tuguri dormono in terra vecchi, prostitute e bambini – interi quartieri dove regna il vizio e una miseria incredibile – una città orrenda fatta di catapecchie, malattie e odori nauseanti…»
È un brano del primo di nove articoli che uscirono per nove dome-niche consecutive sul giornale fondato da Bettino Ricasoli (furono poi anche raccolti nel libro Firenze sotterranea, oggi ristampato da Editoriale Le Lettere). Sono davvero interessanti da leggere (fig. 7).
Questi articoli del giornalista Giulio Piccini, che si firmava come Jarro, sortirono l’effetto desiderato: i fiorentini si convinsero e la demolizione avvenne.
Un particolare grottesco: dopo la pulizia della piazza del mercato vecchio, prima ancora che si provvedesse alla demolizione degli edifici del contorno, la prima cosa fu la posa e l’inaugurazione dell’enorme monumento a Vittorio Emanuele ii, poi sfrattato alle Cascine.
Subito dopo si cominciò a demolire, mandando perduti molti tesori:
sedi di Arti (che non esistevano più dopo l’istituzione della Camera di Commercio voluta da Pietro Leopoldo), case e torri nobiliari ab-bandonate dai proprietari, chiese ed edifici medievali: le torri degli
figg. 6-7
Ubaldini, dei Caponsacchi, dei Visdomini, dei Castiglioni… e poi le case degli Strozzi, la chiesa di Sant’Andrea…
Per avere una pur vaga idea del disastro, si osservi la figura 8 dove ho sovrapposto due planimetrie dei dintorni di piazza della Repubbli-ca: quella in grigio mostra l’assetto urbano prima delle demolizioni, quella in nero, l’attuale. Così, al termine di questo sfacelo, ci è restata quella brutta piazza Vittorio Emanuele con la triste lapide che con-tinua a offendere i fiorentini.
Bibliografia consigliata
C. Cresti, Firenze Capitale mancata, edizioni Electa, 1995.
G. Spadolini, Firenze capitale. Gli anni di Ricasoli, Le Monnier, 1979.
M. Vannucci, Firenze Ottocento, Newton Compton, 1992.
Jarro, Firenze sotterranea, Editoriale Le Lettere, 2017.
fig. 8