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In questa prima parte, l’articolo, tra leggenda, storia e geografia, insegue per il Mediterraneo il mito dei delfini tursiopi che tanto hanno occupato, con la loro caratteristica prossimità agli uomini, l’attenzione degli autori da Omero a Plinio a Ovidio e colmato di racconti la mitologia classica.

L’inno omerico a Dioniso

L’

inno omerico a Dioniso è uno dei 34 inni scritti soprattutto fra il vii e il vi secolo a.C. (datazione dipendente da quella di Omero) nella lingua poetica omerica e con i medesimi esa-metri dattilici. L’attribuzione a Omero risale a Tucidide, nella prima metà del v secolo a.C. Di questi, 32 sono stati ritrovati in manoscritti bizantini, forse provenienti dalla biblioteca di Alessandria, fra i papiri portati a Costantinopoli dopo il ritiro dei bizantini dall’Egitto per l’irruzione degli arabi. I rimanenti, l’Inno a Dioniso e l’Inno a Demetra, sono stati scoperti a Mosca nel 1777 in un manoscritto del xv secolo.

L’Inno a Dioniso contiene il mito del suo rapimento da parte dei pirati tirreni, poi trasformati in delfini.

La metamorfosi di uomini in delfini tursiopi costituisce il cuore del mito uomo-delfino per un periodo che va dal xvii secolo a.C. dei minoici, al xv-xii secolo a.C. dei micenei fino al vii-v secolo a.C.

dell’epoca ellenica. Quindi trova il suo posto nella mitologia raccolta e riscritta dall’Ellenismo in Alessandria. Prosegue in epoca romana nel i secolo a.C. con la narrazione naturalistica dei tursiopi da parte di Plinio ed entra a pieno titolo nelle Metamorfosi di Ovidio.

In tutte le immagini antiche, dalle pitture vascolari, agli affreschi, alle monete, ai monili, questi delfini sono sempre tursiopi, una

sot-preti tospecie molto particolare e a suo modo mitologica, la cui iconografia risale ai primi affreschi dipinti a Cnosso, e la loro presenza è accostata a molti dèi e miti ellenici (e di certo prima micenei e minoi-ci), in primo luogo Dioniso, perché mi appare più antico;

e poi Apollo, quest’ultimo per il suo santuario localiz-zato a Delfi. Ambedue sono

dèi micenei e prima minoici. Nella lingua greca delfis è il termine che indica il grembo di una donna e perciò il delfino è il cetaceo, il pesce-mammifero come gli umani; in latino delphinus, ma anche tursus, da cui deriva tursiope.

I delfini tursiopi

Chi sono i tursi o tursiopi? Sono cetacei molto simili e più grossi dei delfini (scient. delphinus delphis) che si trovano comunemente nel Mediterraneo e presenti oggi in tutti gli acquari del mondo col nome generico di delfini. Il termine scientifico è Tursiops truncatus, composto del latino tursionis (o thursio) e dal greco ”øéò, aspetto, col significato dalla faccia di.

Il Tursiops truncatus, o semplicemente tursio (meno usato), è un ge-nere di cetacei della famiglia delfinidi, lungo 4 o 4,5 metri, con muso corto e mascella inferiore leggermente più lunga di quella superiore;

vive in piccoli branchi formati da circa 10-20 individui (Vocabolario Treccani e Wikipedia). La colorazione è di colore grigio-azzurro con varie sfumature sul dorso; più chiaro sui fianchi. La sua caratteristica è il capo tozzo e rotondeggiante; mascella e mandibola allungate for-mano un rostro corto e camuso, lungo circa 8 centimetri. L’aggettivo truncatus (troncato, da latino), così come il nome comune inglese Bottlenose Dolphin (delfino dal naso a bottiglia), si riferisce proprio alla conformazione del rostro.

Nella letteratura antica i tursiopi hanno avuto un riconoscimento filo-umano rispetto agli altri animali, ampliato dal fatto di vivere in mare respirando aria e di partorire dei figli (uno per evento). Le loro caratteristiche sono state riassunte da Plinio (Naturalis Historia, ix, 8):

tursiopi/tursha, tursenoi, turrenoi, tirreni

«Il delfino [nel testo delphinus] non solo è un animale amico dell’uo-mo ma anche dell’arte della musica; è rallegrato dall’ardell’uo-monia del canto; […] non teme l’uomo come estraneo; va incontro alle imbar-cazioni, gioca e scherza, gareggia pure e le oltrepassa anche quando navigano a vele spiegate. Al tempo di Augusto imperatore, un delfino, entrato nel lago di Lucrino, si affezionò straordinariamente al figlio di un uomo […] che andava ogni giorno a scuola da Baia a Pozzuoli.

[…] Il ragazzino, fermandosi nel pomeriggio molto spesso lo allettava dopo averlo chiamato col nome di Simone [in latino Simonis] con pezzetti di pane che aveva portato con sé apposta. […] In qualsia-si momento del giorno quand’era chiamato dal fanciullo, anche se appartato e nascosto, balzava dall’acqua e dopo aver preso il pane dalla sua mano gli offriva il dorso perché vi salisse, ritraendo la spina del dorso come se la mettesse in una guaina. E lo portava a scuola a Pozzuoli attraversando un lungo tratto di mare e allo stesso modo lo riportava indietro, per molti anni; finché, morto per una malattia il fanciullo, venendo sempre al posto abituale triste e simile a uno che soffre, pure lui, nessuno ne dubiterebbe, morì di dolore».

Plinio non chiama il tursiope tursio, ma delfinus, e forse nel i secolo a.C. il nome greco ha oscurato quello latino più appropriato. Ho sot-tolineato Simone perché è il nome di uno dei marinai tirreni del ratto di Dioniso, nominato da Ovidio nelle Metamorfosi. Lo storico Franco Cardini, che ha scritto un saggio intitolato Il Delfino (in «Abstracta», n. 21, dicembre 1987), riporta che Simone era il nome familiare con il quale greci e latini chiamavano i delfini (cioè i tursiopi) per il loro profilo camuso (simòs in greco e simus in latino significano, appunto, camuso). Non mi sembra però che possa funzionare l’uguaglianza Simo-ne-Simùs, semmai solo un’assonanza (vedi più oltre Simone-Shimeon).

Plutarco ci dice che: «In relazione al rapporto fra animali e uomo, soltanto nel delfino si trova quella cosa che vanno cercando tutti i migliori filosofi, ovvero l’amore disinteressato. Questo animale, infat-ti, non ha bisogno di ricevere nulla dagli umani e, dal canto suo, nei confronti di tutti gli uomini mostra la sua benevolenza e amicizia, e molte persone ha soccorso in passato».

preti Oggi gli scienziati (biologi marini ecc.) si occupano delle abilità, intelligenza, dei tursiopi e della loro interazione con gli esseri umani.

Si legge su Wikipedia, alla voce “Tursiops Truncatus”:

- Può immergersi fino a 200 metri di profondità con un’apnea fino a 15 minuti.

- Vive fino a oltre 30-35 anni. È un animale sociale che forma gruppi anche molto numerosi.

- Quando nuota in superficie ha l’intelligenza di sfruttare la spinta dell’onda prodotta dalla prua di una nave raggiungendo una velocità di 25 nodi/h (fenomeno noto fino dall’antichità). La più alta per un animale marino.

- È dotato di ecolocalizzazione (meccanismo simile al sonar) per cacciare le sue prede e comunica con gli altri attraverso suoni usando l’aria mo-dulando fischi e ticchettii.

- Il tursiope è il delfino più conosciuto e studiato; alcune abilità di que-sto animale si sono rivelate molto utili, ad esempio per aiuto a lavori di subacquei professionisti e al rilevamento di ordigni.

- L’interazione diretta dell’uomo con i tursiopi in cattività (negli acquari) è usata nella terapia di molti adulti e bambini portatori di handicap e molti medici ritengono che ciò abbia degli effetti altamente positivi, soprattutto nel trattamento della depressione o dell’autismo.

- I tursiopi aiutano i loro simili feriti tenendoli fuori dall’acqua per respirare, un comportamento talvolta osservato anche nei confronti di subacquei in difficoltà.

- Anche oggi sono note storie di tursiopi che hanno salvato esseri umani dall’annegamento.

- In Brasile, presso la località di Laguna, sono stati osservati dei tursiopi che cooperano con i pescatori per catturare i pesci ed entrambi se ne avvantaggiano.

- I tursiopi possono però anche essere dannosi per i pescatori, cui lacerano le reti per cibarsi dei pesci in esse intrappolati.

Il simbolismo del delfino tursiope

Quattro miti che coinvolgono i tursiopi: l’inno omerico a Apollo; Arione, la cetra; Taras, Falanto; l’inno omerico a Dioniso

Per simbolismo del delfino si deve intendere la serie di creden-ze leggendarie di popolazioni mediterranee e del Mar Nero basate sull’affinità sentimentale fra l’uomo e il delfino tursiope: è salvifico, segue in mare i marinai e si trasforma anche in psicopompo, cioè

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accompagnatore delle anime nell’aldilà; ama la voce degli uomini e la musica. La metamorfosi da uomo a pesce può essere vista anche come rigenerazione dell’anima e, quindi, avvicinata a culti misterici.

Il simbolismo si forma saldamente in epoca minoica e poi micenea e viene completamente adottato dalla cultura ellenica e successiva-mente romana e infine cristiana.

I miti più importanti riguardano dèi primigeni, ambedue minoi-co-micenei: Apollo e Dioniso.

Apollo è dio anatolico ittita-hurrita col nome di Aplu – che rimane identico in etrusco – proveniente dal dio accadico con lo stesso nome:

Aplu Enil (figlio di Enil), titolo del dio Nergal connesso a Shamash, il sole (al capitolo 5.4). Nella mitologia greca i gemelli Apollo e Artemi-de (Cybele in Anatolia) nascono sull’isola di Delo, come ci racconta la prima parte dell’Inno ad Apollo per bocca della madre Laro (Latona) sposa di Zeus. L’isola, posta alla metà della rotta centrale egea fra la riva anatolica e quella greca, diventa il loro santuario già nel xviii secolo a.C., cioè in epoca minoica, e i resti archeologici lo dimo-strano. Sulle altre due principali rotte di attraversamento dell’Egeo si trovano ancora isole sacre: su quella nord, dalle Sporadi a Lemnos fino ai Dardanelli, troviamo Samotraki col santuario dei Kabiri; su quella sud, che passa per le isole di Rodi, Creta e Citera, troviamo, su quest’ultima, il santuario di Afrodite-Ashtart-Venere. Le tre rotte sacre dimostrano quanto il sistema egeo fosse parte del mondo chia-mato minoico-miceneo durato dal xviii al xii secolo, comprendente anche le opposte coste orientali e occidentali (Finkelberg, op. cit.).

L’Apollo minoico-miceneo ha un importante tempio con bosco sacro a Tebe adiacente al lato nord delle mura della Cadmea (oggi ne rico-nosciamo solo il recinto) e la stessa Cadmea è orientata verso il sole.

Apollo è anche il dio protettore di Troia, come ci racconta Omero.

In ambedue i casi è un dio non-acheo (ricordo che gli Achei, popolo anatolico, si sono infiltrati nel Peloponneso verso il xiii secolo a.C.).

La seconda parte dell’Inno narra con la voce dello stesso Apollo, ora in veste ellenica-dorica, della fondazione del suo santuario oracolare a Delfi, nella Focide, dopo aver scardinato l’esistente culto di Gea e di suo figlio drago-serpente Pitone. Per farlo si trasforma in un delfino (tursiope) che in mare aperto balza con fragore su una nave cretese – forse proveniente da Corinto – e impone ai marinai stupefatti di essere condotto a Crisa (il porto di Delfi). Dopo aver ucciso Pitone, ordina quei cretesi (anche Creta ora è dorica) come sacerdoti del suo culto. Il nome dello stesso santuario si riconduce al Delfino-Apollo.

L’avvenimento, cioè il cambio di culto, risale al vii secolo a.C.

preti Il mito Apollo-delfino sembra collocarsi tutto nei mari greci nord-oc-cidentali, soprattuto il mare di Corinto e lo Ionio fino al golfo di Ta-ranto in Magna Grecia, e quindi essere una elaborazione achea/dorica.

Sempre in relazione ad Apollo, viene ricordato il mito di Arione (Erodoto, i), un famoso citaredo nativo di Lesbo. Il mito accredita i delfini come amici della musica (Plinio). L’avvenimento si colloca presumibilmente nell’vii-vi secolo a.C., quando il musico (nativo di Lesbo), famoso in tutta la Grecia, si trova a Taranto chiamato dal re Periandro. Nel momento in cui Arione decide di partire per Corinto con tutti i suoi beni, sceglie una nave cretese (di nuovo, come Apol-lo) perché gli dà più affidamento. Una volta in mare aperto, però, i marinai, allettati da quel tesoro, decidono di rapinarlo e ucciderlo.

Airone allora propone loro di essere gettato in mare con la sua lira, con cui fa un ultimo canto, invocando per aiuto Apollo che gli manda in soccorso un delfino (oppure il delfino è attirato dalla musica) che lo conduce sano e salvo a Capo Tenaro (o Teinaro). Qui già al tempo di Erodoto esisteva una statua di un uomo a cavallo di un delfino, forse Arione stesso (Erodoto, i, 24, 8). Di qui per via terra raggiunge Corinto, che era la sua meta. Il testo dice letteralmente: «qui, una volta a terra, se ne andò con le stesse vesti a Corinto» (che sembra una gitarella con sandaletti). Devo commentare che la geografia ci mostra qualcosa di molto diverso: il Capo Tenaro si trova in Peloponneso all’estremità della penisola del Mani, ed è il punto più meridionale dell’intera Grecia, l’approdo è possibile perché ci sono diverse baie riparate. La nave cretese probabilmente seguiva la rotta nello Ionio per Creta (non quella più breve per Corinto), e quindi è logico lo sbarco in quel punto. Non è logica l’espressione dell’inciso di Erodo-to, perché per andare da Capo Tenaro a Corinto si deve attraversare l’intera Laconia per monti e valli passando per Sparta: un viaggio di diversi giorni di circa 220 chilometri.

In seguito all’episodio Apollo muta il delfino e la lira in una costella-zione: una ennesima metamorfosi nello stesso mito.

Seguendo il filo della musica si passa a un epigramma attribuito a Posidippo, che parla di una cetra persa in mare, salvata da un delfi-no e portata sulla riva presso il tempio di Arsidelfi-noe (come Afrodite, Venere); raccolta dal guardiano di quel tempio e donata alla dea. Il poeta Posidippo (iv-iii secolo) nasce in Macedonia, vive a Samos e infine si sposta in Egitto a Alessadria alla corte di Tolomeo i e ii (ma-cedoni), dove c’è ormai la nuova cultura. L’epigramma testimonia la grande diffusione di questi miti sui delfini. In letteratura si suppone che il tempio fosse quello egiziano di Arsinoe Zefiride fra Canopo

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e Alessandria. Tuttavia i letterati generalmente ignorano il culto e il santuario dei Kabiri di Samotraki, dove si trovava il maggior tempio antico tirreno, di tipologia circolare, distrutto dai Persiani e ricostru-ito sulla sue fondazioni o dagli ateniesi fra il v e iv secolo a.C. o dai macedoni nell’ultimo quarto del iii secolo a.C. Poiché mi sembra troppo tempo due secoli di ruderi nel centro del santuario, forse i macedoni l’hanno ristrutturato. Il suo diametro di circa 20 metri e l’altezza ricostruita graficamente di circa 18 metri ne fanno il tempio circolare maggiore della Grecia (comprendendovi la Macedonia). Il maggior tumulo circolare miceneo (di Atreo, a Micene), risalente al 1250 a.C., ha un diametro di 14,80 metri per un’altezza di 13,80 metri.

Dobbiamo meravigliarci di quella tholos circolare tirrenica campione di larghezza. Il tempio viene chiamato Arsinoeon da Arsinoe ii, regina in Macedonia, poi passata in Tracia e quindi in Egitto, deceduta nel 268 a.C. Mi sembra evidente che questo sia il tempio conosciuto da Posidippo, molto più credibile di quello egiziano. Il santuario dei Kabiri è importante per la nostra storia di delfini dell’Egeo e di culti misterici.

Un ultimo mito (diviso in due parti) si svolge nel mare Ionio, di ori-gine paleo-achea, e riguarda il nome e la fondazione di Taranto (Taras, ÔÜñáò in greco). Il dio è Taras, palesemente minoico in quanto figlio di Poseidone e di Satyria, una ninfa, e sposo di una figlia di Minosse, Satureia. Quindi siamo nei primi secoli del secondo millennio. Ci

preti

interessa per le sue consonanti trs, come vedremo. Taras giunge con una flotta di tirii e cretesi (cioè fenici e cretesi) nel territorio degli iapigi alla foce di un fiume. È importante la citazione di tirii e cretesi insieme, che avalla le conclusioni di molti studiosi secondo i quali l’epoca minoica sia stata caratterizzata da una unica cultura sulle due sponde dell’Egeo (Finkelberg). Il fiume che prende il suo nome, Tara, si trova a circa 5 chilometri a ovest del Mar Piccolo, oltre l’area dove si situa oggi la parte industriale di Taranto. In quell’epoca il litorale era più arretrato e la sua foce poteva essere circa 1 o 2 chilometri più a est. Il Tara è un fiume speciale: carsico, nasce da una gravina a 10 chilometri dalla costa, si interra e riaffiora dal terreno a 2 chilometri dal mare, raccoglie acque fresche e filtrate della Murgia con una buo-na portata costante per tutto l’anno: un vero tesoro buo-naturale ancora oggi. Mentre Taras si trova sulla spiaggia a fare sacrifici propiziatori improvvisamente vede un delfino saltare fuori dalle onde, che in-terpreta come buon auspicio per la fondazione di una città che poi

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prende il nome di Saturo (forse sat-ur; con ur come città in accadico) dal nome di sua madre o dalla moglie. Sarebbe logico pensare a un insediamento alla foce di quel fiume. La letteratura invece indica un sito molto antico, oggi parco archeologico, nominato Saturo, presso l’abitato di Leporano, 12 chilometri più a oriente, su un promontorio fra due insenature, tipico come sito minoico-miceneo. Io non credo che sia questa la città di Taras, per ovvie ragioni geografiche, né credo che Taranto lo sia. D’altra parte, molti sono i siti minoico-micenei che si trovano in questa parte della Puglia e non citati dal mito. Taras poi scompare nel fiume durante un ulteriore rito e il suo corpo non viene mai recuperato: richiamato da Poseidone.

La seconda fondazione mitica di Taranto (l’unica con fondamen-ti archeologici) avviene nell’viii secolo a.C., a opera di fuoriuscifondamen-ti di Sparta chiamati Parteni, figli di Iloti (gli Achei fatti schiavi dai Dori) e di donne doriche, capitanati da un ecista di nome Falanto, che compare nella monetizzazione tarantina su un delfino tursiope.

L’evento della separazione da Sparta è narrato con tutti i particolari da Tucidide e da Eusebio di Cesarea. È questa fondazione che viene dedicata a Taras, dio minoico-miceneo (e quindi acheo), non spar-tano. In letteratura si afferma che Taranto è una colonia di Sparta, ma è una interpretazione non corretta. Anche se Falanto non fosse un acheo ma uno spartiata (qualche studioso l’afferma, fuori logica, spinto dal volere la colonia come spartana) la sostanza non cambie-rebbe. Infatti, i fuoriusciti (di etnia mista, achea-dorica e certo con sentimenti antispartani) si sono indirizzati verso l’unico areale acheo d’oltremare costituito dalla Magna Grecia: Sibari e Metaponto sono achee. Falanto entra nel mito dei delfini perché la sua nave naufraga e lui viene trasportato a terra da un ennesimo e fatale delfino, forse lo stesso dio-delfino Taras.

Mario Preti è stato docente di Estimo alla Facoltà di Architettura di Firenze