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Il caso Dell’Utri Un’occasione per cogliere l’autentico punctum dolens de

Nel documento Il "concorso esterno" nei reati associativi (pagine 163-167)

La decisione adottata dalla Suprema Corte nel caso Dell’Utri309, insieme alle stringenti parole del procuratore sostituto Iacoviello, sembrano riaprire uno spiraglio di luce nello scenario di una giurisprudenza sovente mossa da pregiudizi di natura per così dire “etica” e da istanze repressive nel pervenire a condanne prive di un adeguato supporto motivazionale. In questo contesto, la pronuncia del 2012 finisce con l’assumere quasi il ruolo di pronuncia “esemplare”, capace di dimostrare come il rispetto dei principi fissati dalle Sezioni Unite Mannino possa condurre a soluzioni conformi al principio di legalità in materia penale.

Merito della requisitoria di Francesco Iacoviello è l’aver posto l’attenzione su una tendenza ormai particolarmente diffusa dell’accusa, consistente nel costruire l’imputazione assemblando tutti gli elementi di fatto risultanti dalle indagini senza distinguere preliminarmente se attengano al piano delle condotte

308 C.VISCONTI, Il concorso esterno, cit., p. 1322.

309 Cass. pen., Sez. V, 9 marzo 2012, n. 15727, Dell’Utri, cit.. La pronuncia annulla la

sentenza di condanna per concorso esterno nel reato di cui all’art. 416bis c.p. pronunciata dalla Corte d’Appello di Palermo del 29 giugno 2010, per aver l’imputato mantenuto contatti con esponenti della malavita organizzata, per aver prestato aiuto a latitanti appartenenti a detta organizzazione e per aver agevolato quest’ultima grazie alla propria conoscenza del mondo imprenditoriale, ed ai propri contatti in tale ambiente. I fatti principali contestati all’imputato riguardavano dunque i contatti che avrebbe avuto con mafiosi siciliani, come emerso dalle dichiarazioni di testimoni e collaboratori di giustizia e l’attività di agevolazione del sodalizio mafioso determinante era stata individuata nell’utilizzo delle aziende appartenenti al gruppo Fininvest al fine di riciclare somme di denaro di provenienza illecita.

Per la seconda pronuncia sul caso Dell’Utri, che ha concluso il processo con la condanna definitiva dell’imputato, vedi Cass. pen., Sez. I, 9 maggio 2014, n. 28225, Dell’Utri, cit..

oggetto di addebito ovvero al versante probatorio, determinando in tal modo una sovrapposizione tra fatto e prova.

A essere messa in discussione non è la meritevolezza di pena di quegli aiuti forniti alle consorterie mafiose, né tantomeno l’opera ricostruttiva svolta dalla Corte di legittimità nel tentativo di restituire un “protocollo” di tipicità all’istituto del “concorso esterno”, ma più semplicemente la sua incapacità a divenire diritto giudiziario a fronte di oneri probatori ritenuti evidentemente troppo pregnanti310.

La peculiare “duttilità” della figura si presta facilmente ad essere “plasmata” dai giudici, che in diverse occasioni hanno preferito avvalersi di questa categoria in luogo dell’inquadramento del fatto nell’ambito di fattispecie criminose di parte speciale più definite, come il favoreggiamento personale, sia pure aggravato, con soluzioni che sembrano piuttosto celare la volontà di « veicolare messaggi pedagogici alla pubblica opinione anche in chiave di etichettamento simbolico del disvalore politico o etico – sociale che, al di là della lesione giuridica strettamente intesa, si ritiene insito nei fatti in questione »311.

È quanto è avvenuto nel caso Cuffaro, imputato per “concorso esterno” nonostante la condanna per rivelazione di segreti di ufficio e favoreggiamento aggravati dal fine di agevolare la mafia. Nel presupposto dell’insufficienza della condanna a esaurire il disvalore delle condotte tenute dall’ex presidente della Regione siciliana, si è voluto riprendere gran parte dei medesimi fatti posti alla base della condanna passata in giudicato per considerarli elementi di prova del ruolo di concorrente nel reato associativo, con un’impostazione accusatoria che si pone limpidamente in contrasto con il principio del ne bis in idem.

310 Sulla reazione della magistratura a quanto statuito dalla pronuncia Mannino, vedi il

contributo di V.MAIELLO,Luci ed ombre nella cultura giudiziaria del concorso esterno, in Il concorso esterno tra indeterminatezza legislativa e tipizzazione giurisprudenziale, cit., pp. 157 e ss., il quale osserva come a una prima fase in cui erano diffuse le assoluzioni, nell’ambito di programmi probatori diretti a verificare l’esistenza di rapporti di vicinanza all’associazione sulla base delle sole dichiarazioni di collaboratori di giustizia, anziché la produzione di effettivi vantaggi in favore del sodalizio, sia seguito un fenomeno opposto, caratterizzato da condanne emesse anche in caso di mancata prova del contributo al consolidamento dell’organizzazione criminosa.

311 Sono le parole di G.F

IANDACA, Il concorso esterno tra guerre di religione e laicità giuridica, cit., in commento alla requisitoria del procuratore generale di Cassazione Francesco Iacoviello.

Dello schema del “concorso esterno” la magistratura fa talora uso quando non siano chiari i fatti per i quali si procede, ricomprendendo nell’imputazione fatti che poi vengono letti sia quali elementi costitutivi del reato sia come elementi di prova. Il fatto è che spesso nei procedimenti per “concorso esterno” non è chiaro agli stessi giudici per quali fatti specifici si proceda o se si proceda proprio per una condotta di partecipazione all’associazione criminosa.

La prima parte della requisitoria del sostituto procuratore generale Iacoviello pone l’enfasi sull’esigenza di formulare i capi di imputazione in maniera più dettagliata e comprensibile, poiché l’imputazione è la proiezione processuale del principio di tipicità della fattispecie penale. Non si tratta solo di rendere chiari all’imputato i fatti addebitati, ma anche di porre delle basi chiare per la motivazione della sentenza.

Nel caso Dell’Utri, « […] dalla motivazione si ricava l’imputazione ». Ma se la motivazione è diversa dalla sentenza, come la si può ritenere valida? Come può la condotta del concorrente avere i caratteri dell’estorsione, in un processo che però perviene alla condanna per il solo concorso nel reato associativo?

Secondo Iacoviello la sentenza del giudice di merito avrebbe dovuto dapprima affrontare la responsabilità dell’imputato per concorso nell’estorsione, per poi argomentarsi dal carattere strategico e continuato della condotta per un ampio lasso di tempo l’eventualità di una responsabilità per concorso nell’associazione.

Non è da porre in dubbio che il concorso possa consistere anche in un’attività lecita, ma perché a fronte di una fattispecie che consentiva un’iniziale contestazione per il delitto di estorsione riducendo i deficit di tipicità non si è scelto di contestare estorsione e concorso esterno, con un’imputazione decisamente più determinata?

Evidentemente « Il rischio era che se cadeva la partecipazione all’estorsione cadeva tutto ».

Qui non si tratta tanto di un problema di correlazione tra accusa e sentenza quando da un’iniziale contestazione per la partecipazione all’associazione si passi nel corso del processo a una contestazione per il “concorso esterno”. Nei processi a carico di soggetti indiziati di contribuire dall’esterno alla permanenza

dell’organizzazione criminosa avviene ben altro: si contesta il “concorso esterno”, indicando determinati fatti; poi si condanna sempre per il medesimo titolo di reato, ma per fatti completamente diversi che non sono indicati nel capo di imputazione. Prima ancora di un problema di correlazione si pone un problema di contestazione.

Venendo alla seconda parte della requisitoria, il p.g. ha contezza di stigmatizzare quell’uso così diffuso di “metafore” per descrivere la condotta dell’imputato.

Limitarsi a contestare la messa a disposizione del sodalizio, il ruolo di “canale di collegamento”, di “canale” o di “mediatore”, l’esercizio della propria posizione di influenza derivante dalla posizione di esponente del mondo finanziario e imprenditoriale senza indicare le forme concrete di condotta tenute dall’imputato e l’effettiva efficacia causale in termini di consolidamento o rafforzamento dell’associazione semplicemente, annulla quel preciso schema strutturale ben definito dalle Sezioni Unite Mannino per delineare l’istituto del concorso eventuale nel reato associativo.

« Le metafore non possono sostituire la condotta. Non si condanna sulle parole, ma sui fatti ». Prima bisogna descrivere la condotta, e solo dopo la si potrà qualificare.

Secondo Iacoviello, la sentenza impugnata sembra dire: « se tu sei amico della vittima tronchi ogni rapporto con gli estorsori e con i loro emissari, altrimenti sei complice ». Un capovolgimento totale di quanto anni di tormentato cammino hanno lasciato: le frequentazioni, i rapporti con membri del sodalizio criminoso non sono sufficienti a fondare incriminazioni a titolo di concorso nel reato associativo se non sia appurato un effettivo e concreto influsso causale sulla struttura e sulla vita associativa.

In una realtà in cui i giudici non di rado pervengono a condanne a titolo di concorso eventuale nel reato associativo anche in assenza della prova di un’efficacia causale sul consolidamento dell’organizzazione criminale, si colloca « […] il preteso scetticismo e/o nichilismo di Iacoviello. Il suo “grido” non ha natura “prescrittiva”: non esorta a fare a meno del concorso esterno. La sua è una constatazione: al concorso esterno non si crede perché esso ha smarrito la

capacità di disciplinare la materia del fiancheggiamento associativo, secondo criteri capaci di rendere prevedibili gli esiti processuali »312.

Sembra allora che sia la stessa magistratura a voler collocare il “concorso esterno” nell’ambito della lotta giudiziaria contro la mafia, allontanandosi dagli schemi del diritto penale “normale” fino ad impiegare una struttura causale debole al posto del rigoroso criterio causale, rimettendo così in discussione quanto deve ormai considerarsi pacifico.

6. Il “concorso esterno” nell’associazione di tipo mafioso innanzi alla

Nel documento Il "concorso esterno" nei reati associativi (pagine 163-167)

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