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Le vittime della “Pipeline” e il massacro di Hola

L’altro lato del conflitto, quello che coinvolse la popolazione nelle riserve e nei campi di detenzione e lavoro, fu combattuta con uguale ferocia, ma a partire dal 1955 con il contrasto, in patria, di parte dell’opinione pubblica britannica, sempre più resa edotta dei crimini commessi in Kenya dal governo coloniale. Fu a seguito della già ricordata sentenza Cram, delle dimissioni di Arthur Young da Police Commissionere soprattutto della concessione dell’amnistia del gennaio 195515 che si registrarono in Gran Bretagna le prime reazioni a quanto stava accadendo. Fu dapprima la Church Missionary Society, sempre nel gennaio del 1955, a criticare pubblicamente la politica del governo Baring, attraverso la redazione di un breve opuscolo nel quale era manifestata la ferma condan- na verso la scelta di amnistiare i reati commessi dalle forze di polizia e dalle Home Guard, nonché una generale denuncia dei metodi utilizzati dal regime coloniale, non so-

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lo negli ultimi anni, per governare il Kenya16. La questione giunse presto a Westmin- ster, dove le atrocità commesse divennero materia di aspro dibattito. La posizione uffi- ciale del Gabinetto, rappresentata da Lennox-Boyd e dal sottosegretario alle colonie Alexander David Lloyd, fu quella di riconoscere gli eccessi commessi dalle forze di po- lizia in Kenya, ma di sottolineare le circostanze straordinarie nelle quali tali episodi ma- turavano. La natura brutale della sollevazione Mau Mau rendeva inevitabile una risposta dura, che talvolta, in casi non sempre isolati, poteva condurre a superare la proporziona- lità17. In sostanza il governo britannico ammetteva i crimini commessi in Kenya e accet- tava formalmente di assumersene la responsabilità, salvo poi invocare attenuanti relative alla situazione che il conflitto con i Mau Mau imponeva. Le dimissioni di Churchill e lo scioglimento della House of Commons, con la successiva nuova affermazione elettorale del partito conservatore guidato da Anthony Eden, interruppero il dibattito parlamentare sul punto. Ma quando i lavori ai Comuni ripresero, alcuni esponenti del Labour Party riportarono la questione all’ordine del giorno. Fu soprattutto Barbara Castle a condurre un lungo braccio di ferro con Lennox-Boyd, confermato Ministro per le colonie anche nel governo Eden18, in particolar modo sulle circostanze che avevano condotto alle di- missioni di Arthur Young da Police Commissioner, e su quanto lui, Cram e MacPherson avevano scoperto riguardo alla sistematicità dell’uso della tortura e delle uccisioni indi- scriminate da parte della polizia. Non tutti nel partito laburista condividevano lo zelo della Castle, ma la dirigenza, alle prese con l’eredità della dura sconfitta nelle preceden- ti elezioni, dovette vedere nella questione anche un’occasione per recuperare terreno su- gli avversari.

In novembre, fu la stessa Barbara Castle ad effettuare un viaggio in Kenya per investi- gare personalmente la materia. Nei mesi precedenti aveva avuto modo di allacciare con- tatti con MacPherson, la sua principale fonte su quanto stava accadendo nel paese. La Castle fu accolta con ostilità dall’ambiente dei coloni e dall’esercito, tanto da essere an- che oggetto di intimidazioni, ma trovò la collaborazione di buona parte della comunità asiatica. Spostandosi per tutta la Provincia Centrale raccolse evidenze tali da dimostrare che la violazione dei diritti umani nei campi di riabilitazione e nelle prigioni fosse gene- ralizzata. Tornata in Gran Bretagna, ebbe modo di scrivere numerosi articoli a proposito della situazione della comunità kikuyu, sulle colonne del “New Statesman and Nation”

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C. Elkins, op. cit., pp. 280-281.

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Ivi, p. 281-282.

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e del “Daily Mirror”19

. Lennox-Boyd reagì attaccandola sul piano personale, salvo poi promettere di porre attenzione alle denunce che aveva raccolto in Kenya. In realtà la si- tuazione non cambiò: il governo conservatore non aveva alcuna intenzione di scoper- chiare il vaso di Pandora delle condizioni di detenzione nel paese. A Nairobi lo stesso Baring era riuscito fino a quel momento a mantenere una certa segretezza a proposito dell’entità delle violazioni dei diritti umani, tanto più che non vi erano prove fotografi- che o filmate in relazione alla quotidianità nell’universo concentrazionario in Kenya, e il rapporto di Barbara Castle, così come le eventuali nuove denunce di altri esponenti laburisti, potevano essere ancora derubricate ad esagerazioni finalizzate a colpire politi- camente il governo.

Furono le testimonianze di due funzionari che avevano prestato servizio nell’ambito del sistema della “Pipeline” a dissolvere la cortina di segretezza che avvolgeva la questione. Dapprima Eileen Fletcher, scelta nel 1954 direttamente da Asqwith, l’ideatore del pro- gramma di riabilitazione, per assumere la responsabilità della gestione del campo di rie- ducazione femminile di Kamiti, e poi dimessasi dopo solo un anno per contrasti tra la sua visione del progetto e l’evoluzione che lo stesso aveva assunto, scrisse nel maggio del 1956 un lungo articolo, pubblicato nel giornale “Peace News” e intitolato Kenya‟s

Concentration Camps – An Eyewitness Account20. In esso raccontava la sua esperienza personale, di come avesse deciso di raggiungere il Kenya e dare il proprio contributo, allarmata da quanto riportavano i giornali britannici sulle atrocità commesse dai Mau Mau21, e denunciava quanto aveva avuto modo di vedere nei campi di detenzione e in quelli di transito, come Langata, Manyani, Athi River, o nel carcere di Embakasi, dove erano detenuti i guerriglieri Mau Mau. A destare scalpore furono soprattutto le sue rive- lazioni a proposito dei minori, in particolare sulle ragazze recluse nel carcere di Kami- ti22. Molte di loro, seppur di età inferiore ai 14 anni, erano state condannate a morte per complicità in attività terroristiche, ma data la giovane età la loro pena era stata commu- tata all’ergastolo. A ben vedere tale prassi giuridica era in contrasto con le stesse leggi coloniali, dato che la Kenya‟s Juveniles Ordinance stabiliva che i minorenni di età infe- riore ai 14 anni non potessero scontare la pena negli stessi istituti degli adulti, ma do- vessero essere affidati a specifiche scuole di riabilitazione. Queste scuole tuttavia non

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C. Elkins, op. cit., p. 284.

20

Ivi, p. 287-88.

21

P. Lorcin, Historicizing Colonial Nostalgia: European Women's Narratives of Algeria and Kenya

1900-Present, New York, Palgrave Macmillan, 2012, p. 146.

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erano stati costruite, e così la condizione dei minorenni in tutta la Provincia Centrale veniva equiparata a quella degli adulti23.

Alle testimonianze della Fletcher seguirono quelle di Philip Meldon, un ufficiale britan- nico che prestò servizio in Kenya per tutto il 1954 e fino al maggio dell’anno successi- vo, che ebbe modo di conoscere la realtà e la quotidianità di 5 diversi campi di deten- zione. Nel gennaio del 1957, mentre lo scandalo scatenato dalle rivelazioni della Flet- cher aveva ancora eco in Gran Bretagna, anche Meldon sentì l’esigenza di raccontare quanto aveva visto durante la sua esperienza nel paese. Meldon riportò parte dei crimini di cui era stato testimone nelle pagine di alcuni giornali britannici, come il “Reynold News” e lo stesso “Peace News”. Dopodiché scrisse direttamente a Lennox-Boyd, ren- dendolo edotto di ulteriori dettagli, elencando tutti i reati a cui aveva avuto modo di as- sistere e i nomi di coloro che li avevano commessi24.

Le testimonianze della Fletcher e di Meldon riportavano minuziosamente le torture, gli abusi, le privazioni che i detenuti erano costretti a subire nei campi di detenzione, di la- voro e di transito, l’assoluta impreparazione degli uomini che vi lavoravano in materia di riabilitazione, e la realtà di un sistema che, dietro la facciata dello sbandierato obietti- vo del recupero alla società civile degli internati, altro non era che un esteso sistema concentrazionario. In tutte le strutture che componevano la Pipeline le razioni di cibo erano assolutamente insufficienti, i servizi sanitari del tutto inesistenti, a dimostrazione che le terribili condizioni di vita dei detenuti non erano solamente legate alla crudeltà individuale delle guardie e dei secondini, ma frutto di una volontà politica volta esclusi- vamente a reprimere negando alla popolazione detenuta i più elementari servizi. Sulla base di tali rivelazioni il “The Observer” giunse a chiedersi in che modo il governo in- glese potesse criticare il sistema dei campi di lavoro forzato in Unione Sovietica, se un analogo sistema era stato creato in un territorio dell’impero25. L’ala del Labour Party più vicina ad idee anti-imperialiste, rappresentata da esponenti quali Barbara Castle, Le- slie Hall, Fenner Brockway, James Johnson ed Aneurin Bevan, intensificò la battaglia sia in Parlamento che coinvolgendo la pubblica opinione, chiedendo a Lennox-Boyd di consentire l’avvio di un’investigazione indipendente al fine di valutare l’estensione del fenomeno e le maggiori responsabilità.

Lennox-Boyd reagì alla duplice offensiva, scatenatasi con la pubblicazione dell’articolo della Fletcher e più tardi rinvigorita con le nuove rivelazioni di Meldon, contestando sia

23 Ibidem. 24 Ivi, p. 293. 25 Ivi, p. 292.

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la credibilità che la professionalità dei due, esprimendo pubblicamente dubbi sulla loro buona fede o quantomeno sulla loro effettiva esperienza e conoscenza della situazione. Contestualmente il ministro si tenne in stretto contatto con Baring, con il quale era ne- cessario concertare una strategia comune. Sulla questione della “Pipeline” rischiavano di giocarsi le loro carriere politiche, ma ancor di più era in gioco la rispettabilità del si- stema di dominio realizzato dall’impero britannico. Anzitutto Lennox-Boyd respinse ogni richiesta per la costituzione di una commissione indipendente, che potesse invest i- gare la questione in autonomia dal governo, cosa che dimostra come sia il Gabinetto che Baring fossero perfettamente a conoscenza della brutale realtà della “Pipeline”. Dopodi- ché tentò di mediare con alcuni esponenti dell’ala più moderata del Labour al fine di convincerli a far sì che il partito non cavalcasse l’onda delle rivelazioni, sottolineando come la posta in gioco potesse essere ben più importante di quella che si era abituati ad assistere nella quotidiana dialettica tra governo e opposizione. Era una fase delicatissi- ma della storia britannica, con la crisi di Suez che da poco aveva di fatto sancito la fine dello status di grande potenza della Gran Bretagna, e che aveva condotto alla caduta del governo di Anthony Eden e alla sua sostituzione con Harold Macmillan26. Ma le accuse e le offensive provenienti dall’ala sinistra del Labour Party non cessarono. Lennox- Boyd continuò a negare la veridicità delle denunce, facendosi scudo dei rapporti che le commissioni che dipendevano dal governo, abilitate a ispezionare i campi di detenzione e lavoro, gli facevano pervenire da Nairobi, e che tratteggiavano una situazione tutt’altro che allarmante. Ma ciò non bastava, e il ministro decise di giocarsi un’altra carta. Incoraggiò la visita in Kenya di una delegazione della Commonwealth Parliamen- tary Association (CPA)27, composta da membri del parlamento britannico, provenienti, in modo proporzionale al radicamento elettorale, da tutte le forze politiche, e di quelli delle colonie, facendo in modo che i nominativi dei delegati fossero di gradimento del Colonial Office28. La delegazione visitò il Kenya nel 1957. Per quanto riguarda i parla- mentari di Westminster, la scelta relativa alla quota assegnata al Labour Party cadde su esponenti moderati, assai lontani dalle posizioni dei parlamentari che stavano condu- cendo in prima persona la battaglia per ottenere una inchiesta pubblica sulla “Pipeline”. Era chiaro che lo scopo della delegazione era quello di realizzare una relazione positiva

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Lennox-Boyd era comunque rimasto in sella quale ministro delle colonie anche nella nuova compagine governativa.

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Si tratta di un’associazione fondata nel 1911 col nome di Empire Parliamentary Association per assu- mere l’attuale denominazione nel 1948, composta da parlamentari dei paesi membri del Commonwealth, e dedita alla promozione della democrazia e del rispetto dei diritti umani. Si veda D. Ingram , The Com-

monwealth at Work, Oxford, Pergamon Press Ltd., 1969, pp. 114-121.

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sui progressi che si andavano compiendo in Kenya, tanto più dopo che l’arresto degli ultimi leader Mau Mau aveva posto fine alle operazione militari. Quando il rapporto fu completato, esso delineò un quadro ben diverso da quello reale, edulcorando la situazio- ne e derubricando le maggiori criticità alle esigenze derivanti dalla guerra. Lennox- Boyd pretese che il rapporto venisse pubblicato, nonostante generalmente i documenti delle delegazioni della CPA non fossero redatti per la pubblicazione. Il ministro riuscì comunque, attraverso uno stratagemma29, a far sì che il rapporto finisse sulle colonne del “Times”. Era la risposta del governo alle accuse lanciate dalla Fletcher e da Meldon, ed un modo per far sì che buona parte dell’opinione pubblica continuasse ad appoggiare il sistema adottato dai britannici in Kenya.

Accanto ai resoconti di coloro che avevano prestato servizio nell’ambito del program- ma, negli anni successivi all’indipendenza del paese sorse una corposa memorialistica sul sistema concentrazionario britannico, i cui principali autori furono uomini e donne kikuyu imprigionati per anni nei campi e nelle carceri30. Il loro fu il punto di vista di co- loro che avevano subito personalmente e quotidianamente le atrocità della detenzione in Kenya, e numerosi elementi dei loro resoconti conversero con quanto anni prima era stato rivelato dai primi testimoni britannici. Queste opere consentirono di accrescere la comprensione del fenomeno, fino a delinearne con buona approssimazione i contorni. Stando ad alcune stime effettuate sul fenomeno concentrazionario in Kenya, dal 1952 al 1958 almeno 1 kikuyu maschio adulto su 4 fu detenuto in una struttura carceraria o nei campi31, con il picco degli arresti raggiunto nella primavera e nell’estate del 1954, du- rante e dopo l’operazione Anvil, la grande maggioranza senza che una corte avesse esa- minato il loro caso e ne avesse decretato la condanna. A partire dalla metà del 1955, contestualmente ai successi realizzati dall’esercito coloniale nel reprimere la rivolta, progressivamente la popolazione carceraria della “Pipeline” andò alleggerendosi, se dai circa 60.000 detenuti della fine del 1955 si passò 12 mesi più tardi a 40.000, fino a me- no di 20.000 detenuti alla fine del 1957.

Di fatto le autorità scelsero di liberare a poco a poco coloro i cui legami con i vertici del movimento Mau Mau erano scarsi o nulli, la grande massa dei kikuyu che potevano al massimo essere considerati simpatizzanti. Quando questi uomini tornarono nelle riserve

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La delegazione pubblicò il rapporto per la sola circolazione privata, poco dopo esso giunse al “Times” da fonte “anonima”. In realtà la fonte era chiaramente governativa. Ivi, p. 297.

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Come J. M. Kariuki, Bildad Kaggia, Jomo Kenyatta, Waruhiu Itote, che già negli anni Sessanta pubbli- carono le loro memorie soffermandosi particolarmente sull’esperienza nei campi di detenzione. Si veda M. Clough, Mau Mau Memoirs...cit., pp. 61-84.

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trovarono una situazione completamente modificata dalla “villagization” e dallo Swynnerton Plan, e alle precedenti privazioni se ne aggiunsero di nuove, perpetrate dal- le forze di polizia e dai lealisti. Al contrario, i detenuti dei quali vi era la ragionevole certezza che avessero aderito attivamente alla sollevazione rimasero nei campi di lavoro e detenzione per tutta la durata dello stato d’emergenza, alcuni anche oltre quella data32

. Erano i cosiddetti detenuti “hard-core”, quelli che il governo riteneva men che utopisti- co provare a rieducare, nella maggioranza dei casi condannati all’ergastolo per attività terroristica33. Questi uomini, privati della speranza di poter tornare in libertà, riuscirono ad organizzare forme di resistenza all’interno dei campi, la cui efficacia si differenziò a seconda dei diversi istituti dove erano detenuti, e riuscirono in parte a mantenere un’identità individuale e soprattutto collettiva contrapposta all’indottrinamento filo- britannico cui erano quotidianamente sottoposti. Tra le più efficaci vi fu sicuramente la creazione di classi di studio, dove i più colti tra i detenuti insegnavano agli analfabeti a leggere e scrivere nelle lingue swahili e kikuyu, al fine di preservare la cultura locale. All’interno delle recinzioni i principali leader riuscirono a creare una struttura organiz- zata, in modo che buona parte dei detenuti rifiutasse di collaborare con i britannici. La resistenza culturale, manifestata anche attraverso la composizione di canzoni kikuyu, così come nel rifiuto di lavorare o di partecipare attivamente alle sedute di insegnamen- to e rieducazione che facevano parte del programma della “Pipeline”, furono gli stru- menti che questi uomini poterono adottare. Alcuni di loro chiesero ufficialmente di es- sere trattati per quello che effettivamente erano, dei prigionieri politici, una condizione radicalmente diversa da quella di semplici detenuti e che imponeva di riconoscere loro diritti a cui, fino a quel momento, non avevano accesso, ma tale strada si rivelò imper- corribile. La resistenza non si limitò sempre ad essere passiva: tentativi di rivolta, quasi assenti nel periodo di maggiore intensità delle operazioni militari, furono posti in essere a partire del 1957, quando le operazioni militari erano terminate in tutta la Provincia Centrale. Il governo coloniale reagì trasferendo numerosi detenuti ed isolando gli ele- menti meno collaborativi, facendo così in modo che la popolazione detenuta fosse sud- divisa in un numero più ampio di strutture, al fine di meglio controllarla e rendere più facile la collaborazione, quantomeno degli elementi ritenuti più malleabili. Fu anche

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Tra questi Jomo Kenyatta, accusato a torto di essere il leader della sollevazione. Kenyatta tornò in li- bertà solo nel 1961, quando il paese stava per divenire indipendente.

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Tutti i kikuyu non appartenenti a tale categoria furono rimessi in libertà entro dicembre del 1958. A tale data, restavano detenuti poco meno di 5000 condannati per attività relative al movimento Mau Mau. D. Anderson, Histories…cit., p. 314.

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questa una politica che si tradusse in un’ulteriore intensificazione degli abusi e delle tor- ture.

Nel 1957 e 1958 altri ufficiali britannici in servizio presso i campi di detenzione e nelle carceri keniane produssero testimonianze che confermavano quanto già emerso in pre- cedenza. Nel febbraio del 1959 il Partito laburista, stavolta rappresentato non solo dalla sua ala più radicale ma interamente coinvolto nell’offensiva parlamentare, presentò una mozione, firmata da circa 200 deputati, affinché finalmente il ministro delle colonie au- torizzasse la formazione di una commissione d’inchiesta indipendente che avesse libero accesso a tutte le strutture detentive del Kenya34. Il dibattito che ne seguì fu aspro, e coinvolse i maggiori quotidiani d’Inghilterra in una campagna di stampa senza esclusio- ni di colpi, che rifletteva la polarizzazione del paese sulla questione. Al momento di vo- tare, la maggioranza conservatrice nella House of Commons si dimostrò compatta, e la mozione non passò per poco più di cinquanta voti35.

La vittoria del governo si rivelò effimera. Pochi giorni dopo, il 3 marzo, presso il campo di Hola, nel sud est del paese, 11 detenuti kikuyu furono picchiati a morte dalle guardie lealiste, dietro ordine del comandante responsabile della struttura, G.M. Sullivan. Il campo era diviso in due sezioni, una di più grandi dimensioni che accoglieva i detenuti più collaborativi, l’altra più piccola dove erano confinati i detenuti “hard-core”, circa un centinaio. In questa seconda sezione il numero delle guardie lealiste era 5 volte superio- re quello dei detenuti36, una scelta fatta su suggerimento di John Cowan, Senior Supe- rintendent of Prison, che rivela come le autorità temessero eventuali rivolte37. Cowan aveva visitato il campo di Hola in febbraio, e aveva autorizzato il comandante e i suoi uomini ad utilizzare ogni possibile mezzo coercitivo per obbligare i detenuti a svolgere i lavori che gli veniva quotidianamente imposto di fare38. Era una pratica già sperimenta- ta in altre strutture negli anni precedenti, soprattutto in seguito all’intensificazione di episodi di insubordinazione all’autorità delle guardie. Il 3 marzo Sullivan ordinò ai suoi uomini di scegliere circa 100 prigionieri a cui applicare, in conformità con le direttive, quello che era già stato denominato “Piano Cowan”. L’idea era quella di malmenare chiunque avesse rifiutato di svolgere la mansione assegnatagli, che quel giorno consi-

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C. Elkins, op. cit., p. 343.

35

Ivi, p. 344.

36

Ivi, p. 347.

37

M. Burleigh, op. cit., p. 386.

38

S. Webb, British Concentration Camps: A Brief History from 1900-1975, Barnsley, Pen and Sword