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Il censimento del 1927

Nel documento I censimenti nell’Italia unita (pagine 171-180)

I CENSIMENTI DEGLI ITALIANI ALL ’ ESTERO NELLA STATISTICA UFFICIALE (1861-1927)

4. Il censimento del 1927

Nel 1891 per ragioni di bilancio il censimento nazionale della popolazione non fu realizzato, tuttavia il Mae fece eseguire quello degli italiani all’estero ricorrendo sia ai censimenti nazionali dei paesi d’immigrazione, sia alle imprese estere che impiegavano italiani, sia alle rilevazioni dirette dei consolati. In questa occasione lo scopo era più qualitativo che quantitativo e perciò i questionari distribuiti alle autorità diplomatico consolari chiedevano di illustrare la storia dell’immigrazione italiana nelle rispettive sedi, le sue caratteristiche di durata, le politiche d’immigrazione ed economiche dei paesi di destinazione, le cause dell’esodo dalle rispettive province, la “tendenza del governo locale ad incoraggiare ed a restringere l’emigrazione italiana”, le modalità d’accoglienza e di avvio al lavoro, le norme per

12 Per gli studi statistici di Florenzano sull’emigrazione dalle province meridionali confronta Florenzano 1874.

13 È questa la condivisibile opinione di Franzina (Franzina 1980: 990-991). Circa il legame tra espansione colonia-le ed emigrazione di massa confronta: Brunialti 1881, 1897.

la concessione dei terreni e i prezzi di questi, i margini di profitto di coloni e brac-cianti, il valore delle proprietà immobiliari degli italiani all’estero, le condizioni di vitto, alloggio, assistenza medica e istruzione, le proprietà immobiliari e i depositi bancari degli immigrati, il rapporto tra i salari urbani e il costo della vita eccetera. Insomma, se le fonti di rilevazione rimanevano le medesime che in precedenza, i quesiti circa la qualità della vita all’estero erano molto più numerosi e precisi di prima, ciò che rendeva il censimento, più che uno studio statistico di demografia, un’indagine socioeconomica dove accanto al crescente intento di tutela verso i connazionali espatriati emergeva più che mai l’interesse al profitto economico dell’esodo per la madrepatria (Ministero degli Affari esteri 1893). Nel 1901 i criteri e gli scopi del censimento degli italiani all’estero furono i medesimi, ma i quesiti furono ancor più numerosi e dettagliati di dieci anni prima. Sempre mediante i rap-porti dei consoli si raccolse così un materiale abbondantissimo che fu pubblicato in ben tre volumi e sette tomi (Ministero degli Affari esteri, Commissariato dell’emigrazione 1903-1909). Per il 1911 venne meno il ricorso agli studi mono-grafici dei consoli per la rispettiva circoscrizione e il censimento, ad opera del Commissariato generale dell’emigrazione, si risolse in una pubblicazione meno dettagliata che quelle dei due precedenti censimenti (Commissariato generale dell’emigrazione 1912).

Il censimento degli italiani all’estero del 1921 era iniziato ad opera del Com-missariato generale dell’emigrazione, ma sia per la mole delle rilevazioni effettua-te, sia per la soppressione del Commissariato stesso ad opera del regime fascista, la sua pubblicazione fu rinviata per anni e alla fine si concretizzò nel 1928 ad opera del Mae, con dati aggiornati alla metà del 1927.14 Nonostante che l’indagine appa-risse, dunque, in pieno fascismo e durante la svolta “anti-emigrazionista” del regi-me, rispecchiava ancora gli intenti dell’Italia liberale nei confronti dell’esodo di massa e soprattutto il ruolo del Cge e del suo commissario, Giuseppe De Michelis, che era anche il redattore del testo pubblicato del censimento.15 Circa il metodo, in questa occasione, a differenza del passato, il Cge consigliò i consolati di ricorrere ai censimenti esteri con la massima prudenza e parsimonia a causa della loro scarsa simultaneità e della mancanza di uniformità nei quesiti. Tuttavia, in luogo dei con-sueti censimenti diretti da parte dei consolati, ci si limitò molto spesso a riportare semplicemente i dati dei registri anagrafici consolari; ciò garantiva una buona co-pertura degli italiani all’estero dove le collettività erano concentrate quasi solo nel-le città sedi di rappresentanza diplomatico consolare, ma non dove nel-le colnel-lettività erano molto disperse sul territorio e dove l’esodo era specialmente stagionale e fluttuante. Inoltre, tale fonte ovviamente ignorava totalmente gli italiani naturaliz-zati vuoi volontariamente nell’ambito della prima generazione, vuoi, soprattutto, gli italiani di seconda generazione che, specialmente nelle Americhe, erano auto-maticamente naturalizzati per “diritto del suolo”. La scelta di ricorrere quasi solo ai registri anagrafici consolari derivava probabilmente dall’impossibilità per i consoli di effettuare un censimento nominativo che, praticabile e relativamente economico

14 Per le ragioni della soppressione del Cge nel 1927 confronta, tra gli altri: Sori. 1979. La soppressione del

Com-missariato generale dell’Emigrazione nei documenti parlamentari 1927: 427-435; Ostuni 1983a.

quando gli italiani all’estero erano solo alcune centinaia di migliaia, era divenuto proibitivo per gli organici e i bilanci consolari ora che, secondo il censimento stes-so, i connazionali all’estero erano oltre 9 milioni. Ad ogni modo è chiaro che, in mancanza quasi totale della rilevazione diretta nominativa, il censimento perdeva in affidabilità, anzi, tecnicamente non era neanche più un censimento.

Il Commissariato generale dell’emigrazione chiedeva ai consolati di riferire anche sugli italiani naturalizzati (volontariamente o automaticamente), ma proprio in ciò si presentava la difficoltà maggiore del censimento: come individuarli se non erano più nelle anagrafi consolari né apparivano come italiani nei censimenti loca-li? Ad ogni modo, la scelta di contare e descrivere anche i cittadini dei paesi esteri di origine italiana (e di distinguerli in naturalizzati volontariamente e naturalizzati automaticamente) rappresentava una delle maggiori novità ideologiche rispetto ai censimenti del 1871 e 1881 dove la scelta di farsi censire, indipendentemente dalla propria reale cittadinanza, era lasciata all’arbitrio dell’emigrato, criterio che forse assecondava un’ispirazione risorgimentale per la quale la patria non è quella legale ma quella che l’individuo liberamente sceglie. Naturalmente dalla classificazione degli emigrati in cittadini italiani e cittadini dei paesi di destinazione traspariva il tradizionale rammarico di perdere connazionali e dunque influenza politica ed eco-nomica all’estero. A proposito, ad esempio, del crescente numero di italiani d’Argentina che dal 1906 chiedevano spontaneamente la naturalizzazione, il redat-tore del censimento, De Michelis, tentava di esorcizzare l’affievolirsi dell’affezione verso la madrepatria, affermando che “È noto che in genere gli italiani emigrati non hanno tendenza ad assumere la cittadinanza del paese in cui risiedono, e ne doman-dano la ‘naturalizzazione’ soltanto coloro che aspirano ad impieghi nelle pubbliche amministrazioni ed istituzioni, o coloro che desiderano dedicarsi alla politica o agli affari” (Ministero degli Affari esteri 1928: XXXVIII).

Nei confronti delle comunità italiane della Turchia e del Medio Oriente che, pur essendo molto antiche e quindi composte quasi esclusivamente di nati all’estero, mantenevano la cittadinanza italiana, era con evidente compiacimento che De Michelis affermava che “conservano, pur attraverso parecchie generazioni, puri sentimenti di italianità e la cittadinanza originaria” (Ministero degli Affari esteri 1928: XLVIII).

Altro aspetto di matrice ideologica che determinava le classificazioni statisti-che sotto le quali raccogliere i dati sui connazionali all’estero era costituito dalle domande circa il numero e la natura delle istituzioni assistenziali, previdenziali, economiche, politiche, educative e culturali create dalle stesse collettività italiane per la propria tutela e per il proprio progresso socioeconomico, classificazioni che mancavano nei censimenti del 1871 e del 1881. Evidentemente il Commissariato generale dell’emigrazione riteneva che parte importante della tutela degli emigrati dovesse essere svolta da loro stessi, oltre che dalla legislazione dei paesi d’accoglienza e dai trattati che a tale fine il Commissariato stipulava con questi. A parte la necessità di supplire alle carenze assistenziali di diversi paesi di destina-zione, si trattava, insomma, della tradizionale volontà di conservare le collettività italiane all’estero come corpi distinti dalle società d’accoglienza per esorcizzarne la disgregazione in individui atomizzati e integrati nelle strutture istituzionali e sociali straniere. L’auto organizzazione della vita collettiva appariva come un buon meto-do per perpetuare tale separazione dalla società circostante. Del resto, il

commissa-rio dell’Emigrazione fu sempre più, e specialmente con l’avvento del regime fasci-sta, sostenitore e organizzatore della collaborazione del lavoro italiano all’estero con il capitale e le organizzazioni pubbliche e private della madrepatria nelle im-prese d’emigrazione, secondo una concezione corporativa e nazionale dell’esodo che non mancava di punti di contatto con il progetto coloniale fascista (Ostuni). In-dicativo era quanto nel censimento scriveva a proposito della rilevazione delle scuole italiane all’estero: “Esse hanno senza dubbio grande importanza, come l’indice più significativo dell’attaccamento della popolazione emigrata alle idee, alla cultura e all’affetto della madre patria”, e soprattutto insegnavano il “patrio idioma” a bimbi che, altrimenti, non lo avrebbero mai conosciuto dato che parlava-no o il dialetto dei genitori o la lingua del paese d’accoglienza (Ministero degli Af-fari esteri 1928: L). In generale, la rilevazione delle associazioni italiane all’estero era indicata come importante poiché “tutte queste associazioni italiane esercitano sempre e dovunque un’azione sommamente utile perché sono inestimabili fattori di elevazione e contribuiscono mirabilmente a rendere più saldi i vincoli fra i compo-nenti le colonie, le colonie stesse e la madre patria” (Ministero degli Affari esteri 1928: LIII).

I quesiti che De Michelis sottoponeva ai consolati nel questionario n. 1, quello demografico, erano i seguenti:

1. numero degli italiani nati in Italia, presenti al 31 dicembre nel Paese d’immi- grazione;

2. numero degli italiani nati nel Paese d’immigrazione. Sia che conservino la cit-tadinanza italiana, sia che, a termini della legge locale, l’abbiano perduta; 3. numero degli italiani nati in Italia e dei figli d’italiani nati nel Paese.

Il questionario numero 2 chiedeva i dati sulle “Scuole italiane”, il numero 3 sui “Collegi, convitti, orfanotrofi ed istituti italiani affini”, il numero 4 sugli “Ospedali ed altri istituti italiani di assistenza sanitaria”, il questionario numero 5 chiedeva circa le “Società italiane di assistenza, beneficienza, previdenza, istruzione, ricrea-zione ed affini”, il numero 5 circa la “Stampa periodica italiana (giornali, riviste, bollettini, ecc.)” (Ministero degli Affari esteri 1928: XXIII-XXVII).

Circa le statistiche demografiche, De Michelis confidava nella buona appros-simazione di quelle redatte dai consoli per l’Europa sulla base dei censimenti locali (spesso aggiornati e corretti dai consoli stessi), sulla base dei registri anagrafici consolari e sulle cifre fornite dalle parrocchie cattoliche degli espatriati, fonte che il commissario dell’Emigrazione raccomandava decisamente. Solo per l’Unione so-vietica le cifre erano considerate incerte a causa della situazione politica e sociale postrivoluzionaria, dei molti rimpatri e della grande estensione territoriale. Per la Germania si ricorse al censimento nazionale del 1919 con aggiornamenti ad opera dei consolati, il medesimo si fece per la Svizzera. Per la Turchia e per buona parte dell’Asia si utilizzarono i registri anagrafici consolari, considerati affidabili per la stabilità e antichità delle comunità italiane, e per la Gran Bretagna si usarono, oltre a questi, anche i registri delle parrocchie cattoliche. Non è dato di sapere, però, come si rilevarono i naturalizzati essendo questi assenti dai registri anagrafici. Per buona parte delle colonie francesi, inglesi e belghe dell’Africa si usarono i

censi-menti locali dei governi coloniali, mentre per Egitto, Marocco e altre nazioni i dati furono ricavati specialmente dai registri anagrafici consolari.

Le Americhe, ancora una volta, erano definite i campi di rilevazione più incerti per l’ampiezza delle circoscrizioni consolari, l’inutilizzabilità dei censimenti locali che nascondevano gli italiani naturalizzati e – parafrasando quasi letteralmente il Pisani Dossi del 1881 – per la “qualità stessa dei censendi, rappresentati in gran parte da campagnuoli sospettosi” (Ministero degli Affari esteri 1928: XXXVI). So-lo per limitarci alle maggiori nazioni d’immigrazione, in Argentina si utilizzò il censimento nazionale del 1914 che non solo era datato, ma soprattutto non regi-strava i naturalizzati. Lo si aggiornò con i registri anagrafici e le stime dei consoli e per i naturalizzati si fece un calcolo discutibilissimo: si prese una statistica argenti-na dei argenti-naturalizzati italiani di Buenos Aires nel 1898, si vide quanti erano in per-centuale rispetto agli italiani non naturalizzati presenti in quell’anno e si applicò questa stessa percentuale agli italiani d’Argentina non naturalizzati rilevati dai con-solati nel 1927, giungendo così alla cifra di 160 mila cittadini argentini d’origine italiana (Ministero degli Affari esteri 1928: XXXVIII). Per l’Uruguay non fu pos-sibile ottenere nessuna cifra degli italiani naturalizzati e di seconda generazione. I casi del Brasile e degli Stati Uniti d’America erano i più incerti. Nel primo, le stati-stiche consolari coincidevano parzialmente con il censimento brasiliano del 1920 solo per gli Stati settentrionali, ossia i meno abitati dagli italiani; per gli Stati di San Paolo, Rio Grande do Sul e Santa Catharina le rilevazioni consolari davano ci-fre molto più alte del censimento brasiliano. Ciò in parte era dovuto al fatto che il Brasile considerava come naturalizzati gli stranieri possidenti di beni immobili e con coniuge o figli brasiliani. Ad ogni modo, il censimento brasiliano rilevava solo 558.405 cittadini italiani, mentre le statistiche più accreditate in Italia parlavano di 2-2,5 milioni di italiani. In definitiva i consoli fornirono la cifra di 1.839.579 italiani, ma, a parte una quota rilevata nominativamente con le schede di censimento, molta parte di tale cifra era fondata su “calcoli induttivi”, da notizie fornite dai notabili del-le società italiane e daldel-le imprese brasiliane (Ministero degli Affari esteri 1928: XL-XLII). In Messico la maggioranza delle cifre furono fornite “dai maggiorenti della colonia” e solo in piccola parte dai registri anagrafici consolari, dunque, la cifra complessiva così raccolta andava presa, secondo De Michelis, “con molta circospe-zione”. Quanto agli Stati uniti d’America, i censimenti locali risultarono, come sem-pre, poco utili, e ci si affidò alle cifre rilevate nei modi più disparati dai consolati.

Se, dunque, nel 1927 le modalità di rilevazione non avevano fatto nessun pro-gresso e, anzi, erano peggiorate a causa della frequentissima rinuncia ai censimenti diretti nominativi, era chiaro che per i dati sociodemografici le lacune erano ancora maggiori che per la rilevazione numerica degli espatriati. La distinzione tra maschi e femmine era rilevata quasi ovunque, ma per quasi un quarto degli italiani fuori dai confini nazionali non era specificato se erano nati in Italia o all’estero e tanto-meno in quali regioni, province e comuni. In Europa, a causa della forte mobilità degli emigrati e dello scarso contatto con i consolati, il luogo d’origine era incerto per addirittura i tre quarti ed era sconosciuto soprattutto per le due maggiori desti-nazioni continentali, la Francia e la Svizzera. Anche tale classificazione, dunque, era più lacunosa che nel censimento del 1881. Il dato in assoluto più incerto e lacu-noso era però quello del mestiere esercitato all’estero a dispetto della “notevole importanza economica” attribuita dal censimento a tale informazione. Ed anche qui

la professione era incerta specialmente in Francia e in Svizzera (Ministero degli Affari esteri 1928: XLIV-XLIX).

Infine, per quanto concerneva la rilevazione delle associazioni e istituzioni gli italiani all’estero, anche qui De Michelis segnalava lacune e sottovalutazioni de-rivanti dalla vastità dei territori, “dalla riluttanza dei sodalizi a far conoscere in al-cuni casi la loro precisa condizione, sia infine dall’ingiustificato timore manifestato qualche volta che l’inchiesta potesse avere scopi fiscali”. Nel caso dei Fasci italia-ni, dei quali De Michelis si compiaceva per la loro rapida diffusione, la loro istitu-zione era così rapida che diversi sfuggirono alla rilevaistitu-zione (Ministero degli Affari esteri 1928: LII-LIII).

In conclusione, era lo stesso commissario dell’Emigrazione a segnalare che “al complesso delle varie informazioni occorre dare il valore di indice della situazione generale, specialmente utile per la mancanza di dati più attendibili; ed occorre an-che considerare i risultati di questa inchiesta come una massa considerevole di esperienze accumulate per le ulteriori enumerazioni degli italiani all’estero” (Mini-stero degli Affari esteri 1928: XXIX-XXX).

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