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COMUNICAZIONE E SIGNIFICATI NEL CONSUMO ALIMENTARE

2.3 IL CIBO COME CULTURA

“L’alimentazione, come avevano intuito i grandi antropologi, rappresenta un osservatorio di grande interesse anche ai fini della comprensione delle dinamiche sociali. Perché nel mangiare si riflettono, con più immediatezza che altrove, come su di una sensibilissima cartina tornasole i mutamenti che avvengono nei valori e negli stili di vita” (Giampaolo Fabris)

Le tipologie di prodotti alimentari acquistati e le loro modalità di consumo riflettono comportamenti sociali che sono espressione di identità. Tutti i comportamenti alimentari, infatti, passano attraverso una scelta, determinata da fattori economici, culturali, storici, sociali e inerenti al gusto.

Uno dei primi a definire il gusto come elemento di distinzione sociale è stato il sociologo francese Pierre Bourdieu, il quale si è interessato in particolare allo studio dei processi culturali, elaborando teorie fondamentali per la comprensione della società, utilizzando una visione strutturalista, secondo cui nel mondo sociale esistono strutture indipendenti dalla coscienza e dalla volontà dell’individuo, le quali delimitano il comportamento dell’attore sociale.

Nello studio La distinzione (1979) di Bourdieu, il consumatore opera in base a una logica distintiva, logica incorporata nel proprio gusto. Pur riprendendo la prospettiva di Veblen, che ipotizza una funzione di distinzione sociale dei gusti, per Bourdieu il consumatore non solo distingue per distinguersi, ma anche perché non può fare a meno di farlo: egli verrà perciò ad essere incluso o escluso (distinto) in base alle proprie distinzioni di gusto. In questa chiave l’autore crea la nozione di habitus definito come principio generatore e organizzatore “di pratiche e rappresentazioni che possono essere oggettivamente adattate al loro scopo senza supporre la visione cosciente dei fini e il dominio esplicito delle operazioni necessarie per ottenerli”.

Tali ipotesi, dunque, sono a fondamento della sua analisi sul gusto, in cui le preferenze culturali degli individui vengono messe in relazione alla distinzione di classe e all’habitus. Così l’estetica popolare o il lusso diventano segni distintivi delle stratificazioni sociali e rappresentano parte di quell’inconscio collettivo che vanno a definire i gusti di una determinata classe sociale (Bourdieu, 1979).

A tal proposito, Bourdieu considera i gusti strumenti di potere e, precisamente, strumenti di potere simbolico, piuttosto che strumenti di conoscenza, poiché implicano un insieme di sistemi classificatori che fissano una situazione di lotte sociali, ovvero uno stato della distribuzione dei vantaggi e degli obblighi. In questo modo il gusto, permette al sistema costituito di promuovere la «naturalizzazione» della propria arbitrarietà. Perciò, Bourdieu afferma che i sistemi simbolici classificatori apportano il proprio specifico contributo alla riproduzione delle relazioni di potere di cui essi stessi sono il prodotto ”.

Da quanto detto, è opportuno sottolineare che non è sempre vero che le abitudini alimentari corrispondano esclusivamente al gusto degli individui, in quanto la disponibilità economica per il reperimento delle risorse gioca e ha giocato un ruolo fondamentale soprattutto negli anni di crisi e carestie. Inoltre, il gusto è storicamente determinato e mutevole a seconda delle trasformazioni culturali. In sintesi, è palese come capitale economico e capitale culturale, hanno un ruolo fondamentale per la determinazione del cosiddetto “buon gusto” dominante. Perciò, coloro che possiedono un grado elevato di risorse economiche e culturali, avranno la capacità di indirizzare il “buon gusto”, in quanto riescono a promuovere il proprio habitus e a naturalizzarlo come fonte di orientamento.

Tuttavia, è da riconoscere che nell’epoca postfordista le classificazioni sociali sono sempre meno nette, la complessità sociale si acutizza e deframmenta e le distinzioni culturali più mobili, sfumate e sfaccettate. Ne deriva una difficoltà di stabilire definitivamente le connotazioni del “buon gusto” in quanto tale. Notiamo, invece, che gli attori sociali adottano strategie di consumo che puntano alla mescolanza di prodotti diversi.

Focalizzando l’attenzione sul consumo alimentare è importante sottolineare la valenza simbolica legata al consumo suddetto. Si parla di valore esperienziale, simbolico ed estetico della scelta: si passa dallo stato di natura dei semplici cibi allo stato di cultura che si palesa in maniera ancora più evidente quando facciamo riferimento all’arte culinaria, in cui tradizioni e modi di vita influenzano la preparazione dei cibi. Massimo Montanari ne Il cibo come cultura affronta proprio questo nesso tra cibo, natura e cultura. L’idea di cibo si collega volentieri a quella di Natura, ma i veri valori portanti del cibo per l’uomo non sono tanto riconducibili alla naturalità quanto ai processi culturali sottesi ad essi. Questi processi culturali rileggono la Natura, la reinterpretano e la addomesticano. Il cibo, in sostanza, diventa cultura quando si produce non viene consumato così come si trova in Natura, quando cioè l’attività di produzione si affianca a quella di predazione. Ma il cibo è cultura anche quando si consuma, perché l’atto di consumo è preceduto da un atto di scelta e quella scelta è legata a dimensioni culturali, sociali, simboliche ed emozionali. Per questo anche Montanari afferma che il cibo si configura come elemento decisivo dell’identità umana e come uno dei più

efficaci strumenti per comunicarla. Eppure il passaggio dallo stato di Natura a quello di cultura non è stato così semplice. Mentre noi oggi percepiamo l’agricoltura come qualcosa di arcaico, di ritorno alle origini, di comunione con la terra, i popoli di raccoglitori e cacciatori videro lo sviluppo dell’agricoltura come un’aggressione alla Natura, ferita a morte dall’aratro e sottomessa alla volontà umana. L’agricoltura, nata circa 10.000 anni fa in Medio Oriente, nella cosiddetta “Mezzaluna Fertile”, fu un’invenzione dell’uomo che serviva ad ovviare ad un problema: la crescita demografica. L’economia di caccia e di raccolta non bastava più a soddisfare le popolazioni nomadi e, quindi, si rese necessario inventarsi qualcosa per sopperire a tale mancanza. Tra le piante, non a casa, furono selezionate quelle più produttive e nutrienti, come i cereali e ogni parte del mondo ebbe il suo cereale d’elezione: il grano nel Mediterraneo, il riso in Asia, il sorgo in Africa, il mais in America. Su queste piante si organizzarono rapporti economici, forme di potere politico, scambi commerciali, riti religiosi, immaginario culturale. L’agricoltura segna la nascita dell’uomo evoluto e civile separato dalla Natura, che costruisce un cibo non esistente in Natura. Primo esempio su tutti nell’area mediterranea di questa dissociazione dell’uomo dalla Natura è la preparazione del pane: il pane non esiste in Natura e solo gli uomini sono in grado di farlo: il pane simboleggia l’entrata nella civiltà. Stesso ruolo, un po’ più sofisticato, è stato svolto da vino e birra.

In definitiva, quello che chiamiamo cultura, secondo Montanari, non è altro che il punto di intersezione tra tradizione e innovazione: è tradizione perché costituita da saperi, tecniche e valori tramandati; è innovazione perché quei saperi e quelle tecniche modificano la posizione dell’uomo nel contesto ambientale. “La tradizione è un’innovazione ben riuscita. E la cultura è l’interfaccia tra le due prospettive ”.

Dunque, il passaggio dalla Natura alla Cultura è segnato dall’affiancamento dell’economia di produzione all’economia di predazione, dal passaggio dall’economia selvatica a quella domestica e dall’abbandono del nomadismo in favore della sedentarietà.

Prima del Medioevo, si vide la contrapposizione di due modelli produttivi: quello di tradizione greco-romana fondato sull’agricoltura, e quello germanico basato sullo sfruttamento della foresta (pastorizia, raccolta, caccia). Nel Medioevo questi due percorsi si intersecarono generando una cultura alimentare nuova, quella europea, da cui derivò un regime alimentare improntato sulla varietà delle risorse e dei generi consumati, dando origine alla straordinaria ricchezza del patrimonio alimentare e gastronomico europeo che ancora oggi è unico al mondo.

Il processo di civilizzazione alimentare dell’uomo proseguiva con il progressivo dominio su due variabili importanti: il Tempo (inteso come stagionalità e conservazione dei prodotti) e lo Spazio (sconfiggere il vincolo territoriale per l’accesso ai prodotti).

Un’altra importante riflessione scaturisce dalle modalità comunicative attraverso cui si sono tramandate le tradizioni culinarie. A seguito di diversi studi, si è giunti alla conclusione che il patrimonio enogastronomico che abbiamo ereditato segue per lo più una trasmissione di classe: solo le élite sociali e le aristocrazia di corte potevano permettersi di appuntare in un ricettario le preparazioni culinarie e tramandarle di generazione in generazione; solitamente le trasmissioni orali si perdevano nel tempo, tant’è che non si sa nulla della tradizione culinaria contadina del Medioevo. Se diamo per scontato che la cultura scritta sia stata prodotti dalle classi dominanti, ne consegue che è la cucina dei potenti ad essere stata tramandata; tuttavia, si è giunti alla conclusione che la barriera ideologica posta dalle classi dominanti alle classi dominate era costituita proprio dalla contaminazione tra gusti contadini e gusti aristocratici: i prodotti della cucina contadina venivano accostati a qualcosa di nobile, arricchiti con spezie. Le spezie furono poi progressivamente abbandonate nel corso del ‘600 quando il calo dei prezzi le resero accessibili a una fascia più ampia di consumatori. A quel punto le spezie non furono più identificative di una distinzione sociale e le classi aristocratiche cominciarono a cercare altri alimenti/elementi di distinzione.

Dalla distinzione in classi ad opera del cibo, oggi sembra configurarsi un altro tipo di distinzione che prende come suo elemento peculiare il territorio. Parliamo del cosiddetto “mangiare geografico”, ossia la tendenza ad esprimere la cultura di un territorio attraverso il cibo. Nonostante il cibo sia intrinsecamente territoriale, non si è mai espressa nel passato la determinazione distintiva del “mangiare geografico” come accade oggi.

“Il gusto della geografia non appartiene al passato. Solo negli ultimi due secoli una vera mutazione culturale, peraltro lentissima, ha cominciato a rovesciare il criterio di valutazione. (…). Sembrerebbe un paradosso, ma non lo è: proprio l’avvio del processo di omologazione e, tendenzialmente, di mondializzazione dei mercati e dei modelli alimentari ha provocato una nuova attenzione alle culture locali.” (Montanari, , p. 114).

Oggi il territorio costituisce un valore di riferimento assoluto nelle scelte alimentari per più motivi: 1. Il rifiuto dell’omologazione e la riscoperta delle radici.

2. La trasformazione del gusto orientato non più ai sapori artificiali, ma alla naturalità dei prodotti.

3. L’indebolirsi del cibo come strumento per distinguersi socialmente: il cibo oggi è un bene diffuso per cui si afferma il valore del territorio, il cibo geografico come elemento distintivo.

Nell’era postmoderna, così come nel passato, la valenza simbolica si rifà ai processi di identificazione: dietro al consumo del cibo si nasconde una costante ricerca di distinzione ed

identificazione e l’esigenza di essere riconosciuti. Oggi più che mai questa valenza simbolica ha assunto un’importanza enorme. È per questo che l’agire di consumo critico nell’ambito alimentare porta con sé l’evoluzione e i cambiamenti della società nella sua complessità e globalità (Russo, 2011, p.270).

In riferimento al significato simbolico possiamo riportare questa altra definizione di consumo critico:

“Il consumo acquista un valore critico in quanto atto politico, dichiarazione di scelta svolta non sulla base dell’esigenza personale di tipo narcisistico, ma come esito di un difficile equilibrismo tra l’avidità, tipica della società postmoderna, e l’anoressia imposta dalla crisi sociale ed economica. Esso diventa una scelta che si colora quasi di una valenza politica, proprio quando la politica (quella tradizionale) ha perso la sua capacità attrattiva e la sua funzione identitaria”. (Russo, 2011, p. 27)

Preso atto che il consumo è, in sostanza, una pratica caratterizzata da valori espressivi e meccanismi di identificazione, la scelta di un prodotto trascende il suo mero valore funzionale per elevarsi a valore simbolico. Sebbene la comunicazione pubblicitaria imponga dei significati, la personalizzazione e l’interpretazione del singolo possono trasformarsi in funzioni simboliche che gli stessi esperti del marketing non avevano messo in conto. Esistono dei significati condivisi socialmente, ma ognuno attua anche un’operazione di personalizzazione significante e significativa, operazione che implica una certa libertà di scelta. Proprio nell’analisi del valore simbolico, possiamo distinguere un valore privato e uno pubblico: quello pubblico fa riferimento al significato che viene attribuito all’oggetto da osservatori esterni; quello privato, invece, è l’insieme dei significati che quell’oggetto rappresenta per l’individuo e può includere anche la dimensione pubblica.

Secondo un’analisi psicosociale dei cambiamenti culturali e sociali, questa maggiore libertà deriva dall’abbattimento dei muri sociali con le rivoluzioni del 1968, a seguito delle quali si è riscoperta la possibilità di cercare la propria identità oltre le appartenenze sociali, politiche e geografiche. L’altra faccia della libertà è, però, la maggiore insicurezza derivante da un’assunzione totale di responsabilità. Ecco che il consumo non è solo semplice controparte della produzione, ma è molto di più.

Secondo una prospettiva psicosociale, il valore simbolico individuale serve per ridurre la discrepanza tra il Sé ideale e il Sé reale; ancor di più il consumo critico è orientato in questa direzione e, in maniera ancora più pregnante, il consumo alimentare il quale, secondo la letteratura, ha una valenza simbolica e comunicativa particolare. Questa valenza trova la sua origine già nello sviluppo psicosessuale del bambino, e si percepisce come propriamente significativa perché

attraverso il cibo indichiamo non solo la nostra appartenenza socio-culturale, ma comunichiamo la nostra intenzione di prenderci cura dell’altro. “ Il cibo è l’oggetto transazionale e relazionale per eccellenza” (ibidem, p. 37).

Addentrandoci sempre più nei meandri psicanalitici, scopriamo che il cibo ha una sua specifica peculiarità in relazione alla dimensione più personale attraverso il processo di introiezione: nutrirsi significa mettere dentro al nostro corpo qualcosa e questo qualcosa introiettato può provocare benessere o malessere, in sostanza ci cambia. Il cibo è l’unico prodotto in grado di cambiarci fisicamente ed emozionalmente passando dal processo di introiezione al processo di costruzione identitaria. Il cibo ha anche una funzione rappresentativa e indice di una specifica scelta identitaria. Il valore simbolico dunque, va oltre il valore di scambio e oltre il valore d’uso, scava ancora più a fondo le motivazioni che portano al consumo di un determinato bene. Oltre alla soddisfazione materiale/fisica e a quella psicologica, si rivela ancora più interessante la motivazione sociale soddisfatta attraverso la comunicazione, la quale si compone, a sua volta, di due parti: la relazionalità e il riconoscimento.

Attraverso diversi studi, si è giunti a tracciare, quindi, un trend che delinea bene il nuovo consumo alimentare, così sfaccettato, poliforme e contrastante. I trend sono:

• Lo sviluppo di una maggiore consapevolezza da parte dei consumatori, che si sentono parte attiva del mercato. A questa consapevolezza si lega una maggiore conoscenza dei consumi, soprattutto in campo alimentare.

• La ricerca dei sapori come elemento principale di una buona spesa alimentare.

• Al valore etico si aggiunge un perfezionamento del valore estetico teso ad un

soddisfacimento polisensoriale del consumatore: il cibo è fatto di gusto, ma anche di profumi, delicatezza, esperienza, tutti elementi che devono interessare le nuove frontiere comunicative e promozionali.

• La ricerca della salute e del benessere a partire dal cibo fino a coinvolgere altri aspetti del nostro stile di vita.

• Il richiamo alla naturalità a garanzia del benessere.

• La riscoperta della tradizione culinaria e alle specificità culturali; anche questo si lega profondamente al valore simbolico, dietro ai cibi ci sono storie, valori, saperi, modi di dire, affetti. • Il sincretismo, che si rifà un po’ al concetto di politeismo alimentare.

• La spettacolarizzazione dell’alimentazione, la quale non per forza deve apparire come mercificazione della stessa. Cambiano i modi di condividere il cibo: dai food-selfie (scattare e postare foto dei piatti che si consumano) all’eaterteinment (aspetto ludico e giocoso nella consumazione del cibo). A questo aspetto si ricollegano molti elementi del simbolismo se pensiamo

a come spesso le circostanze di consumazione del cibo si discostino nettamente dalle sostanze nutritive del cibo (Roland Barthes). Ad esempio, il caffè, pur essendo una sostanza eccitante, viene associato ad un momento di relax. La carica simbolica del cibo è più forte del cibo in se stesso. • La socialità, da sempre il cibo, attraverso la vocazione conviviale degli uomini, ha rappresentato il mezzo per agevolare la socializzazione e le relazioni sociali.

• La qualità del servizio connesso a tutto ciò che ruota intorno all’alimentazione (conservazione dei cibi, parametri sanitari, packaging, ecc…)

Da tenere presente, che lo studio dei consumi alimentari è molto complesso e richiede un approccio multifattoriale e interdisciplinare. Basti pensare che una scelta alimentare è influenzata già da tre importanti macrocategorie che sono:

1. Il cibo, ossia la sua dimensione fisiologica e sensoriale;

2. La persona, tutto il mondo di sentimenti, emozioni, abitudini, esperienze, capitale culturale e sociale che accompagna un individuo.

3. Contesto economico e sociale.

Il percorso quindi è intricato e la definizione dell’identità del consumatore critico è ardua, così come è difficile inquadrare i consumi alimentari in generale. Sicuramente la riscoperta di una cultura alimentare legata alla territorialità non significa un ritorno all’origine, in quanto le contaminazioni e le trasformazioni culturali avvenute nel corso degli anni hanno modificato la nostra percezione di ritorno al passato. Lo spiega bene Montanari quando afferma:

“In questo intricato sistema di apporti e di rapporti non le radici, ma siamo noi il punto fisso: l’identità non esiste all’origine, bensì al termine del percorso. Se proprio di radici vogliamo parlare, usiamo fino in fondo la metafora e raffiguriamoci la storia della nostra cultura alimentare come una pianta che si allarga (non si restringe) a mano a mano che affonda nel terreno, cercando linfa vitale fin dove riesce ad arrivare, insinuando le sue radici (appunto) in luoghi il più possibile lontani, talvolta impensabili. Il prodotto è alla superficie, visibile, chiaro, definito: siamo noi. Le radici sono sotto, ampie, numerose, diffuse: è la storia che ci ha costruiti”. (Montanari, pag. 10)

 

 

 

 

 

 

 

CAPITOLO 3