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CONSUMATORI FELICI, NONOSTANTE TUTTO

IL CONSUMATORE COME HOMO SENTIENS

5.5 CONSUMATORI FELICI, NONOSTANTE TUTTO

“I beni sono neutri, ma i loro usi sono sociali: possono essere usati come barriere o come ponti” (M. Douglass) Consumare criticamente provoca benessere nell’individuo, il quale si sente gratificato dell’atto di acquisto compiuto responsabilmente. Questa sensazione di benessere possiamo ricondurla alla sensazione, o meglio, al sentimento della felicità, ampiamente trattato in relazione alla disponibilità di reddito.

Sociologicamente, la felicità può appartenere sia alla sfera delle emozioni sia a quella dei sentimenti, a seconda della sua durata e della sua intensità. La felicità, in sostanza, è uno stato transitorio137 della mente e non bisogna commettere l’errore di farla corrispondere riduttivamente al

piacere, come spesso accade. Due diverse scuole di pensiero interpretano la felicità o come completo appagamento dei desideri oppure come distacco totale da desideri e passioni in nome di una felicità indipendente dall’esterno. La prima scuola di pensiero si rifà principalmente al mondo occidentale, mentre la seconda conduce alle teorie orientali.

In generale, la dottrina filosofica e il senso comune fanno corrispondere l’infelicità alla convinzione di essere costretti, di non avere alternativa, di essere ingabbiati in una situazione spiacevole senza alcuna via d’uscita e senza la possibilità, quindi, di realizzare i propri desideri. Non a caso, per Marx, ad esempio la felicità è limitata dalla condizione di alienazione. In sostanza, la felicità non è

      

137 E’ transitorio perché la felicità si può acquisire ma si può anche perdere, non ha il carattere della stabilità. È uno 

stato della mente perché la felicità non si ha, ma felici si è, quindi è un modo d’essere che può mutare a seconda delle  circostanze. 

il semplice appagamento dei propri desideri, ma ha a che fare con la creatività e l’altruismo, con la gioia di donare e di creare.

Una ricerca finalizzata a scoprire i bisogni necessari ad essere felici, ha evidenziato in cima alla lista: autonomia, capacità di far bene al proprio lavoro, l’autostima e il senso di vicinanza emotiva con gli altri138.

La felicità ha una lunga tradizione anche in economia. L’economia, infatti, nasce nei paesi mediterranei come scienza della “felicità pubblica”, dove pubblica metteva l’accento anche sulla natura sociale della felicità.

Da sempre, però, è emerso il contrasto tra ricchezza, crescita economica e felicità. Dai primi studi degli anni Settanta che intendevano misurare la felicità con questionari e indicatori economici quali reddito, ricchezza e disoccupazione, emerse il “paradosso della felicità in economia” del demografo ed economista americano Richard Easterlin139 (EasterlinParadox), secondo cui ad un benessere economico non per forza corrisponde un benessere generale. Questo paradosso della felicità si può sintetizzare in tre affermazioni:

1. Superata una certa soglia critica, la correlazione tra reddito e felicità diminuisce, evidenziando che le persone più ricche non sono sempre le più felici.

2. I Paesi più poveri non sembrano essere significativamente meno felici di quello più ricchi. 3. Nel corso del tempo la felicità delle persone sembra dipendere molto poco dalle variazioni

di reddito e di ricchezza.

Come si spiega questo paradosso? Da una parte si spiega con il treadmill140 e dall’altra con i beni posizionali. Il treadmill o tappeto rullante significa che all’aumentare del reddito la soddisfazione

dell’individuo può rimanere ferma, proprio come accade quando si corre su un tappeto rullante. Esistono due tipi di treadmill:

 Il treadmill edonico che ha a che fare col piacere e col principio psicologico dell’adattamento: quando il nostro reddito aumenta, il meccanismo psicologico di

      

138Cattarinussi  B.,  Sentimenti  passioni,  emozioni.  Le  radici  del  comportamento  sociale.  Franco  Angeli,  Milano,  2006, 

pag. 103. 

139  B.  Frey,  R.  Easterlin,  R.  Frank  e  il  premio  Nobel  D.  Kahneman,  hanno  analizzato  la  correlazione  tra  il  prodotto 

interno lordo e il grado di felicità media di un paese. La “legge empirica” che hanno trovato è che, una volta raggiunto  un tenore di vita confortevole, identificato da un livello di reddito pro capite pari a circa diecimila dollari l’anno, ogni  successivo aumento di reddito apporta un miglioramento aggiuntivo decrescente di felicità. E’ così che, incrementare  il  reddito  dei  paesi  poveri  aumenta  il  livello  di  felicità,  mentre  aggiungere  ricchezza  in  economie  avanzate  non  contribuisce allo scopo anzi lo peggiora; la felicità non dipende esclusivamente dai beni e dai servizi che il denaro è  capace di comprare ma vi sono altri beni quali la fiducia, l’amicizia, la cultura, la solidarietà, che non sono in vendita,  non transitano per il “mercato”. 

140 Daniel Kahneman, psicologo e premio Nobel per l’economia 2002, ha utilizzato la metafora del treadmill (tappeto 

adattamento fa tornare il nostro grado di felicità a quello antecedente all’aumento del reddito.

 Il treadmill delle aspirazioni che ha a che fare con le aspettative e segna il confine tra risultati soddisfacenti e risultati insoddisfacenti. Ad un aumento di reddito potrò permettermi più cose, ma le mie aspettative saranno sempre maggiori inducendomi all’infelicità nonostante l’aumento di reddito.

Questo accade con i beni materiali, ma esiste una categoria di beni, detti relazionali, per i quali il paradosso della felicità fortunatamente non funziona. Nella vita familiare ed affettiva, per esempio, non esiste un livello di adattamento. I beni relazionali sono quei beni che nascono da rapporti, da incontri, nei quali l’identità e le motivazioni dell’altro con cui interagiscono sono elementi essenziali nella creazione e nel valore del bene; l’amicizia è un tipico bene relazionale. Il concetto di bene relazionale non è ancora stato definito in modo univoco; esso viene usato dagli autori con significati diversi, senza che tra i vari significati ci sia necessariamente coerenza. Benedetto Gui è stato tra i primi a proporre uno studio analitico importante sul concetto di bene relazionale, introducendo nel dibattito economico questa categoria di beni.

Per quanto riguarda i beni posizionali cioè quei beni consumati per la posizione relativa che il loro consumo consente di occupare all’interno della scala sociale; l’utilità che questi beni conferiscono non è tanto legata al loro uso, quanto al fatto che il loro consumo rappresenta un’etichetta, con la quale ci si posiziona rispetto agli altri. L’utilità che i beni posizionali conferiscono non è dunque legata al loro uso, quanto al fatto che il loro consumo rappresenta un’etichetta con la quale mi posiziono rispetto agli altri. Questo spiega perché, anche beni posizionali, hanno al loro interno un’imprescindibile componente “relazionale”: Robinson, sull’isola deserta, non avrebbe mai domandato beni posizionali semplicemente per il fatto che non c’era nessuno che ne osservasse il consumo. Mentre però nei beni relazionali la presenza e il rapporto con il prossimo è di tipo cooperativo, di reciprocità (in un rapporto d’amicizia tutti i partner aumentano la loro utilità proprio attraverso il consumo di quei beni, attivando una forma di interazione a “somma positiva”), nei beni posizionali alla cooperazione si sostituisce la competizione che genera, come precedentemente illustrato un’interazione a “somma zero”.

Se ci poniamo la domanda di quale socialità sia implicata nelle principali spiegazioni del paradosso della felicità in economia, Luigino Bruni ci risponde con: invidia e rivalità, una buona spiegazione della frustrazione e dell’infelicità141. Il confronto con gli altri, la continua competizione ci porta a

      

141 Bruni L, Le sfide della felicità. Economia, beni e relazioni umane, in Le nuove frontiere dei consumi (a cura di) Paola 

Rebughini e Roberta Sassatelli, Ombre corte, Verona, 2008, p. 50.   

sbirciare sempre l’erba del vicino e a vederla sempre più verde alimentando in noi sentimenti di frustrazione e invidia.

L’invidia è un sentimento di malanimo più o meno intenso e duraturo perché un’altra persona ha qualcosa che noi vorremmo avere ma che non possiamo ottenere. Invidere significa proprio “guardare in modo maligno” o “guardare con inimicizia”. L’invidia procura infelicità proprio perché ci si sente privati di qualcosa che non si ha e che un altro possiede al posto nostro. Ma l’infelicità deriva anche dal fatto di riconoscere, in modo indiretto, con l’invidia una superiorità dell’altro e una propria inferiorità, per questa ragione spesso e volentieri l’invidia non è mai ammessa. Dunque, l’invidia presuppone un confronto competitivo e ha sempre come risultato finale l’infelicità. L’infelicità deriva anche dal fatto che l’invidia è un sentimento riprovato socialmente e, pertanto, porta si è portato a soffocare il sentimento stesso dell’invidia tra i sensi di colpa. Come si lega l’invidia al risentimento?

“Plutarco distingue invidia e odio: l’odio è originato dall’impressione che la persona odiata sia malvagia o ci voglia fare del male, mentre l’invidia si prova solo nei confronti di chi sembra essere fortunato. Lo scopo profondo dell’odio è di fare del male, mentre gli invidiosi vogliono solo che l’invidiato smetta di fare loro ombra. Se l’odio e l’invidia sono ben distinti come tipi ideali, nelle situazioni concrete si mescolano profondamente. È la provocazione che di solito trasforma l’invidia in odio, soprattutto quando è compiuta con l’intenzione di produrre l’umiliazione, la sottomissione dell’altro. A questa miscela di passioni Nietzsche ha assegnato il nome di risentimento142.”

L’invidia dunque, impoverisce le relazioni perché la meschinità che caratterizza questo sentimento, fondato sulla menzogna e sulla malafede143, non ne permette la comunicazione agli altri, lo si tiene

nascosto e l’invidioso vive all’ombra di questo sentimento doloroso da cui vorrebbe liberarsi ma non riesce. Potremmo dire che i beni posizionali non solo portano all’infelicità, ma ci allontanano ancor di più dai beni relazionali. Inoltre, l’invidia è una belva che colpisce tutti indistintamente proprio a causa di quel meccanismo di adattamento succitato: nel momento in cui un soggetto ottiene di più comincerà a sentirsi insoddisfatto, infelice e invidioso perché qualcun altro ha più di lui. Anche se l’invidia cambiasse di segno tramutandosi in forza creativa volta al miglioramento di sé per raggiungere lo stesso livello del soggetto invidiato, in questo caso, si tratterebbe di

      

142 Ibidem, pag. 176 

143  Il  lavoro  dell’invidia  consiste  nel  cercare  di  dimostrare  a  se  stesso  e  agli  altri  che  la  persona  invidiata  non  vale 

quanto  si  dice.  Per  quanto  si  distingua  un’invidia  dell’avere  (basata  sui  possedimenti  reali)  da  un’invidia  dell’essere  (basata sulle qualità che un’altra persona ha), nel caso dei beni posizionali queste due tipologie di invidia sembrano  sovrapporsi,  considerando  il  possedimento  di  beni  come  un’elevazione  di  status  nella  società  e,  quindi,  di  riconoscimento sociale. 

migliorarsi acquistando nuovi beni posizionali (oggetto dell’invidia) entrando, così, in un circolo vizioso d’insoddisfazione perenne.

I meccanismi di provare invidia e di godere dell’invidia altrui occupano un posto di primo piano nel consumo ostentativo e lo sa bene l’industria del marketing, la quale fa leva su questo sentimento sostenendo la tesi che l’uomo è ciò che possiede. Per questa ragione l’invidia è un sentimento così diffuso nella nostra società: perché si sollecitano continuamente nuovi bisogni e successi personali che non sempre è facile raggiungere, soprattutto tenendo conto che ognuno di noi parte da posizioni economiche e sociali diverse.

Ma non è fatta solo di rivalità e invidia la socialità umana e questo lo possiamo osservare se spostiamo il nostro sguardo sui beni relazionali. I beni relazionali contengono intrinsecamente il carattere della condivisione che, già di per sé, va in netto contrasto con la competizione tipica dei beni posizionali. I beni relazionali, infatti, dipendono dalle modalità di interazione con gli altri e possono esistere solo nella reciprocità, proprio come accade per l’amore e l’amicizia, l’impegno civile. Secondo Martha Nussbaum, beni relazionali sono quelli in cui è la relazione a costituire il bene stesso: essi nascono e muoiono con la relazione. Una caratteristica dei beni relazionali è la gratuità, nel senso che il bene relazionale è autentico se non è usato per fini altri rispetto alla relazione stessa; le motivazioni che portano alla nascita di un bene relazionale devono essere, quindi, intrinseche e non devono esserci interessi, ma gratuità.

Visto il carattere della gratuità e il dono della felicità dalla fruizione di questi beni per natura pubblici, il sociologo Bruni si chiede come mai allora l’uomo non consumi più beni relazionali e meno beni posizionali? Perché non cercano di massimizzare il loro benessere imparando dagli errori del passato? Perché non coltiviamo di più le nostre relazioni sociali e meno gli aspetti materiali della nostra vita? Una prima risposta, poco scientifica ma efficace, viene dal concetto di razionalità: gli esseri umani non sono poi così razionali e, quindi, si ingannano sistematicamente nei confronti del proprio benessere. Ad esempio, la pubblicità ci inganna, falsa la percezione che abbiamo del benessere riconducendoci sempre al consumo di beni posizionali. Ma la vera domanda, per dare rigore scientifico a questa prima risposta, è perché gli esseri umani non sono razionali? O meglio perché sbagliano sistematicamente? Una risposta potrebbe pervenire da uno studio sulla felicità ad opera di Tibor Scitovsky, economista ungherese che ha scritto Economia senza gioia (1976). Questo libro non fu accolto bene dalla critica e fu accusato di non trattare affatto il tema della felicità. Tuttavia, negli ultimi anni vi è stata una rivalutazione dell’opera che offre importanti spunti di riflessione. La sua tesi principale è che una «vita buona» abbia bisogno di due ingredienti che devono essere ben combinati: comfort e stimulation:

“Un uomo i cui bisogni sono soddisfatti e i disagi (discomfort) sono eliminati, vive nella noia se non ci sono stimolazioni (fisiche e intellettuali). Il punto è che il comfort agisce eliminando ogni fatica (si pensi all’aumento di comfort dovuto all’introduzione degli elettrodomestici), mentre la stimolazione, che Scitovsky associa a quello che l’economista Hawtrey chiama «bene di creatività», per poter funzionare e portare benessere necessita di una fatica iniziale. Pensiamo per esempio alla musica classica, un tipico bene di creatività: la stimolazione che fornisce a chi l’ascolta è direttamente proporzionale alla conoscenza dell’autore, del genere, quindi della cultura musicale, che richiede impegno e fatica144.”

Abbiamo dunque, da un lato, i beni comfort che danno stimolazioni immediate, ma il cui godimento e la cui utilità si affievolisce col passare del tempo; dall’altro lato, abbiamo i beni creatività che hanno la caratteristica opposta: la loro utilità marginale è crescente, più li consumo più mi danno piacere. La società attuale consuma troppi beni comfort e pochi beni creatività per i seguenti motivi:

 L’economia moderna rende costosi i beni creatività.

 Molti beni comfort sono spacciati per beni creatività, si pensi, ad esempio, alla televisione: i programmi televisivi nella veste dei nuovi format (talk show, reality show) ci danno l’illusione di avere rapporti umani veri, di affacciarci sulla vita vera; in realtà, il tempo consumato davanti ad una scatola nera, la tv, è tempo sottratto alle vere relazioni sociali che potremmo costruire. Non solo, è stato statisticamente dimostrato che nei Paesi in cui si lavora di più si trascorre più tempo anche davanti alla televisione e questo perché interfacciarsi con persone in carne ed ossa richiede un maggiore dispendio di energie e di tempo. “Coltivare amicizia oggi costa più del passato perché abbiamo alternative che costano moto poco145”.

 I beni comfort creano dipendenza, quindi devo aumentarne le dosi di consumo.

 I beni creatività, o relazionali, non dipendono solo da noi e, pertanto, sono soggetti al rischio. La felicità che nasce dalle relazioni è fragile e vulnerabile, dipendente non solo dalla nostra volontà. In una società liquido-moderna, come direbbe Bauman, tendiamo ad ancorarci a simboli di stabilità come possono essere i beni di mercati o beni comfort.

 Oggi i beni comfort sono nettamente separati dai beni creatività: un tempo per consumare “beni musicali” bisognava recarsi a concerti o a teatro, quindi si era costretti a condividere uno spazio con gli altri e a relazionarsi con gli altri. Oggi il mercato consente una separazione, in quanto, dandomi paradossalmente più scelte, più libertà, ma tutte mistificate

      

144www.edc‐online.org/it/.../555‐nuova‐umanita‐2007‐02‐smerilli.html  145 Ibidem, 2008, pag. 57. 

dalla volontà consumistica del mercato che non fanno altro che ridurre le mie possibilità di contatto con gli altri e, dunque, di benessere reale.

Il nostro preservarci dalle ferite procurate dai beni relazionali a causa della loro vulnerabilità attraverso il consumo di beni materiali non ci salva, però, dall’infelicità e da quel senso di smarrimento sempre più acuto che deriva dall’erosione della fiducia, che è il collante di qualsiasi relazione umana.

Nel consumo critico si ricerca la relazione con l’altro e questo è testimoniato anche nelle interviste condotte sinora. Per questa ragione non si possono ricondurre le pratiche di consumo critico ad un fenomeno aleatorio e comunque sottoposto alle leggi dell’economia e del mercato, poiché ne differisce in modo sostanziale. Il consumo di beni alimentari si affianca alla costruzione al godimento di una relazione voluta e desiderata sia con altri consumatori, con i quali si condividono valori e principi, e sia con i produttori.