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IL RUOLO DELLA COMUNICAZIONE NEL CONSUMO ALIMENTARE SOSTENIBILE

COMUNICAZIONE E SIGNIFICATI NEL CONSUMO ALIMENTARE

2.2 IL RUOLO DELLA COMUNICAZIONE NEL CONSUMO ALIMENTARE SOSTENIBILE

Prima di raccontare come si è modificata la comunicazione in relazione alla sostenibilità, è opportuno accennare allo sviluppo sostenibile, inteso come uno dei più grandi ossimori del nostro tempo, in modo da rendere comprensibile la retorica sostenibile che si è diffusa in tutto il mondo a partire dai movimenti ecologisti. 

Ecosistema è un termine coniato intorno agli anni Sessanta. Più precisamente, l’ecosistema naturale è un termine col quale si fa riferimento all’insieme di un ambiente fisico (biotopo) e di una comunità biologica (biocenosi) che interagiscono spontaneamente evolvendo in un climax (condizione di equilibrio dinamico) (Pieroni, 2010). L’ecosistema, generalmente, è distinto dal sistema sociale, anche se non si può non considerare che una parte sempre più consistente del pianeta non è più occupata da biocenosi naturale, ma da ciò che la società ha costruito attraverso un’opera di colonizzazione umana diretta ed indiretta. Da questa constatazione deriva il concetto di ecosistema artificiale (come ad esempio ecosistemi agricoli e urbani), caratterizzati dal fatto di non trovarsi in una situazione di equilibrio naturale, ma soggetti a continue immissioni e apporti di input ed energie. Le due sfere di ecosistema naturale ed ecosistema artificiale non si presentano nettamente distinte, ma tendono piuttosto a coincidere e a compenetrarsi. Un esempio di questa sovrapposizione è evidente: nell’effetto serra, nelle piogge acide, nel buco dell’ozono, nella deforestazione, nella riduzione della fertilità dei suoli, nella riduzione della biodiversità, nell’esaurimento delle risorse, tutti fenomeni che testimoniano la caduta della dicotomia tra naturale e artificiale.

Assumendo che non esista più una natura indenne dagli effetti prodotti dalle società umane, è chiaro come la società si sia imposta prepotentemente sulla natura, soppiantandola attraverso una violenta operazione di colonizzazione artificiale, imprigionando la natura allo scopo di separarla dalla

società e utilizzarla per i propri scopi, stravolgendo totalmente l’idea originaria di natura. Tuttavia, questo mutamento, ha provocato una paradossale entrata della natura nella società (pensiamo alle malattie o ai disturbi che si manifestano a seguito della relazione impari a cui abbiamo fatto accenno in precedenza).

In sostanza, è palese un imprigionamento della natura nella società e nella scienza, assumendo un senso sempre più lontano dall’originaria immagine della natura, evidenziando la morte dell’idea storica di natura prodotta dall’immaginario sociale della modernità che l’ha reclusa nell’oggettualità della conoscenza scientifica (Pieroni 2010, 135).

Ecco, allora, che la questione sociale non può prescindere da quella ecologica, né dalla questione politica la quale è vocata alla risoluzione del conflitto.

La complessità del tema implica inevitabilmente una visione d’insieme del problema attraverso l’osservazione delle relazioni e delle interrelazioni che coinvolgono le parti.

Questo modo di ragionare sul mondo, comporta la considerazione di distinzioni piuttosto che di separazioni dicotomiche (Pieroni 2010, 135).

L’interdipendenza circolare che lega azione e contesto, fa crollare uno degli assiomi dell’economia tradizionale, secondo cui sussiste un’invarianza delle condizioni di contesto in cui si svolge ‘azione. In quest’ambito si colloca il tema della sostenibilità, che emerge negli anni Quaranta nel campo dell’ecologia per poi approdare alle scienze sociali. Il termine appare per la prima volta nel 1968 ad una conferenza intergovernativa di esperti sulla Biosfera a Parigi; tuttavia, le luci della ribalta si accendono sulla sostenibilità a partire dalla pubblicazione del Rapporto Brundtland nel 1987, fino a divenire oggetto di discussione mondiale ai vertici delle istituzioni, durante il summit mondiale dell’ONU di Rio de Janeiro, in cui la sostenibilità diviene uno dei nodi centrali dei programmi politici, sociali e ambientali dei governi.

La sostenibilità nella sua accezione originaria fa riferimento alla capacità degli ecosistemi di sopportare il peso dell’azione antropica e della riproduzione della società umana. Una definizione di questo genere sottende un ragionamento di tipo lineare, poiché si guarda all’impatto della popolazione sulla natura senza fare riferimento alle risposte (feedback) della natura sulla società, logica fondato sulla circolarità.

Dal summit di Rio de Janeiro che segna la nascita della sostenibilità come tema di interesse planetario, si arriva dieci anni dopo alla Conferenza di Johannesburg che rappresenta, per contro, la morte della sostenibilità. Il fallimento mondiale si evidenziava nel fatto che due lustri si registrò un netto peggioramento degli indicatori più significativi che concorrevano a definire la sostenibilità stessa, come ad esempio gli indici di emissione di CO2. In pratica, nell’ultimo decennio del millennio scorso, non solo si rese visibile il mancato rispetto degli accordi inerenti la tutela

dell’ambiente, ma crebbero fortemente disuguaglianze sociali e disparità economiche tra i popoli. Qualche dato:

• Le emissione di anidride carbonica aumentarono proprio nei Paesi ritenuti i maggiori responsabili del mutamento climatico globale, come ad esempio gli USA; le emissioni aumentarono del 3,1% all’anno dal 2000 al 2006, che è più del doppio del tasso di crescita degli anni ’90;

• Le barriere coralline danneggiate passarono dal 10% al 27%; • La spesa per gli armamenti superò i due miliardi di euro per giorno;

• Il prodotto interno lordo (Pil) crebbe del 30%, ma gli aiuti allo sviluppo diminuirono del 23%.

• Non solo scese la somma destinata agli aiuti allo sviluppo, ma si gonfiò il debito pubblico che soffoca le società dei paesi poveri, tanto che gli interessi che il Terzo Mondo paga al Primo Mondo superano le quote destinati agli aiuti per lo sviluppo.

Pieroni sostiene che la ragione di questo fallimento sia da ricollegare al fatto che il concetto di sostenibilità è stato associato esplicitamente a quello di sviluppo mentre, contemporaneamente, il concetto di sviluppo è legato alla crescita economica, la quale oggi appare come una delle principali cause dell’insostenibilità ambientale. Dovremmo chiederci da quale immaginario è sostenuto il concetto di sviluppo. Volta distingue due diverse prospettive a tal proposito, a seconda della dimensione spaziale in cui si colloca l’osservatore:

• Una visione antropocentrica, tipica dell’ambito locale. • Una visione ecocentrica, caratteristica della visione globale.

Quanto senso ha, dunque, pensare globale e agire locale? Come uscire dalla visione dualistica e di contrapposizione figlia della modernità tra natura e esseri umani? Un primo passo dovrebbe essere, come accennato in precedenza, quello di considerare unitariamente la storia ecologica e l’emergenza della crisi ecologica con il rischio della crisi di organizzazione sociale, in modo che la divisione concettuale non generi una distorsione cognitiva e uscire, così, dalla contrapposizione antropocentrismo/ecocentrismo. Occorre, pertanto, ridefinire i significati che diamo ai concetti di economia, sviluppo, crescita e sostenibilità.

Latouche definisce l’economia un’invenzione moderna, fortemente radicata nell’immaginario sociale attraverso i concetti di bisogno, scarsità, utilità, valore, produzione e, quindi, tale da giustificare un agire imperniato sulla costante crescita economica. Secondo il sociologo francese, questa incarnazione dell’economia nell’uomo moderno ha insidiosamente trasformato i giudizi di fatto in giudizi di valore, facendo apparire come normale e controllabile la catastrofe ecologica che ci troviamo davanti. Andando più nello specifico, l’insidio dell’economia “consiste nella

costruzione di una sfera autoreferenziale di concetti vuoti che tuttavia costituiscono i presupposti ideologici di percezione del mondo, per cui l’economia appare come un dato naturale, oggettivo” (Pieroni 2010, 139). Nella decostruzione dell’ontogenesi economica operata da alcuni studiosi come Latouche, viene a cadere l’assioma del principio economico, il quale si impone come dogma e religione della società, portatrice del progresso, in cui i valori, l’etica e la morale sono estromessi dalla vita quotidiana per far posto a logiche semantiche fondate sull’individualismo e la mercificazione di uomini e rapporti. Solo demistificando la razionalità economica, l‘economia non appare più come un dato umano naturale, ma si mostra nuda nella sua costruzione inventata, nella sua irrazionalità e nel suo fallimento dello sviluppo, sintomatici di una chiara insostenibilità.

L’operazione di avvicinamento del consumo a temi etici ed ecologici ha dato inizio a questa fase di demistificazione dell’economia. Tuttavia, il coinvolgimento in pratiche di consumo critico di nuovi soggetti necessita di una comunicazione appropriata, ancora di più quando si tratta il tema del consumo alimentare.

La sostenibilità nell'ambito del consumo è la risultante di tre fattori:

• la consapevolezza dei consumatori nella scelta dei prodotti sostenibili, fondamentale per la crescita della domanda.

• la presa di coscienza sulla sostenibilità riguardante i produttori e i distributori che incide sulla qualità dell'offerta.

• il ruolo della comunicazione per la promozione della sostenibilità, utile alla costruzione dei due punti precedenti.

Il cibo è espressione dell'identità e della cultura dei popoli, ma in questo rapporto identitario si è inserito prepotentemente, a partire dagli anni Ottanta, il processo di globalizzazione che ha appiattito i gusti e diminuito la diversità degli ingredienti. Se questo, da un lato, va a vantaggio dell'industria alimentare che punta a standardizzare la propria offerta sostenuta da un'agricoltura monouso a coltivazioni intensive, dall'altro rappresenta un vero e proprio impoverimento culturale e ambientale. L'ambiente, infatti, si trova a fare i conti con un uomo non più onnivoro, ma prevalentemente carnivoro che vede già un quarto di tutte le terre coltivabili dedicate alla produzione di mangimi per animali, quantità destinata ad aumentare secondo il trend alimentare. Inoltre, la massificazione dei gusti vede anche un surplus di produzione nei Paesi sviluppati, surplus in parte destinato allo spreco visto che un’enorme quantità non viene distribuita. Siamo in presenza di un processo di non globalizzazione: le risorse vengono prodotte, ma non condivise, non globalizzate. A questo si aggiunge la perdita delle tradizioni e del patrimonio culinario identitario, espressione della propria cultura. Da qui la necessità di recuperare una sostenibilità dei consumi alimentari.

Per avviare un cambiamento nel consumo alimentare è necessario colpire l'immaginario collettivo, proprio perchè è appurata la correlazione tra pensiero e cibo. Proprio Claude Levi-Strauss sosteneva che non è buono quello che è buono da mangiare, ma è buono quello che è buono da pensare: il pensiero è intrinseco al cibo e ciò che è un buon pensiero diventa anche un buon cibo. La cultura del pensiero produce, quindi, i palati. Lo stesso Massimo Montanari, scrive:

“Il cibo non è buono o cattivo in assoluto: qualcuno ci ha insegnato a riconoscerlo come tale. L’organo del gusto non è la lingua, ma il cervello, un organo culturalmente e storicamente determinato, attraverso il quale si imparano e si trasmettono i criteri di valutazione. Perciò questi criteri sono variabili nel tempo e nello spazio” (Montanari, 2010, pag. 73).

Anche il modo di consumare il cibo riflette la nostra cultura:

“Il nostro rapporto col cibo è stato radicalmente modificato dal diffondersi, verso la metà del XIX secolo, del cosiddetto servizio alla russa, cioè l’uso di servire ai convitati una successione di vivande prefissata e uguale per tutti. Il modello che si era seguito fino ad allora era assai diverso, più simile a quello che troviamo tuttora praticato in Cina e in Giappone e in altri Paesi del mondo: i cibi sono serviti in tavola simultaneamente, e spetta a ciascun convitato sceglierli e ordinarli secondo il proprio gusto” (ibidem, pag. 79)

I temi classici della comunicazione per indurre all'acquisto di un bene alimentare facevano leva sulla bontà, la genuinità e la naturalezza del prodotto. Oggi assistiamo a cambiamenti tematici e cambiamenti formali della comunicazione riguardante l'alimentazione sostenibile. Il packaging migliore oggi, per esempio, sarebbe l'assenza di packaging e il visual merchandising punta non solo a colpire gli occhi, ma soprattutto la mente, trascinando il potenziale consumatore in un'estasi sensoriale.

"Ogni prodotto è un dispositivo comunicativo rivestito di un mondo possibile grazie alle numerosissime narrazioni che lo accompagnano. In questo modo non è mai il solo prodotto che viene desiderato, ma semmai il portato immateriale che lo accompagna, composto di narrazioni, facce, gesti, azioni, jingle, colori, immagini, suoni, ecc... L'estetica fine a se stessa non interessa più. Il bel prodotto, ben presentato, l'appetizing tipico di tanta comunicazione alimentare classica rimane importante se si trasforma o se si accompagna con l'etica" (Ferraresi , 2011, p. 216, 217)

In stretta connessione alla stimolazione sensoriale vi è l'elemento esperienziale. Come sostiene Giampaolo Fabris:

"E' nel fluire dell'esperienza che si sostanzia il tempo e perché l'esperienza nasce nel e dal tempo. Ma anche perchè gran parte dei processi di consumo oggi significano e sottendono essenzialmente esperienza (...) una categoria che è allo stesso tempo sociale, economica, soggettiva, relazionale, immaginifica, concreta”.

C'è da sottolineare, però, che la comunicazione di prodotti alimentari sostenibili si indirizza per lo più verso consumatori già sensibili e attenti al tema della sostenibilità, quindi ad un consumatore che si aspetta determinate informazioni e che, se non le trova, ne va alla ricerca. Questo è in contrasto con la missione tradizionale della comunicazione pubblicitaria atta a risvegliare i consumatori distratti. L'obiettivo della comunicazione sostenibile, invece, non è quella di circuire il potenziale consumatore, ma in un certo senso di dialogare con lui, di accompagnarlo nella riflessione: si coinvolge, non si persuade, si informa, non si convince. Per quanto questo impedisce di etichettare la comunicazione sostenibile al pari di un marketing aziendale, dall’altro lato porta con sé problematiche legate alla limitata efficacia persuasiva che dovrebbe essere pregnante in un’operazione di comunicazione e sensibilizzazione.

Probabilmente, per questa ragione, abbiamo riscontrato nelle diverse realtà che si definiscono sostenibili, come è accaduto anche nei due casi studio di questo lavoro, modalità comunicative che alle volte si identificavano nel marketing puro, mentre altre volte erano la risultante di un processo comunicativo interno ad un gruppo già sensibile ai temi di eticità e sostenibilità e, quindi, non inclusivo di nuove soggettività. Nel caso della Granxa Familiar, ad esempio, è evidente una comunicazione mediale intesa a persuadere, a promuovere i piccoli produttori in un’ottica puramente commerciale, richiamando i temi della genuinità e della tipicità come una sorta di corollario ostentativo. Completamente differente la strategia comunicativa dei gruppi di acquisto, incentrati prevalentemente sul passaparola e sui momenti associativi, peraltro poco partecipati e, pertanto, insufficienti a raccogliere nuove adesioni.

In Calabria la comunicazione da parte del Gal Kroton, invece, non si concentra su piattaforme multimediali, come prevede il progetto spin off dell’università spagnola, piuttosto si articola in campagne di sensibilizzazione negli istituti scolastici e in eventi dedicati alla riscoperta del gusto e delle tradizioni tra produttori e consumatori. Il medium della rete in Calabria non vede ancora un pieno utilizzo da parte dei piccoli produttori (a parte la comunicazione nei social) né da parte degli organi preposti alla promozione delle eccellenze regionali. Sono piuttosto i consumatori i veri fruitori e protagonisti della rete che si spingono nella giungla di bit per ricercare più informazioni possibili in merito al consumo critico e ai possibili canali di vendita ad esso collegati.

Tornando alle narrazioni sulla sostenibilità, quello che si registra è comunque un mutamento del capitale culturale, per dirla con Bourdieu, degli attori sociali nella direzione della sostenibilità. Per quanto possano apparire temi eccessivamente dibattuti anche solo a scopo utilitaristico dalle imprese che si immergono nel cosiddetto green washing, rimangono delle informazioni preziose che vanno ad arricchire il bagaglio culturale degli individui. Si sposta, quindi, il baricentro della comunicazione e della percezione da una persuasione passiva ad un coinvolgimento emotivo- razionale attivo. È innegabile il delinearsi di una nuova distinzione sociale operata da consumatore ad alto capitale culturale e con un potere di spesa medio e, in questo, probabilmente, risiede il limite del consumo di prodotti alimentari sostenibili conferendo la dimensione di mercato di nicchia. Tuttavia, i potenziali consumatori critici sono in crescita proprio per la condivisione sempre più capillare di informazioni sulla sostenibilità, le quali derivano in parte da una lungimirante preoccupazione per l'ambiente. Inoltre, si consente ai piccoli produttori di sopravvivere sul mercato in barba alle grande imprese. Pertanto, ritengo che la separazione in classi sociali in funzione della distinzione sociale, non sia così netta.

"Secondo le statistiche GfK-Eurisko riportate nel libro di Masi (2010, p.52), la tutela dell'ambiente è tra le più grandi preoccupazioni degli italiani, dopo la disoccupazione e la crisi economica(...) Conseguentemente ci si sposta verso uno stile di vita più attento alla sostenibilità e addirittura il 70% si dichiara interessato alle comunicazioni riguardanti i temi ambientali" (Ferraresi, 2011, p. 218)

Le modalità della comunicazione critica sostenibile sono molteplici. Sicuramente non solo advertising: si va dalle azioni below the line attraverso il marketing del passaparola, al viral, al tribal al guerrilla marketing. Per quanto riguarda quest’ultima, negli ultimi anni si sta cercando di evitare la caduta del consumatore in quello che, in psicologia, viene chiamato paradosso della troppa scelta, secondo cui l’eccesso rischia di determinare la “non scelta” facendo rifugiare il consumatore nelle abitudini. La guerrilla marketing dovrebbe mettere al centro il consumatore per ottenere un risultato efficace secondo i nuovi trend del marketing. Il punto focale della comunicazione sostenibile è, quindi, la costruzione di un progetto comunicativo. Non uno slogan, non la creazione di un'immagine, non uno spot. Per progetto comunicativo si intende organizzare una comunicazione digitale sul Web e sul mobile, organizzare eventi, stimolare la sensibilità a livello di territorio e posizionare a livello sociale il prodotto, per le quali non solo sono necessarie competenze di marketing ma anche competenze sociologiche.

Ovviamente il progetto comunicativo risente della trasformazione sociale orientata sempre più alla costituzione di una società cablata, o meglio, di una società wireless come la definisce Bauman. La

vita sociale, prosegue il sociologo polacco, si è già trasformata in vita elettronica, cybervita e “morte sociale” significa non essere connessi alla rete condividendo ogni minimo particolare della propria esistenza come in un’operazione continua di marketing di se stessi. Nella società liquido moderna c’è “la nudità fisica, sociale e psichica”, viviamo in una sorta di società confessionale in cui si è allo stesso tempo promotori di un prodotto e il prodotto che si promuove in un grande spazio che è il mercato della rete. Bauman, dunque, evidenziando l’accezione negativa della società wireless, intende mostrare come la deregolamentazione e la privatizzazione costante abbiano pervaso persino le vite private trasformando tutti in promotori di se stessi, mercificando e rimercificando capitale, lavoro e la vita stessa. Tra le due scuole di pensiero, quella che vede il consumatore come soggetto eterodiretto dalla produzione e quella che invece lo considera come autonomo e libero nelle proprie scelte, Bauman traccia una terza via evidenziando come i confini tra consumatore e merce non siano più così netti.

“Nella maggior parte delle descrizioni il mondo formato e sostenuto dalla società dei consumi rimane nettamente diviso tra le cose da scegliere e coloro che le scelgono; tra le merci e i loro consumatori; tra cose da consumare e persone che le consumano. In realtà, la società dei consumi è ciò che è proprio perché non è fatta in quel modo: ciò che la distingue da altri tipi di società è proprio il fatto che le divisioni sopra indicate si confondono e, in ultima analisi, si annullano. Nella società dei consumatori nessuno può diventare soggetto senza prima trasformarsi in merce. (…) La soggettività del soggetto è imperniata su uno sforzo senza fine del soggetto stesso per essere e restare una merce vendibile. La caratteristica più spiccata della società dei consumi, per quanto attentamente custodita e totalmente occultata, è la trasformazione dei consumatori in merce.” (Bauman, 2010, p. 17)

Il sociologo polacco parla di feticismo della soggettività quando si riferisce alla realtà mercificata dei consumatori in cui sono l’acquisto e la vendita dei segni dispiegati nella costruzione dell’identità a essere cancellati dalle sembianze del prodotto finale. Quindi, il ruolo di soggetto svolto dal consumatore è per Bauman una mera finzione: mentre le merci continuano ad assolvere, in maniera sempre più perfezionata, il loro ruolo di oggetti docili e sottomessi alla volontà altrui, i consumatori si sentono soggetti sovrani mentre, invece, non sono altro che uomini adeguatamente preparati dal marketing e dai copywriter pubblicitari a svolgere il ruolo di soggetto senza soggettività, una vera e propria parte recitata come vita reale.

Che le pratiche di consumo critico siano una questione a parte è poco credibile secondo Bauman. Infatti, egli sostiene che la società dei consumatori ha sviluppato una capacità fondamentale per