OLTRE LA CRITICA AL CONSUMO CRITICO
78 L’astrazione del valore d’uso dei beni non vale per lo scambio simbolico (dono, regalo) perché la relazione personale
4.2 CONSUMO E INNOVAZIONI TECNOLOGICHE
Debord, presentandoci la società dello spettacolo, ripensa le teorie marxiste adattandola all’evoluzione che si è operata nel corso degli ani nell’accumulazione delle merci. Infatti, mentre Marx ne Il Capitale affermava che “tutta la vita delle società moderne in cui predominano le condizioni attuali di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di merci”, Debord nella sua opera magna La società dello spettacolo, ricalca l’incipit de Il Capitale di Marx:
“tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli”. (Debord, 2004)
Con questa asserzione Debord vuole significare che l’accumulazione del capitale e l’espansione delle tecnologie della comunicazione hanno permesso di spingere il “feticismo delle merci” ad un grado prima impensabile. Il concetto centrale della critica di Debord è lo spettacolo, il quale va inteso come il tipo di relazioni interpersonali costruite dalle immagini di una società spettacolarizzata, tant’è che egli afferma:
“Lo spettacolo non è un insieme di immagini ma un rapporto sociale fra individui mediato dalle immagini83”
Esso è definito anche come il momento in cui la merce è pervenuta all’occupazione totale della vita sociale, è il capitale ad un grado tale di accumulazione da diventare astratto, immagine; lo spettacolo non è altro che l’equivalente generale astratto di tutte le merci. Insomma, la società non è spettacolare per l’abnorme sviluppo del cosiddetto mediale, ma per il compiersi della dittatura della merce e per il pieno dispiegarsi della sua potenza feticistica». La spettacolarizzazione o il processo di ‘riduzione a spettacolo’, invece, è il senso della pratica totalizzante di una determinata formazione economico-sociale, la quale gestisce e manipola una crescente moltitudine di immagini- oggetto, entro cui fluttua inconsapevolmente l’individuo.
Da sottolineare che lo spettacolo, per il filosofo francese, rappresenta solo una parte della società, configurandosi come quello strumento attraverso cui questa parte domina il tutto. Questa contraddizione rende evidentemente questo strumento falso ed ingannevole, poiché struttura le immagini secondo gli interessi solo di una parte della società. Il settore in questione che domina il
resto della società non è altro che l’economia. Lo spettacolo è così il prodotto della mercificazione della vita moderna, il progresso del capitalismo consumistico verso il feticismo e la reificazione. Anche Baudrillard fa riferimento al tema della spettacolarizzazione nella sua opera La società dei consumi (1976) affermando che:
“Si potrebbe proporre quindi che l’era del consumo, essendo lo sbocco storico di tutto il processo di produttività accelerata sotto il segno del capitale, sia anche l’era dell’alienazione radicale. La logica della merce si è generalizzata, in quanto oggi regola non solamente i processi di lavoro e i prodotti materiali ma anche l’intera cultura, la sessualità, le relazioni umane, fino ai fantasmi e alle pulsioni individuali. Tutto è ripreso da questa logica, non solamente nel senso in cui tutte le funzioni, tutti i bisogni sono oggettivati manipolati in termini di profitto, ma nel senso più profondo in cui tutto è spettacolarizzato, cioè evocato, provocato, orchestrato in immagini, segni e modelli consumabili” (Baudrillard, 1976, p. 234).
Constatando una frammentazione della società, visto il dominio di una parte di essa, lo spettacolo è funzionale ad una ricomposizione dell’unità perduta nella realtà sul piano delle immagini, le quali mostrano tutto ciò che manca nella vita degli individui. Per Debord, la società dello spettacolo mostra come unito ciò che in realtà è diviso e come diviso ciò che in realtà è unito. È in questo modo che si realizza una nuova alienazione. Mentre nel capitalismo classico, descritto da Marx, l’alienazione è il risultato del passaggio dall’essere all’avere, nel capitalismo spettacolare essa deriva dal passaggio dall’avere all’apparire.
“La prima fase del dominio dell’economia sulla vita sociale aveva determinato nella definizione di ogni realizzazione umana un’evidente degradazione dell’essere in avere. La fase presente dell’occupazione totale della vita sociale da parte dei risultati accumulati dell’economia conduce a uno slittamento generalizzato dell’avere nell’apparire, da cui ogni “avere” effettivo deve trarre il suo prestigio immediato e la sua funzione ultima84”
Questa alienazione è evidente anche nella mancanza di dialogo: lo spettacolo, infatti, si caratterizza dal fatto di essere un monologo elogiativo dell’ordine capitalistico esistente. Come l’immagine si sostituisce alla realtà, la visione dello spettacolo si sostituisce alla vita. I consumatori piuttosto che fare esperienze dirette, si accontentano di osservare nello spettacolo tutto ciò che a loro manca. Per questo lo spettacolo è il contrario della vita. Debord descrive in questi termini tale alienazione del consumatore:
“più egli contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la sua propria esistenza e il suo proprio desiderio85”.
Proliferazione delle immagini e acclamazione dell’individualismo sono funzionali al mantenimento dello stato delle cose. Tuttavia, non bisogna credere che lo spettacolo sia un’invenzione del capitalismo moderno, poiché anche in passato è stato a sufficienza utilizzato per assoggettare le masse: pensiamo, ad esempio, al caso della religione. Ma mentre la religione si è imposta, nella concezione debordiana, come fonte di divieti per l'uomo, lo spettacolo mostra all'uomo ciò che egli può fare. È solo nell’epoca moderna che il potere ha accumulato i mezzi sufficienti, non solo per dominare la società, ma anche per plasmarla secondo i propri interessi, attraverso una produzione volta alla diffusione dell’isolamento.
Il tema centrale de La società dello spettacolo consiste proprio nella trasformazione del proletario in consumatore.
“Mentre nella fase primitiva dell’accumulazione capitalistica l’economia politica non vede nel proletario che l’operaio”, che deve ricevere il minimo indispensabile per la conservazione della sua forza-lavoro, senza mai considerarlo nei suoi svaghi, nella sua umanità, questa posizione delle idee della classe dominante si rovescia appena il grado di abbondanza raggiunto nella produzione di merci esige un surplus di collaborazione dell’operaio. Questo operaio improvvisamente lavato del disprezzo totale che gli è chiaramente espresso da tutte le modalità di organizzazione e di sorveglianza della produzione, si ritrova ogni giorno al di fuori di essa apparentemente trattato come una persona grande, con una cortesia premurosa, sotto il travestimento del consumatore86”
A questo stato di cose, prodotto dalla tendenza al feticismo delle merci ed alla reificazione dell’economia autonomizzata, Debord contrappone il concetto di totalità. Se la costituzione del potere produce una separazione gerarchica della società, l’unica soluzione è quella di ricostruire realmente l’unità della stessa.
Questa totalità è intesa da Debord come comunità umana, che egli considera la vera natura umana. Tale comunità è possibile solo se ognuno può accedere direttamente ai fatti, e se tutti hanno i mezzi intellettuali e materiali necessari per decidere.
Nella comunità la comunicazione prende la forma del dialogo e della discussione ai quali ciascuno può partecipare, condizione necessaria per prendere decisioni in comune. Questa comunicazione diretta è l’opposto di quella unilaterale dello spettacolo, nel quale una parte separatasi dalla totalità
85 https://www.marxists.org/italiano/sezione/filosofia/debord/societa‐spettacolo.htm 86 http://www.filosofico.net/debord.htm
pretende di essere l’unica a parlare impartendo ordini che il resto della società deve limitarsi ad eseguire. Questo risultato può essere ottenuto perché anche nella società dello spettacolo, essendoci degli antagonisti al potere, persiste la lotta di classe. Il soggetto rivoluzionario è sempre il proletariato del quale Debord amplia la definizione, fino ad includervi tutti coloro che hanno perso il controllo sulla propria esistenza. Per essere rivoluzionario, il proletariato deve prendere coscienza del tempo storico, di come cioè nel corso della storia si sia passati da un tempo ciclico e naturale inscritto nei cicli dell’agricoltura ad un tempo dettato dall’uomo con l’avvento del capitalismo, tempo che si è trasformato sempre più in merce: tempo mercificato. La presa di coscienza del tempo sociale sarebbe in netta contrapposizione alla diffusione operata dallo spettacolo della finzione di un eterno presente, il quale pretende di aver posto fine alla storia.
Quella di Debord è un’intuizione avvincente che, però, non coglie completamente le trasformazioni sociali in atto. Anzitutto, la comunicazione nella società dello spettacolo non è unilaterale proprio grazie al fatto che internet, con social e forum, rende possibile un protagonismo dell’utente, il quale può esprimere le sue opinioni probabilmente in maniera ancora più esplicita di come non farebbe nella vita reale, grazie all’apparente sicurezza data dal fatto di trovarsi di fronte ad uno schermo e non di fronte a persone in carne ed ossa.
Rimangono, tuttavia, i tentativi del mercato tradizionale di ingabbiare le nuove creatività dei consumatori nelle logiche capitalistiche a cominciare dal linguaggio. L’evoluzione multimediale e tecnologica in generale costituisce, in un certo senso, una forma di assoggettamento degli individui ad una visione globale conforme a quella dettata dal potere dominante. Anche nel caso del consumo critico, possiamo notare l’uso e l’abuso di termini come: sostenibilità, genuinità, tradizione, locale, funzionali all’intercettazione di consumatori che si definiscono sensibili a questi temi. I rischi che si corrono con la spettacolarizzazione di categorie concettuali tipiche del consumo critico è quello di svuotare di significato termini che, in passato, sono stati pensati come basi semantiche di un nuovo stile di vita. L’uso indiscriminato e la banalizzazione di concetti che diventano slogan, dogmi, facili alibi, pretesti demagogici, emblemi ideologici e false illusioni. L’informazione mediatica sviluppata all’ennesima potenza ha costretto spesso i consumatori all’obbligo di scelta nella falsa percezione della libertà di scelta, proprio come nel post modernismo si è adottato un metodo di civilizzazione alternativo al metodo panottico attraverso un processo decentralizzato di indottrinamento (Bauman, 2010).
Foucault tratteggia bene le modalità in cui il potere si serve delle forze antagoniste per consolidarsi ulteriormente, negando il postulato secondo cui il potere si esprime con la violenza e la repressione. Secondo il sociologo francese le pratiche antagonistiche di chi si oppone al sistema sono assai fondamentali per l’esistenza dei dominanti. Il potere nel tempo ha adottato sempre meno la violenza
per favorire la serializzazione: più che impedire, il potere produce e costruisce forme e modelli di soggettività; dunque, siamo di fronte ad un potere con funzione produttiva che, in modo subdolo, non annulla ciò che lo avversa, ma lo riduce a sé, integrando l’eccesso fino a renderlo strutturante. È questo quello che accade, ad esempio, quando grossi centri di commercializzazione dei prodotti e imprese della grande distribuzione organizzata inseriscono tra le loro categorie di merce anche prodotti con caratteristiche richieste da una fascia più critica di consumatori. Molto spesso, quello che sembra il tentativo da parte delle imprese di venire in contro ai bisogni dei consumatori attenti si rivela, invece, una tela del ragno: le imprese si avvicinano con fare fittizio ad una cultura verde per non perdere potenziali clienti, risucchiandoli ugualmente in un vortice di innumerevoli merci da vendere in un posto senza tempo. Il cosiddetto green washing, cioè la pratica di attribuirsi crediti di eco compatibilità sponsorizzando cause ambientali per poi, nel concreto, rivelarsi completamente insensibili alla tutela del nostro ecosistema, è una conseguenza demistificata del mercato che non si ribella a consumatori esigenti, ma cerca di reinserire il sentimento di rivolta nel circuito capitalista. Anche nel caso della Granxa Familiar abbiamo riscontrato come non esista nessuna certificazione dei prodotti secondo la legislazione europea che vada a definire quelle che sono le caratteristiche dei prodotti biologici. L’assenza di una regolamentazione in merito lascia il concetto di naturalità alla discrezione dei produttori, negando ai consumatori la possibilità di accertarsi fino in fondo della qualità dei prodotti che stanno acquistando. Questa promozione di una genuinità non attestabile acuisce l’asimmetria informativa tra produttori e consumatore. Lo stesso Giampaolo Fabris parlando a proposito dei cosmetici naturali sottolinea questa difformità che può essere traslata anche ai beni alimentari:
“Accanto ai prodotti biologici del settore che hanno una precisa normativa e sono sottoposti a severe certificazioni, esiste una variegata ed eterogenea produzione la cui dichiarata naturalità è largamente lasciata alla coscienza dei produttori. Molti sono onesti e rigorosi, altri invece strumentalizzano un positivo trend del mercato all’insegna del piatto ricco mi ci ficco senza troppi scrupoli. Il consumatore si attende (o quanto meno desidererebbe) una interpretazione molto rigorosa, come quella legge prescrive. (…) Un consumatore che dovrebbe avere diritto ad essere tutelato e non raggirato proprio a causa del suo genuino interesse per la naturalità. Una naturalità da garantire lungo tutto il percorso della filiera. (…). Ancora una volta si registra, a ulteriore testimonianza di quanto incisivi siano i mutamenti a livello della domanda, che i consumatori precedano largamente una produzione e una vendita che stentano a seguire il loro passo su questi nuovi trend. La rassicurazione sulla naturalità è per lo più svolta sui punti vendita” (Fabris, 2005 p.200, 201)
In questo senso, non solo i corpi diventano il bersaglio del potere, ma anche l’anima. Un potere che genera le coscienze e altera fisiologicamente i corpi attraverso l’induzione di consumi è un potere
che penetra fin dentro l’anima degli individui. Foucault attribuisce all'anima la struttura terminale della signoria che il potere esercita sul corpo che da questa è agito. È così che l’anima diventa prigione del corpo, tanto che Foucault afferma:
“Non bisognerebbe dire che l'anima è un'illusione, o un effetto ideologico. Ma che esiste, che ha una realtà, che viene prodotta in permanenza, intorno, alla superficie, all'interno del corpo, mediante il funzionamento di un potere che si esercita su coloro che vengono puniti in modo più generale su quelli che vengono sorvegliati, addestrati, corretti, sui pazzi, i bambini, gli scolari, i colonizzati, su quelli che vengono legati ad un apparato di produzione e controllati lungo la loro esistenza. Quest'anima reale e incorporea non è minimamente sostanza; è l'elemento dove si articolano gli effetti di un certo tipo di potere e il riferimento di un sapere, l'ingranaggio per mezzo del quale le relazioni di potere danno luogo a un sapere possibile, e il sapere rinnova e rinforza il potere” (Foucault 1976, p. 33).
Le modalità in cui si esplica il consumerismo discorsivo fanno frequente ricorso alla rete. A tal proposito, in connessione alla rinascita della democrazia, Bauman fa notare non solo che essa è affidata al mercato, ma anche a internet. Il sociologo polacco afferma:
“Presentare internet come un nuovo e perfezionato strumento della politica, la navigazione nel word wide web come una forma di impegno politico e la rapidità dell’informazione telematica come progressi della democrazia è solo un modo per giustificare lo stile di vita di queste classi sociali e liberarsi dalla responsabilità di un impegno politico reale. Come tutti gli altri prodotti di mercato, anche la quantità dell’informazione che circola in internet è molto al di sopra delle capacità di assorbimento e di utilizzazione del consumatore” (Bauman, 2007).
Mentre le teorie del consumo produttivo si saldavano sempre più con le ideologie che ruotavano intorno al mito di Internet, diversi autori si sono, dunque, impegnati nello smentire la democraticità e l’utilità effettiva del World Wide Web. L’interattività che sembra caratterizzare il rapporto degli individui con Internet è, in realtà, fittizio e lo si può spiegare col semplice fatto che Internet è uno spazio sociale caratterizzato da una notevole dispersione: internet non è una rete, ma un insieme senza dimensione di reti, che raccoglie le informazioni del mondo intero. Internet non è altro che la trasposizione multimediale del mero capitalismo, in cui flussi di capitali, di merci, di informazioni e di persone circolano continuamente (Castells, 2002).
“In questo tendere alla totalità e all’infinito sta il limite di Internet, la sua frustrante e deludente scommessa.(…). Internet si avvia ad essere già oggi, agli albori del suo sviluppo, malinconicamente indirizzato verso un futuro da televisione iper-generalista o iperspecializzata, interattiva finchè si vuole, ma
inesorabilmente commerciale. C’è qualcosa di male nel commercio, qualcosa che disturba? No, assolutamente. In un mondo che produce si deve pur consumare. Ma che c’entra il commercio con la rivoluzione? Non ci sarà mai nessuna rivoluzione del pensiero, come qualcuno vorrebbe farci credere” (Landi, 2007, pp. 35-49).
È per questa ragione che più autori esprimono il loro dissenso quando Internet si erge a baluardo di una nuova democrazia. La libertà e la trasparenza assolute sono chimere funzionali a chi intende sviluppare la dimensione economica della Rete e a chi intende controllare la mole di informazioni che passano attraverso il pc. Lo stesso Google, un semplice motore di ricerca, rappresenta uno strumento antidemocratico, quasi dittatoriale nella selezione delle informazioni.
"Il modello di Google è un modello che appare essere regolato da una specie di dittatura della mediocrità. Ovvero dal volere della massa, che si impone con la forza della sua quantità, grazie agli algoritmi di motori di ricerca come quello di Google, i quali premiano i siti più frequentati e dunque più popolari. Con il risultato finale che la massa di ignoranti può avere la meglio sulle persone realmente competenti e che in generale tutti quanti ci perdono sul piano sia dell'autorevolezza che della visibilità87" (Lanier, 2010)
A tal proposito, la studiosa statunitense Jodi Dean sostiene che le moderne tecnologie della comunicazione sono profondamente depoliticizzanti e che la comunicazione funziona in modo feticistico, nel senso che il feticcio tecnologico diventa un sostituto dell’impegno politico con la falsa illusione di essere cittadini super informati e, di conseguenza, partecipi. Questo comporta un’apatia nei confronti di un reale impegno politico ai fini di un ordine democratico, tanto che Bauman utilizza una metafora per spiegare questo processo dicendo che:
“Il continuo flusso di informazione a cui siamo sottoposti non è un affluente del fiume della democrazia, ma un vortice che cattura contenuti rigurgitandoli in laghi artificiali maestosi e giganteschi, ma stagnanti e stantii. Più è grande questo flusso, maggiore è il rischio che il fiume della democrazia si inaridisca. I canali mondiali dell’informazione nutrono la moderna cultura liquida sostituendo l’imparare con il dimenticare. Fagocitando tutti i segni di dissenso e protesta permettendo alla moderna cultura liquida di procedere senza rischi e senza scosse producendo immagini invece di discussioni e pensieri reali” (Bauman, 2007).
87 Jaron Lanier, Tu non sei un gadget, Arnoldo Mondadori Editore, 2010. Lanier è un saggista, informatico e
compositore statunitense, popolare per aver inventato la locuzione “realtà virtuale” e per aver aspramente criticato il paradigma culturale ottimista secondo cui il prodotto intellettuale di un gruppo sia sempre migliore dei prodotti intellettuali dei singoli.
Ecco che il consumo critico appare, allora, come un segno di resa da parte dei cittadini che fuggono da ogni impegno politico per rifugiarsi nelle grinfie di un mercato che lascia loro soltanto un limitato spazio d’azione. Tutto questo accade senza che i consumatori stessi si rendano conto di essere stati fagocitati dal sistema nel tentativo di distruggerlo. Il dissenso è stato assimilato, metabolizzato al punto di trarne forza e sostentamento. L’indottrinamento ideologico ha fatto la sua parte, l’esaltazione del consumatore come individuo che conta anche fuori dai suoi semplici acquisti ha conferito un’aurea d’importanza al consumatore attivista che va al di là delle sue effettive possibilità di riuscita. La creatività viene incastrata al punto tale da agire dentro un protocollo ed è così che il sistema socioeconomico di stampo capitalista si riproduce, proiettando quelli che sono i presupposti della sua sopravvivenza nelle menti dei suoi stessi sovversori ed evitando che essi attacchino le parti più deboli del sistema. In riferimento a ciò, Bauman scrive:
“In altre parole, la socializzazione efficace è quella che obbliga/induce/persuade gli individui a desiderare di