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Lorenzo Quartieri 1765 –

4. Storicità, esegesi ed interpretatio juris.

Nel linguaggio comune agli occhi d’un osservatore comune interpretazione ed esegesi appaiono come mere variazioni verbali d’una stessa puntualizzazione semantica, con la conseguenza naturale che i due termini possono essere – e spesso sono – usati indifferentemente per significare l’azione dello “spiegare” un testo. Nel linguaggio professionale dei giuristi, nel suo itinerario dalle prime Codificazioni in poi, qualcosa è intervenuto di singolare che ha valso a distaccarli marcatamente: mentre “interpretazione” risentendo del contenuto amplissimo che all’omologo latino “interpretatio” avevano conferito sia l’esperienza romana sia quella medievale e post- medievale del diritto comune, continua a connotarsi come vocabolo

211

A. LANDI, Diritto penale, diritto romano e poesia. Il massese Giuseppe Brugnoli, avvocato giudice e poeta tra restaurazione e unità d’Italia, cit., pp. 121-122.

168 improntato a grosse polivalenza e disponibilità, “esegesi” ha – al contrario – subìto nella recente vicenda continentale europea un clamoroso risecchimento. Nella cultura legolatrica dell’Ottocento, “esegesi” ha infatti sempre più significato interpretazione servile d’un testo legislativo con alle spalle una figura di giurista sempre più ridotto al rango passivo di aggiustatore tecnico di meccanismi alla cui

produzione egli è e si sente totalmente estraneo.213

Una volta che si sia compreso il rapporto che lega ogni singola norma e l’ordinamento di cui essa fa parte con l’istituzione ordinata, e la funzione che norma e ordinamento son chiamati a svolgere, la loro interpretazione dovrà necessariamente adeguarsi a questa comprensione.

In primo luogo apparirà inadeguata ogni riduzione dell'attività interpretativa del giurista a mera esegesi dei testi normativi.

Questa errata riduzione di scienza giuridica ad esegesi, è stata lungamente praticata come se fosse osservanza d’un rigido canone di legalità. Sullo sfondo c’era la presenza imponente del codice, quanto l’idea di codice: la scoperta, cioè, e la messa in opera di questa complessa struttura normativa, nella quale coerenza sistematica, intrinseca razionalità e conseguente giustizia concorrevano in perfetta reciproca armonia ad offrire la soluzione migliore possibile a qualunque problema di ordinata convivenza tra cittadini liberi ed uguali.

L’ammirata esclamazione che è dato cogliere sulla bocca dei pratici di poco senno: “nel codice c’è tutto, basta solamente sapercelo cercare”, altro non è che l’eco lontana ed incosciente di questa superba “idea di codice” che l’Illuminismo riformatore e Napoleone consegnarono all’Europa della Rivoluzione industriale.

Accanto al codice, e quasi a sostenerne e moltiplicarne la capacità normativa, stava il dogma della esclusiva statualità del diritto, in virtù

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del quale solo allo Stato si riconosceva la capacità e la possibilità di avere un ordinamento giuridico.

Aboliti i vecchi ceti d’Antico Regime, lo Stato era così in grado di affermare la propria esclusiva totale sovranità e di dettare tutte le regole di vita d’una società civile che nello Stato stesso trovava il proprio unico referente istituzionale.

Chi questo Codice era chiamato a interpretare, perapplicarlo o anche solamente per conoscerlo, non potevanon esserne come soggiogato: leggerne il testo,scoprirne tutte le connessioni intime, misurarnefino in fondo le capacità normative anche quelle che a prima lettura potevano apparire solamente implicite, era il massimo a cui quell'interprete poteva mirare. Essere la viva vox legis di questo codice, leggerlo come si sarebbe Ietta una pagina biblica, senza nulla aggiungervi di proprio, scoprire scritte nei singoli articoli le intenzioni del legislatore e farle proprie nell’operazione interpretativa anche quando personalmente non le si condividessero: era questo l'ideale etico, prim'ancora che scientifico o professionaIe, a cui iI giurista era chiamato a conformarsi.

Nacque in questo clima quella Scuola dell’Esegesi nelle cui schiere militò entusiasta una gran parte della scienza giuridica ottocentesca con il proposito di ridurre tutto il sapere del giurista ad esegesi del dato normativo, a semplice lettura del testo della legge a cui era regola assoluta che nulla il lettore scrupoloso potesse aggiungere di suo. E non fu di certo un caso che questa scuola nascesse in Francia, dove la “rivoluzionaria” idea di codice era stata dapprima pensata ed aveva dato il suo frutto più cospicuo col Code civil des Francais. I confini della patria d’origine furon superati, e la Scuola dell’Esegesi fiorì generosamente anche in Italia, dove era dapprima stato largamente recepito anche il modello codificatorio napoleonico. Nel codice troviamo ancor oggi una specie di costituzionalizzazione della riduzione dell'interpretatio juris a mera esegesi: l'art. 12 di

170 quelle disposizioni - riprendendo quasi alla lettera quanto già disponeva l'art. 3 delle disposizioni sulla pubblicazione, interpretazione ed applicazione delle leggi in generale premesse aI Codice civile del 1865 - ammonisce che “nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore". Questa formula dovrebbe esser interpretata piuttosto come provvida garanzia contro qualunque possibile specie di applicazione arbitraria della legge da parte del giudice, e cioè come richiamo alla più rigorosa osservanza del canone della legalità, si è soliti invece leggere fasti e nefasti della programmatica riduzione dell’interpretatio juris a semplice esegesi. E non v’è dubbio che, una volta compiuta quella certa riduzione, perderebbe significato ogni richiamo alla storicità come attributo essenziale di qualunque sistema normativo e come canone insostituibile di ogni sua corretta interpretazione.

In un contesto storico profondamente diverso da quello ottocentesco, una esegesi volutamente e lucidamente creatrice ha esercitato una funzione sostanzialmente legislativa, diametralmente opposta a quella di mera certificazione del dato normativo dell’Ottocentesca Scuola dell’Esegesi.214

Nell'ottica nostra, la funzione assegnata alla scienza giuridica è fondamentalmente quella di dare un assetto razionale e una più profonda intelligibilità ai dati che l’esperienza giuridica elabora ed offre nel suo quotidiano costruirsi e rinnovarsi; l'operazione interpretativa è sentita come sostanzialmente ricognitiva d'un “materiale” che, per quanto bisognoso d'esser chiarito e tradotto entro schemi razionalmente coerenti, è già di per sé formato ed esistente prima e indipendentemente dall'intervento dell' interprete.

214

U. SANTARELLI, L’esperienza giuridica basso-medioevale, Giappichelli, Torino, 1991, pp. 40-45.

171 Se ci accingessimo a studiare l'interpretatio juris basso-medievale partendo da un simile quadro di premesse teoriche, di quell'interpretatio ci sfuggirebbe proprio il significato più vero. Perché “c'è una sostanziale differenza tra il concetto che oggi noi abbiamo dell'interpretazione e quello che avevano, anche sulla scorta delle concettualizzazioni romanistiche, i giuristi medievali. Ma è una differenza fondata sulla diversa ampiezza del concetto, più ristretto per noi e più esteso per gli antichi, e tale da non investire

qualitativamente i suoi contenuti.

Mentre per noi, interpretazione significa presa di coscienza del valore di una norma ai fini della sua applicazione, per i giuristi intermedi il concetto andava oltre: accanto al conoscere per attuare, essi

comprendevano nell’interpretatio quelle attività, stanzialmente creative di nuovo diritto, volte all'elaborazione dei concetti e dei precetti giuridici ai fini del loro accrescimento".

Il modello principe di ogni approccio a un testo “autorevole” era suggerito dalla esegesi biblica: nella quale, per la soggezione che necessariamente incuteva un testo di cui nessuno contestava l'ispirazione divina, all'interprete non poteva concedersi altro “spazio” che non fosse quello del chiarimento testuale che rendesse più agevole la lettura. Era, poi, quella della esegesi, una tecnica culturale che affondava le sue radici molto indietro nel tempo; il cui strumentario poteva profittare d'una tradizione che, partendo dalla topica antica, giungeva ininterrottamente fino a quella raffinatissima logica formale che la speculazione teologico-filosofica basso- medievale veniva elaborando come suo autentico capolavoro: una

tradizione che dette i suoi frutti migliori proprio nell’ambito della sapienza teologica e della scienza giuridica.215

215 Ibid., cit., pp. 123-125.

172 5. Scienza giuridica e assolutismo giuridico.

La storia giuridica dell'Europa continentale alla fine del Settecento è consistita in un profondo snaturamento della dimensione giuridica: il diritto è diventato legge, si è immedesimato in un complesso di leggi, cioè in un complesso di regole imperative provenienti dai detentori del potere politico.

Gli storici conoscono bene le ragioni di quella svolta settecentesca: la borghesia, arrivata al potere, percepisce con lucidità l'enorme valore

stricto sensu politico del diritto, tende a monopolizzarlo e conia la

costruzione della legge come espressione della volontà generale e pertanto superiore ad ogni altra manifestazione giuridica. Il diritto, anche quello destinato a regolare i rapporti tra privati nella vita quotidiana, veniva collocato nelle mani del legislatore; mentre nell' esperienza medievale, ma anche per tutto I’antico regime, era stato una realtà complessa che emergeva in una infinita pluralità di usi e che maestri giudici notai si incaricavano di ordinare, in quell'estremo crinale del moderno diveniva qualcosa di molto più semplice: sublimato e immobilizzato in un diritto naturale dalla straordinaria fissità metastorica, era affidato al legislatore, il solo personaggio capace di leggere la natura delle cose e tradurla in regole da osservare. Conseguentemente, l'interpretazione veniva quasi respinta fuori del diritto e della sua individuazione, prendendo forma esasperata quel contrasto - opposizione - fra diritto e interpretazione, fra legislatore e interprete.

La civiltà giuridica pre-moderna aveva avuto nell'epoca medievale l'espressione più genuina: prima, il diritto consisteva in un grande ordine, ordine di cose, ordine di cose naturali e sociali; ora, si raggrinziva in una serie di comandi autoritari, perdeva la sua spiccata socialità per assumere un aperto colorito politico e inglobarsi entro la dimensione del politico.

173 La conseguenza: al vecchio diritto, incerto ma contrassegnato da tutto il pluralismo della società, se ne sostituiva uno rigoroso e certo

ma rigidamente monista, cioè esprimente la sola voce dei detentori

del potere.

L'età del più marcato liberalismo economico è per i giuristi l'età del

più marcato assolutismo giuridico. Il potere pretende di

monopolizzare ogni sfera del giuridico, non soltanto quelle più

connesse con l'organizzazione statuale e con l'apparato di coazione

ma anche nelle relazioni fra privati.

Nasce un nuovo rapporto fra dimensione politica e dimensione giuridica: il pluralismo della società diventa diritto soltanto per il tramite di un unico canale di scorrimento, i cui argini altissimi e impenetrabili sono costruiti dallo Stato.

I costi di tutta questa grandiosa operazione, che impegna la civiltà moderna dell'Europa continentale, sono molteplici: a fronte di questo

monopolio, a fronte di un diritto dal carattere legislativo, si riduceva a una porzione irrisoria lo spazio riservato ad altre forze; la stessa scienza giuridica veniva sostanzialmente espropriata del meccanismo creativo e ridotta ad un ruolo ancillare, mentre il giudice, l'applicatore per eccellenza, il traduttore della generale regola legislativa a regola della controversia particolare e specifica, veniva rivestito dei panni strettissimi di voce della legge, servo della legge. Il principio di legalità, formalisticamente inteso, assurgeva a cardine fondamentale dell'assetto costitutivo dello Stato, mentre il problema della interpretazione e applicazione del diritto veniva a contrarsi nella ricerca di quanto il legislatore avesse voluto nel momento di produzione della norma; nasceva un’atmosfera di diffidenza verso il giudice, interprete operativo, e lo scienziato, interprete dottrinale. Troppo spesso si arrivava al risultato aberrante e scandaloso di una veste giuridica inadeguata per il sottostante corpo sociale ed economico in continua crescita e sottoposto a vistosi mutamenti: il

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diritto perdeva il suo contatto con il sociale e si rivelava incapace di seguire, registrare e rivestire il mutamento sociale. Un punto

rilevantissimo è che il diritto - fisiologicamente - non è la norma che il tiranno impone violentemente sui sudditi o la iniqua imposizione fiscale cui uno Stato esoso costringe i cittadini. Tutto ciò esiste, ma è la sua immagine deformata, mentre, al contrario, nella sua dimensione fisiologica, esso si sostanzia in una realtà radicale che non si situa mai nell'effimero, nel quotidiano ma che si origina dagli strati profondi d'una società, si lega ai valori di questa.216

Dinanzi a un diritto ormai tutto identificato nella volontà statuale, non si è riflettuto su due conseguenze gravissime: il diritto si identificava nel solo diritto ufficiale, tendeva sempre più a formalizzarsi, mentre un confine compatto veniva ad ergersi fra il territorio del diritto e quello dei fatti; la società civile continuava ad essere depositaria della produzione giuridica soltanto nella favola- finzione della democrazia indiretta, ma nell’effettività ne restava espropriata; il diritto veniva sradicato dalla complessa ricchezza del sociale per legarsi a una sola cultura, impoverirsi e identificarsi sgradevolmente nella espressione del potere e della sua classe detentrice.

Assolutismo giuridico significa tutto questo, ma per lo storico significa soprattutto inaridimento: il rigido monismo dettato da imperiosi principi di ordine pubblico impedisce una visione pluriordinamentale e pluriculturale, concependo un solo canale storico di scorrimento munito di argini tanto alti da evitare immissioni e commistioni

dall’esterno.217

Assolutismo giuridico significa una civiltà giuridica che perde la percezione della complessità; una civiltà giuridica che è divenuta un ordine semplice, estremamente coerente nelle sue linee essenziale,

216

P.GROSSI, Assolutismo giuridico e diritto privato, cit., pp. 263-268. 217 Ibid., cit., pp. 3-4.

175 forte di una logica rigorosa, ma troppo poco sensibile al divenire e, soprattutto, al mutamento. Nei paesi di civil law il dramma del secolo XIX, che è il momento culminante dell’atteggiamento assolutistico, sta tutto nel divario sempre più marcato fra sistema giuridico (per massima parte coincidente col sistema legislativo) e mutamento; un mutamento molteplice e vorticoso che investe le dimensioni più varie, da quella tecnologica (il compiersi della grande industria, con la macchina quale protagonista) a quella sociale (l’emergere del proletariato con le sue rivendicazioni e le sue lotte) a quella economica (l’emergere – accanto alla tradizionale ricchezza fondiaria – di una ricchezza mobiliare sempre più protagonistica e di un mondo di beni immateriali su cui la raffinata organizzazione capitalistica fa leva).

All’occhio vigile dello storico del diritto, l’ordine giuridico non appare immobile. Come è stato pensato e interpretato, immediatamente dopo l’entrata in vigore, quell’art. 4 del Code Napoléon che obbliga il giudice alla decisione della controversia propostagli? Come una norma di chiusura, quasi di tenuta stagna del Codice, che vincolava il giudice a trovare una soluzione tra le maglie di quella rete potenzialmente anche se non formalmente completa che è appunto il Codice.

E si è, da allora, pensato all’evoluzione dell’ordinamento come ad una serie di colmature all’internodi un qualcosa che si poneva come struttura completa. E il legislatore si è affannato a fissar criteri per colmare quei “pochi” vuoti e ha cercato, quasi sempre con previsioni di semplice endointegrazione, di controllare l’interezza del processo, come è nell’art. 3 delle preleggi al primo Codice unitario italiano del 1865 o nell’asfittico art. 12 di quelle al Codice vigente del 1942. Bisogna smetterla di pensare all’ordine giuridico come a un qualcosa di compatto e, quindi, di compiuto, che mostra soltanto alcune “lacune”.

176 Continuare a pensare l’ordinamento come un involucro chiuso recante al suo interno alcune possibili lacune è artificioso e antistorico. La cosa da fare è sbarazzarsi dell’ingombrantissimo art. 12 delle preleggi al Codice del ’42 palesemente contrastante con i valori pluralistici della Costituzione repubblicana del principio di gerarchia delle fonti che non corrisponde più né allo stato della nostra odierna raffinatissima consapevolezza giuridica né allo stato attuale delle nostre fonti proiettate in una realtà pluridimensionale. Va, soprattutto, espunto per non incentivare la tradizionale pigrizia intellettuale dell’interprete-applicatore e per non fornire comodi

rifugi alla sordità di scienziati e di giudici.218