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Lorenzo Quartieri 1765 –

2. Dal Quartieri al Forti.

Abbia pure il Codice le sue definizioni, sieno pure scritta nel Codice le regole per giudicare delle qualità morali de’ fatti, e sarà compiuta una gran parte dell'opera che spetta alla giurisprudenza interpretativa; ma tuttavia non sarà mai vero che la sola lezione della legge scritta basti sempre a decidere una controversia.

Così Francesco Forti (1806-1838) esordiva nelle pagine delle Istituzioni di diritto civile accomodate all'uso del foro189 dedicate al tema dell'interpretatio: per lui il solo codice non poteva essere sufficiente alla soluzione delle controversie, poiché non è pensabile che con esso cessi il bisogno dell'interprete. Il codice napoleonico è visto come un esempio di raccolta di massime giurisprudenziali e come ogni raccolta ha bisogno anche dell'opera della dottrina.

188

Ibid., cit., pp. 94-95. 189

L’opera- rimasta incompleta per la morte dell’autore- fu pubblicata postuma la prima volta dal Vieusseux nel 1840 con il titolo Libri due delle Istituzioni civili accomodate all’uso del foro e ristampata nel 1863, sempre a Firenze, presso i librai Cammelli, con il titolo modificato di Libri due delle Istituzioni di diritto civile accomodate all’uso del foro.

156 In queste poche frasi è così sintetizzato lo scetticismo dell'autore sia verso l'idea illuministica che le questioni civili si abbiano a ridurre ad un facile sillogismo per quanto bastasse saper leggere il Codice per conoscere il punto di ragione, sia verso alcuni filosofi del passato, che esaltarono i modelli di Common Law, nei quali la giurisprudenza va a scovare la certezza del diritto nel criterio endogiurisprudenziale dello stare decisis.

Il Forti aveva dimostrato un certo interesse per il codice e aveva manifestato una timida adesione alle idee codicistiche della certezza del diritto: nelle Istituzioni aveva lamentato la troppo sbrigativa abrogazione del code in Toscana e aveva ripreso coloro che avevano criticato l'idea in sé della codificazione. Ma si trattava essenzialmente di una “idea di codice”: il Forti non pensava ad un codice completo e non eterointegrabile, e niente diceva della unicità del soggetto giuridico. Egli voleva una razionalizzazione del sistema di diritto comune, da attuarsi mediante una semplificazione delle fonti e dei meccanismi che potevano apparire obsoleti. Certamente era per lui inconcepibile un abbandono del diritto romano, legge scritta ed anche ragion legale; non era per lui possibile ingabbiare190 il diritto all'interno di un codice, e doveva essere riconosciuta alla giurisprudenza quella funzione interpretativa volta alla creazione del criterio legale come era nella migliore tradizione dell'esperienza toscana. Il Forti esprimeva insomma una indubbia esigenza di semplificazione giuridica, senza ricercarne però lo strumento in un codice, preferiva guardare al concreto lavoro degli operatori del diritto.191

Egli rileva l'impossibilità di demandare al solo legislatore il compito di interpretare le leggi: al legislatore si deve ricorrere soltanto quando

190 A. LANDI, Tra diritto comune e codice civile. Francesco Forti e il problema dell’interpretatio nella Toscana della Restaurazione, cit., pp. 329-330.

191

F. COLAO, Progetti di codificazione civile nella Toscana della Restaurazione, cit., p. 57.

157 un dubbio appare insuperabile alla logica individuale. Anche la recente esperienza francese ha dimostrato la velleità di un riconoscimento indiscriminato del “riferimento alle legislatore”. In questo istituto infatti sembra annidarsi un pericolo grave: l'eliminazione dell'indipendenza del potere giudiziario nei confronti degli altri poteri dello Stato. Nessuno può dubitare che si debba riconoscere un potere del legislatore di interpretare la legge in modo autentico, ma un'interpretazione siffatta è da considerarsi piuttosto

come legge nuova, anziché dichiarazione dell'antica.

L'interpretazione ordinaria, quella che quotidianamente si verifica, è quella giudiziale, perché spetta ai Tribunali decidere le controversie, senza che essi possano ricusare di amministrare giustizia sotto il pretesto di legge ambigua o oscura in questo citando l'art. 4 del Codice napoleonico, una disposizione che non aveva un'immediata vigenza nell'ordinamento toscano, in quanto abrogata con la Restaurazione di Ferdinando III, ma che poteva essere assunta nell'ordinamento proprio mediante una interpretatio creativa da parte della dottrina.

L'interpretazione giudiziale poteva divenire usuale, nel momento in cui si consolidava nel foro fino a raggiungere la consuetudine e

diventare legge.192

Poi l'autore ribadisce l'obbligo dei Tribunali di applicare la legge, precisando che quando essa è chiara nel suo dettato non c'è spazio per interpretazioni che possono condurre ad eludere la volontà del legislatore. Si tratta di una impostazione che si riconduce al brocardo In claris non fit interpretatio, inteso come limite all'attività ermeneutica del giurista, nel caso in cui la disposizione contempli

proprio in termini il caso a cui deve essere applicata.193

192

A. LANDI, Tra diritto comune e codice civile. Francesco Forti e il problema dell’interpretatio nella Toscana della Restaurazione, cit., pp. 331-332.

158 Il Forti poi esamina il primo tipo di interpretazione a cui deve rivolgersi il giurista: quella dichiarativa, perché se è vero che la legge chiara non abbisogna di interpretazione, occorre comunque definire che cosa si intenda per legge “chiara”: bisogna studiare le parole, utilizzando tutti gli strumenti letterari (grammatiche, lessici) che possono venire in aiuto per una corretta ricognizione del dettato normativo. Le regole dell'ermeneutica sono quattro: leggere le parole secondo la loro natural proprietà, cioè il senso che esse hanno nella vita di tutti i giorni, e con l'avvertenza che di solito la significazione stretta va anteposta alla latissima, presumere che le parole siano usate più nel senso tecnico che nel popolare perché potrebbero fuorviare considerando il fatto che il legislatore sicuramente preferisce il linguaggio parlato a quello desueto, infine, quando una parola ha avuto dal legislatore una destinazione certa, si presume usata sempre nello stesso senso.194

L'interpretazione deve avere riguardo a tutta la legge e non ad una sola particula.

Ma l'interprete spesso deve cercare l'intenzione del legislatore, partendo dalla supposizione che questi abbia ordinato tutte le disposizioni in modo tale da far raggiungere alla legge le finalità per le quali è stata fatta. Il Forti manifesta il suo scetticismo verso i “preamboli”, nei quali dovrebbe essere contenuta la spiegazione delle finalità perseguite dal legislatore con l'emanazione della legge, perché spesso vi è il rischio, dando eccessivo peso ai proemi, di complicare l'attività dell'interprete invece di semplificarla,

consegnando due subietti di interpretazione.195 Anche altri sovrani

illuminati Pietro Leopoldo Giuseppe II, rari esempi de’ legislatori

194

A. LANDI, Tra diritto comune e codice civile. Francesco Forti e il problema dell’interpretatio nella Toscana della Restaurazione, cit., pp. 333-334.

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benefici che stimolino la civiltà,196 che pure si servirono di preamboli per la loro legislazione, sarebbe riuscito molto difficoltoso motivare in modo dettagliato le proprie riforme questo perché quando le leggi provengono da un sovrano assoluto è molto difficile avere spiegazioni delle ragioni, mentre laddove le leggi sono frutto di assemblee rappresentative le intenzioni del legislatore si possono ricavare dai dibattiti che le hanno precedute.

Il Forti suggerisce di ancorare la ratio legis a criteri oggettivi: si deve considerare la legislazione nel suo complesso per capire la ragione della singola legge, lasciando perdere le clausole generali che molto risentono delle personali e soggettive inclinazioni dell'interprete. In questa direzione assume particolare importanza la storia del diritto, quale disciplina che sola può fornire alle giurista il quadro dell'esperienza giuridica dove la legge è nata, si è inserita ed è stata applicata. Una volta individuata la corretta ratio della legge, si deve fare in modo che la legge abbia applicazione non solo ai casi espressi, ma anche a quelli che dalla semplice lettera della disposizione, sembrerebbero non rientrarvi.

Secondo il Forti l'interprete può sbagliare nell'applicazione troppo automatica della regola ubi eadem ratio, ibi eadem iuris dispositio, cioè può trasformarsi in legislatore, se va ad investire casi preesistenti alla legge e da questa non presi in considerazione. Per quelli manifestatisi dopo la promulgazione della legge, l'interprete agisce, invece, sul presupposto che il legislatore se li avesse conosciuti, li avrebbe disciplinati allo stesso modo dei casi previsti

testualmente.197

196

Il Forti critica la redazione infelicissima della famosa Leopoldina, che non può essere considerata un codice vero e proprio, ma un abbozzo di legge, anche se rimane l’opera più generosa che sia mai escita e dal gabinetto di un principe assoluto.

197

A. LANDI, Tra diritto comune e codice civile. Francesco Forti e il problema dell’interpretatio nella Toscana della Restaurazione, cit., p. 337.

160 La regola cessante legis ratione, cessat lex ipsa è da considerarsi più un canone da valere per le scelte di politica legislativa, che quale criterio orientativo per l'interprete dinanzi ad una legge da

applicare.198 Comunque, riprendendo l'insegnamento come prima di

lui aveva fatto il Quartieri,199 ritiene che la mancanza della ratio

debba essere “totale” e sussistere “in astratto”: totale perché se vi fosse anche una sola ragione di applicazione la legge deve continuare ad esistere; in astratto, perché questa mancanza deve essere valutata prescindendo dalle circostanze particolari, dato che le leggi si fanno per la generalità dei casi e non per gl’individui.

Il Forti considera l'argomento del diritto naturale, visto come supremo criterio interpretativo, ma con l'avvertenza che l'equità non entra a temperare la legge, quando non può dubitarsi della chiarezza della disposizione legale. Alcune interessanti considerazioni vengono infine riservate alla successione di leggi nel tempo: esse consentono di inquadrare il rapporto ius commune – iura propria all'interno della successione temporale. Partendo dalla osservazione di come sia difficile applicare la regola che la legge successiva deroga alla precedente per il fatto che, spesso, non c'è omogeneità tra due leggi che si susseguono, e rilevata la necessità di scegliere, laddove possibile, un'interpretazione che tenda a conciliare le due leggi in successione temporale, il Forti spiega l'affermarsi della regola statutum interpretatur secundum ius commune e quella parallela secondo la quale lo statuto deve essere interpretato in modo che minus laedat ius commune. Quando invece questa conciliazione non è possibile, magari perché il legislatore ha innovato totalmente

198

Ibid., cit., p. 339.

199 Il Quartieri nel volume Illustrazioni speciali di vari punti della Ermeneutica legale aveva precisato che per l’operatività di tal vulgatum axioma, occorre 1) che consti apertamente della vera ed unica ragione della legge, da non confondersi col pretesto; 2) che questa ragione possa dirsi intieramente cessata per tutti, e non per qualcuno soltanto in qualche particolare circostanza. Si noti che il Forti, nonostante l’ammirazione dichiarata per il Quartieri nelle Istituzioni, I, p. 555, non lo cita né qui né in altri luoghi dedicati all’interpretazione.

161 un'intera materia, allora si dovrà dar luogo alla nuova disposizione e in questo caso le sentenze della giurisprudenza anteriore non dovranno più essere considerate.

È in virtù di questo principio di interpretazione delle leggi nuove con le massime delle antiche che fu possibile impiegare il diritto romano in ambito feudale come in materia statutaria. Sull'interpretazione del diritto romano il pesciatino si sofferma sull'importanza che hanno per i giuristi e per gli storici del diritto le Pandette fiorentine, con l'avvertenza però che esse non debbono venire sopravvalutate: in primis, perché anche il manoscritto fiorentino contiene degli errori e poi risulta essere una copia di un originale più antico; inoltre, perché sarebbe fuorviante ritenere che le antinomie presenti nel Digesto - come in qualunque altra opera della compilazione - possono essere appianate con il semplice ricorso alla emendazione dei testi, alla quale, secondo il Forti, si deve pervenire solo negli stretti termini della necessità, cioè quando un testo senza la correzione appare inintelligibile o contraddittorio. Poi il Forti prende in esame un fattore centrale dell'interpretatio di diritto comune: il principio di autorità. Egli apprezza l’opera dei Glossatori e dei Commentatori assai più di quella dei Culti. I primi infatti si affaticarono nella storicizzazione dei testi giustinianei, per adattarli alle esigenze dei loro tempi, così da rispondere al bisogno di norme che si aveva nella nuova società mercantile del Basso Medioevo; i Culti invece erano rimasti prigionieri delle loro teorie incentrate sulla filologia e del tutto fini a se stesse, per cui eran tenuti dai forensi piuttosto in conto di letterati, che di legali. E tuttavia di fronte alle numerose teoriche giuridiche provenienti dai Pratici o dei Culti, per comprendere quale scegliere ed applicare alle fattispecie concrete, si deve fare riferimento al consentimento del Foro: poco importa se un'interpretazione di un passo giustinianeo è erronea, perché basata su interpolazione o per altre ragioni; quello che conta è vedere se tale interpretazione è stata

162 ritenuta dal foro, così da assumere autorevolezza. Se ciò è avvenuto, non la si deve abbandonare sulla semplice base delle critiche dei Culti, perché avrebbe la conseguenza infelice di turbare lo stato della giurisprudenza.

Il criterio della communis opinio veniva ad essere sostituito da quello dell'usus fori, cosicché è dalla scelta operata dal giudice che derivava il crisma della autorevolezza di una interpretazione rispetto ad un'altra e non dalla convergenza di più dottori su una determinata interpretatio: l’auctoritas era la conseguenza dell'opinione ricevuta nel foro; le teoriche non ricevute venivano relegate a sussidi argomentativi per l'interprete privato, con una funzione simile a quella della dottrina negli ordinamenti a diritto codificato. Il sistema dunque trovava in questo modo, al suo interno, un criterio idoneo a garantire almeno in astratto la certezza del diritto, conservando una sufficiente capacità di adeguamento alle nuove esigenze, in virtù del suo carattere giurisprudenziale e non strettamente legalistico: “in astratto”, perché in concreto non sempre era semplice individuare l'opinione ricevuta dal foro; quindi l'interprete, per individuare l'opinione da accogliere, deve porre l'accento sulla consuetudo iudicandi cioè quando più giudici hanno deciso su una questione nello stesso modo, accettare questo orientamento, ma deve trattarsi di decisioni di tribunali del Granducato e non stranieri (che valgono solo come opinioni dottrinali, alle quali il giudice toscano può tranquillamente non attenersi, si tratti pure dell'autorevole Rota Romana) e, soprattutto, debbono essere decisioni in termini altrimenti è da considerarsi al pari di una mera dissertazione scientifica. Soltanto in ultima analisi, per risolvere le controversie si debbono prendere in considerazione le opinioni dei giureconsulti: utili, questi, perché persone molto versate nelle cose forensi, le cui

163 opinioni però non vincono mani l'autorità delle decisioni

giurisprudenziali.200 Verrà detto di lui:

italiano per ingegno, per istudii e per cuore, intese la scienza del Diritto italianamente: la intese, cioè, come scienza veramente civile, che i trovati più sottili dell'intelletto umano traduce in pane quotidiano, e li rende applicabili alla pratica della vita, e solamente perché tali gli apprezza. In questo concetto la scienza del diritto è buona, tanto per colui che deve campare da onesto uomo di vita, disputando sulla fossa comune, quanto per quello che è chiamato dalla fortuna al governo di uno stato.201

Nel giurista pesciatino si può notare il rifiuto del formalismo giuridico, a vantaggio di una dimensione storica del fenomeno giuridico: dunque un rifiuto sia alla codificazione nel significato che sarà fatto proprio dalla, École de l’exégèse, sia alla impostazione degli studi del diritto data dalla Scuola storica; per recuperare invece la tradizione

della giurisprudenza del tardo diritto comune.202 La società che ha

scelto il codice civile e quella che invece è rimasta ancorata al sistema di diritto comune hanno risolto diversamente il problema del ruolo dei giuristi al proprio interno: allora siamo in presenza non di una questione di conservazione o progresso, ma di un problema di interpretatio.203

La politica del Governo lorenese nel periodo della Restaurazione si distingueva da quella praticata nel resto d'Italia perché, tenendo fede al principio liberista dell'economia, aveva assicurato una prosperità alla Toscana e un discreto benessere economico a livello diffuso; cosa che, per esempio, aveva impedito moti insurrezionali, verificatisi invece in altre parti della Penisola. Sussisteva il “poco desiderio” dei toscani verso la codificazione per adagiarsi in uno stato, quasi di

200 A. LANDI, Tra diritto comune e codice civile. Francesco Forti e il problema dell’interpretatio nella Toscana della Restaurazione, cit., pp. 339-346.

201

E. SPAGNESI, Il Diritto, cit., p. 555.

202 A. LANDI, Tra diritto comune e codice civile. Francesco Forti e il problema dell’interpretatio nella Toscana della Restaurazione, cit., p. 347.

203

F. COLAO, Progetti di codificazione civile nella Toscana della Restaurazione, cit., p. 110.

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famiglia, combinato con un largo uso di pratica libertà. Così si comprende il perché della diversità toscana anche a livello giuridico, ed è proprio in questo quadro che si inseriscono le Istituzioni di diritto civile di Francesco Forti, definite come il monumento e la conclusione della civilistica italiana preesegetica: “conclusione”, perché siamo alla metà degli anni trenta la lezione della Scuola storica anche in Toscana si era fatta pesantemente sentire con Federigo Del Rosso, Pietro Capei e Pietro Conticini ed andava progressivamente soppiantando la tradizione del tardo diritto comune, sostituendole il modello pandettistico; “preesegetica”, perché era un dato di fatto che si stavano sempre più diffondendo anche in Italia i commentari della Scuola dell'Esegesi.

Egli tendeva ad un rinnovamento del diritto comune per recuperare la dimensione storica: la storia per lui era il momento delle grandi fondazioni. Da qui la differenza con Del Rosso e con i seguaci della Scuola storica in Toscana, che solo formalmente si richiamavano alla storia, per poi preferirle nella sostanza impostazioni astratte e

dogmatiche.204