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Il colore nella Domus romana 1 Rossella Bicco

3. I colori rinvenut

Sono i rinvenimenti avutisi in corrispondenza delle varie botteghe che aiutano e danno la chiave di lettura per comprendere le tecniche utilizzate. Sono stati restituiti ai giorni nostri la notevole quantità di 150 vasetti di colore diversi nella sola bottega “Officina” (I, 9,9) permettendo studi e verifiche. I rinvenimenti di un pestello di marmo e di una grossa valva di conchiglia contenente residui di calce dimostrano che i colori venivano prodotti o almeno raffinati sul posto con modifiche in merito alla tonalità da utilizzare al momento dell’applicazione. Sono stati rinvenuti anche vari vasetti con colori in polvere arancione, bianca, blu, gialla, nera, rossa e verde. Mentre nei colori da utilizzare per le rifiniture a “fresco-secco” è presente un legante organico, quelli per la pittura “a fresco” sono quasi puri senza tracce di calcite, senza essere disciolti in acqua di calce.

I pigmenti utilizzati all’epoca dei romani erano di natura minerale e organica. Ampia era la gamma dei gialli, il “sil atticum” il migliore nella gamma delle ocre gialle conteneva ferro, silice, alluminio, calcio, carbonato di calcio, manganese, magnesio e impurità varie, ma è soprattutto l’idrossido di ferro che dà il colore giallo all’ocra mescolata a silice e argilla, e che ha la caratteristica di divenire rosso se perde l’idratazione, fenomeno verificatosi per l’appunto a Pompei sulle pareti surriscaldate in seguito all’eruzione.

Anche i rossi si ottenevano per calcificazione dell’ocra gialla, cuocendola in vasi di terracotta privi di incrinature che avrebbero fatto disperdere il calore e pesato sul risultato finale.

Vi erano anche prodotti artificiali come la “cerussa usta”, originata dall’unione di minio di piombo e “sandaraca” artificiale, la “sandyx” originato dalla “cerussa usta” mista a “rubrica” o ancora il “syricum” o la “spuma argenti”.

Plinio il Vecchio e Vitruvio hanno lasciato ampie descrizioni sulla colorazione delle sostanze coloranti per l’edilizia, per la tessitura e la cosmesi. Vitruvio (Arch. VII, 7) si dilunga sull’origine e la qualità dei pigmenti, enumerando un totale di sedici colori: due organici, cinque naturali e nove artificiali. I primi sono il nero (l’atramentum), ottenuto per calcinazione dalla resina insieme a schegge di legno resinoso o dalla vinaccia bruciata nel forno e poi legata con glutine, e il porpora, derivato, come noto, dalla murice e utilizzato prevalentemente nella preparazione della tempera, dato che si configura più come una tintura che come un colore. I colori di origine minerale (bianchi, gialli, rossi, verdi, i toni scuri) erano ottenuti generalmente per decantazione o calcinazione. Infine, i nove colori artificiali, erano ottenuti dalla composizione con varie altre sostanze, con una preparazione a volte complessa. Tra questi i più usati sono il cinabro (o rosso vermiglione) e il ceruleo (o blu egizio).

Tra i colori che Plinio definisce “floridi” ovvero i più costosi rientra il cinabro che era uno splendido rosso brillante che ha la caratteristica di virare al nero nel momento in cui esposto alla luce del sole, come si può ammirare nell’atrio della Villa dei Misteri. Un altro esempio di colore pregiato è “l’armenium” ovvero l’azzurrite e la “crysocolla” ossia la malachite, quindi un verde. Oltre a questi l’indaco e la porpora che venivano mescolati a leganti e non utilizzati direttamente. Abbastanza complessa era poi la preparazione del “caeruleum aegyptimum” l’azzurro derivato da una miscela di sabbia e fior di nitro con rame di Cipro, che

veniva poi limato grossolanamente e bagnato per essere agglomerato in palline per la successiva cottura. Altri colori artificiali erano il “coelon, il lomentum e il vestorianum puteolanum” prodotto negli ultimi anni della Repubblica di Caio Vestorio, tutti meno costosi degli azzurri naturali come il “cyprium” l’azzurrite e lo “scythicum” derivato dai lapislazzuli. Anche per il verde si ricorreva a minerali come la malachite, la glauconite o la celadonite. Per il bianco si utilizzavano essenzialmente calcio e dolomite mentre il nero risulta essere carbonio di origine vegetale.

La superficie degli affreschi appare talmente tanto levigata che alcuni studiosi avevano attribuito questa caratteristica alla presenza di cera nelle miscele dei colori, ipotesi poi esclusa attraverso le analisi condotte che ha fatto supporre l’effetto sia stato prodotto dallo sfregamento di polvere di marmo sulla superficie dipinta. Questo procedimento rompendo lo strato superficiale di carbonato di calcio faceva penetrare meglio il colore nell’intonaco e serviva anche a richiamare in superficie l’umidità dando la possibilità al pittore di continuare nel suo lavoro. L’operazione era effettuata con il “liaculum” una spatola stretta e lunga che assieme ai pennelli con manico di osso e setole di maiale, ai vasetti per i colori, ai mortai e alle ciotoline come testimonia il Plinio era parte integrante del bagaglio personale del pittore. Il costo dei colori variava a seconda della loro qualità da 1 sesterzio a ½ a 8 per 1 libbra di ocre gialle, da 2 a 8 sesterzi per quelle rosse, da 32 sesterzi il blu egizio a 44 il vestoriano, fino a 120 sesterzi per la porpora, per il cinabro fu stabilito un tetto di 280 sesterzi. Questo fa capire perché la tavolozza dei colori fosse modesta e alcuni colori non fossero di uso comune.

Fig. 2 – Salane degli Amorini, quadretti con rappresentazioni su fondo nero intervallati da pannelli rossi si coniugano nella decorazione in IV Stile.

4. Conclusioni

La possibilità di osservare nella loro completezza gli affreschi che ricoprivano le pareti degli edifici pubblici e privati è ancora oggi uno degli elementi che rendono unica la visita all’antica Pompei. La vasta gamma di colori e fantasiose decorazioni emerso intatto fra Sette e Ottocento dalla spessa coltre di lapillo e ceneri vulcaniche è però sottoposto all’inevitabile degrado determinato dall’esposizione alla luce e agli agenti atmosferici. Già nel corso del XIX secolo ci si rendeva conto di questa perdita irreparabile e gli stessi scavatori incaricavano i pittori per riprodurre forme e colori che si sapevano destinati alla scomparsa. Nella Casa del Centenario, che è una delle più grandi e belle domus di Pompei, così chiamata perché scavata e riscoperta nel 1879 nel diciottesimo centenario dall’eruzione del Vesuvio; solo alcuni ambienti furono protetti con tettoie così negli altri le pitture sono praticamente scomparse. Tra questi il Frigidarium delle terme di cui oggi possiamo conoscerne la decorazione coloratissima grazie a una paziente ricomposizione basata sul rilievo delle deboli tracce visibili, sull’analisi chimico-fisica dei pigmenti, sulle descrizioni di due illustri archeologi dell’Ottocento: Giuseppe Fiorelli, direttore degli scavi di Pompei e August Mau, il fondatore degli studi sulla pittura pompeiana. La procedura per il recupero delle pitture di Pompei ed Ercolano ovvero il rilievo fotografico in situ, ortofotopiano, disegno integrativo in scale di grigi, disegno integrativo a colori, associa l’esame dei resti attuali con tutta la documentazione scritta, pittorica e fotografica eseguita dal momento dello scavo a oggi. È un lavoro delicato e imponente necessario per trasmettere il più ampio patrimonio pittorico giuntoci dall’età romana condannato alla perdita per gli incalzanti scavi avvenuti da due secoli.

Bibliografia

[1] C. Gambardella, “Atlante di Pompei”, La scuola di Pitagora Editrice, 2012. [2] J. Adam, “L’arte di costruire presso i romani. Materiali e tecniche”, Longanesi, 2011. [3] M. R. Panetta, “Pompei. Storia, vita e arte della città sepolta”, Edizioni White Star, 2004. [4] K. Weeber, “Vita quotidiana nell’antica Roma”, Newton e Compton Editori, 2003. [5] F. Pesando, M. Bussagli, G. Mori, “Pompei la pittura”, ART Dossier, Giunti, 2003.

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