Parte seconda
CONVIVERE E CONDIVIDERE PER UN UMANESIMO FRATERNO
1. Complessità dell’idea di convivio
La nostra è una società caratterizzata da una convivenza sempre più plurale; si tratta, infatti, di una eterogeneità etnica ed etica, culturale e cultuale. Di fronte a tale eterogeneità si pone il proble-ma di come rendere vivibile la società nel rispetto delle differen-ze. Riteniamo che, a questo scopo, il convivere (che è più o meno conflittuale) si debba configurare come un condividere (che è più o meno cooperativo). Ebbene, può esprimere questa esigenza l’im-magine del banchetto, del convivio, del convito, del simposio, della mensa. Il termine “convivio” deriva dal latino convivium e può es-sere tradotto come, convivio o convito, strutturato nell’antica Grecia in banchetto prima e in simposio poi. Il suo significato più comune è stare insieme condividendo il cibo, e, nel contempo, condividere, oltre alla mensa, anche pensieri e idee. C’è da rilevare che questo concetto ha avuto originariamente una configurazione positiva, cui nel tempo si è accompagnata anche una connotazione negativa, per cui oggi è da considerare un’idea ambivalente o complessa.
Per cercare di chiarire la questione, proporrei di operare una di-stinzione, quella tra “commensalità” e “convivialità”, per dire che - affinchè ci sia questa seconda - non basta una tavola imbandita, ma è necessario che ci sia condivisione fra coloro che vi partecipano.
Quindi un autentico convivio (in senso letterale o metaforico) c’è, se i convitati si rispettano nella loro uguale dignità, e nella loro
spe-cifica diversità; in altre parole, pariteticità e reciprocità costituiscono le condizioni per una effettiva convivialità, intesa non come sem-plice commensalità, bensì come commensalità condivisa. È quindi evidente che uso i due termini, che per se stessi sono sinonimi, come termini concettualmente differenti, e la differenza la fa la con-divisione, che trasforma la commensalità in convivialità.
La positività dell’idea di convivio è intrinseca alla stessa parola e appartiene alla esperienza di ciascuno, che non solo ha fatto espe-rienza di “commensalità” (lo stare a tavola “accanto” ad altri), ma anche di vera e propria “convivialità” (lo stare a tavola “insieme”
con altri); questa indica il carattere condiviso del mangiare e del parlare a tavola, dove si consuma la propria “razione” e si esercita la propria “ragione”, per dire che la convivialità c’è quando c’è condi-visione amicale o valoriale, caratterizzata da intesa magari dialettica e da confronto magari vivace. Di una tale impostazione c’è testimo-nianza in alcune opere filosofiche, dove si parla di convivio in senso reale e in senso figurato.
Nel primo significato (letterale), si può fare riferimento al dia-logo Convivio di Platone o di Marsilio Ficino o a quello In vino veritas di Kierkegaard, che in diverso modo sono all’insegna della ricerca veritativa. Nel dialogo platonico, (che è l’opera al riguardo più emblematica), al convito segue il simposio, per cui quella che è tavola per mangiare e discutere dà vita a una piccola comunità alla ricerca della verità in una clima di cordialità che accomuna i commensali in una convivialità dialogica: l’aspetto materiale non è fine a se stesso, ma è integrato nella dimensione intellettuale: la convivialità materiale prima e culturale poi è espressione di amicizia o di altre forme relazionali degli invitati. Si può pertanto affermare che il convivio ha un carattere positivo, se favorisce l’incontro ami-cale e la ricerca valoriale. Nel suo scritto, Sopra lo amore. Convito
di Platone, Ficino riprende l’usanza dei primi discepoli di Platone che, ogni anno il 7 novembre, celebravano il doppio anniversario della nascita e della morte del Maestro ateniese riunendosi in un banchetto e pronunciando discorsi sull’Amore alla fine della cena.
Ispirandosi al dialogo Convito, scritto da Platone circa 2000 anni prima, il Ficino espone la sua teoria sull’Amore nella cornice di un banchetto, nel quale intervengono Socrate e alcuni giovani convi-tati suoi discepoli.
Nel secondo significato (metaforico) si può fare riferimento al Convivio di Dante in quanto l’opera è una mensa (convivio), che offre ai partecipanti (ovvero a coloro che hanno desiderio di sape-re e conoscesape-re) una difficile pietanza (vivanda), accompagnata da pane che ne facilita l’assimilazione. Alla vivanda corrispondono le canzoni, mentre al pane i vari commenti esplicativi; così con stile argomentativo l’Alighieri affronta grandi temi filosofici del tempo, allo scopo di formare un’opera enciclopedica del sapere: un convi-vio cui possono accostarsi quanti hanno fame di sapere e vogliono condividere tale bisogno.
Ma la realtà e la metafora del banchetto hanno anche una loro versione negativa. Anzitutto, nella configurazione (di cui è facile fare esperienza) del convito di tipo salottiero più o meno ciarliero, quando non è addirittura solo luogo di gozzoviglie e pettegolezzi.
Inoltre, nella configurazione che storicamente ha avuto tante tradu-zioni; ci limitiamo a ricordare il banchetto di Senigallia organizzato dal duca Valentino per far fuori i suoi rivali, per cui quella cena all’insegna della simulazione si trasformò in una strage. Infine, nella configurazione della società contemporanea, che si presenta quale megatavola di pochi ricchi epuloni: “il famigerato 1% che si pappa quasi tutta la torta, mentre il restante 99% lotta per le briciole”
(così sintetizza Francesca Rigotti sulla scorta del libro
dell’economi-sta venezuelano Moises Naim su La fine del potere). In questo caso il Lazzaro della parabola evangelica si è moltiplicato a dismisura, per cui il mondo odierno appare all’insegna di sperequazioni tali da rendere insensate alcune parole come dignità umana e spirito fraterno (consacrate dalla Dichiarazione universale diritti dell’uomo del 1948), che pure sono ripetute (oltre il danno anche la beffa!) senza produrre cambiamenti sul (metaforico) banchetto mondia-le, caratterizzato da pochissimi ricchi epuloni e da tantissimi po-veri Lazzari: il che rischia di compromettere l’immagine stessa del convivio come luogo di convivenza, rendendolo vivibile solo per alcuni. Altrettanto fa la politica quando è inquinata dalla corruzio-ne, e il “mangia mangia” denunciato popolarmente dà l’idea di un banchetto all’insegna della corruzione, e gli epuloni di turno - cor-ruttori o corrotti che siano - continuano a compromettere il senso di una convivenza civile all’insegna della convivialità, conseguente al reciproco rispetto e aiuto. Così l’odierna società viene considerata come luogo della ingiustizia (John Rawls) e denunciata quale società indecente (Margalit Avishai).
Da quanto accennato, appare chiaro il carattere ambivalente del
“convivio”: positivo o negativo. Ci limitiamo a pochi ma significa-tivi esempi. Così il convivio reale può configurarsi come luogo di perdizione o di salvazione (la parabola del ricco epulone esemplifica il primo modo) ovvero di salvezza o di tradimento (come nel rac-conto dell’ultima cena). Nella parabola evangelica del ricco epulone, il convito ha un carattere meramente materiale, ma con valenza morale, nel senso che la tavola segna la contrapposizione tra il ricco e il povero; infatti a quella mensa siede solo il ricco banchettatore (epulone, nel linguaggio tradizionale), mentre il medicante Lazzaro ne è estromesso; insomma, i ricchi a tavola e gli altri ai margini, ma la diseguaglianza è tale che segna la condanna di chi la perpetua,
magari contrabbandandola come naturale. Insomma, la parabola di Luca 16, 19 rende avvertiti che c’è una commensalità escludente, che porta alla perdizione; in alternativa è da porre una commensalità includente; questa, in quanto è sempre pronta ad “aggiungere un posto a tavola”, si configura come modalità di convivenza e di con-divisione. In altre parole, la commensalità selettiva ed emarginante vede qualcuno stare a tavola e qualcun altro essere estromesso dalla tavola, quindi la differenza prima ancora che nel fatto che qualcuno gozzoviglia e qualcun altro deve accontentarsi delle briciole, sta nel fatto che qualcuno è a tavola e qualcun altro è sotto la tavola, con-traddicendo così alla condizione essenziale di una buona conviven-za, vale a dire la condivisione, che si traduce nel fare in modo che le differenze non si trasformino in diseguaglianze. Alla tavola del ricco epulone non c’è condivisione, ma divisione: è una commensalità che contrappone, e che simboleggia un tipo di società dove l’avere ha il primato sull’essere, dove il benessere materiale non è solo un modo di essere, ma è la condizione dell’essere. Nel racconto evangelico dell’Ultima Cena, il convito ha un carattere soteriologico. Raccontano l’ultima cena di Gesù i quattro Vangeli, e precisamente: Matteo 26, 20-30; Marco 14, 17-26; Luca 22, 14-39, Giovanni 13, 1-20; e Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi 11, 23-26. L’ultima cena è allora il luo-go del sacrificio (con l’istituzione dell’eucaristia) e del tradimento (da parte di Giuda).
È dunque evidente che il convito non è necessariamente positivo o negativo: può essere l’uno o l’altro a seconda della sua realizzazione: se è escludente o maldicente o violento, è negativo (tali sono i banchetti della chiacchiera, della umiliazione, della simulazione, del tradimen-to); è invece positivo, se è condiviso e donativo (tali sono i banchetti del dialogo, del rispetto, della solidarietà, della fraternità).