Parte terza
PER UMANIZZARE LE PERSONE E LA SOCIETÀ
2. Ripensare la misericordia
Il verbo “esercitare”, posto nel titolo di questa riflessione, ne indica esplicitamente il taglio, eppure ha bisogno di alcune preci-sazioni. Infatti, se è evidente che intendo non tanto parlare astrat-tamente della misericordia, quanto coglierla nella sua concretezza pratica, è tuttavia da aggiungere che non mi propongo di soffermar-mi specificamente sulle opere di soffermar-misericordia, bensì di individua-re le condizioni che individua-rendono possibile l’esercizio della misericordia, tanto più necessario oggi di fronte a una crescente disumanità, che non è solo quella che si manifesta in modo eclatante nelle forme dell’orrore e dell’orrorismo (l’espressione è della filosofa Adriana Ca-varero), ma anche quella che si annida nelle pieghe del quotidia-no in atteggiamenti di indifferenza e di disinteresse. Aggiungo che,
in presenza di questa situazione, l’esercizio della misericordia può costituire non solo un argine alla diffusa disumanità odierna, ma anche una strada per umanizzare le persone e la società, in quanto favorisce il superamento dell’egocentrismo e dell’egoismo, delle chiu-sure e delle esclusioni.
Affinché questo appello alla misericordia possa dare i suoi frutti, ritengo necessario il superamento di due pregiudizi: anzi tutto la convinzione che la misericordia sia una categoria tipica (o esclu-siva) dei credenti delle religioni monoteistiche, da lasciare quindi in diverso modo e misura ai credenti ebrei, cristiani e musulma-ni; inoltre la convinzione che la misericordia sia una virtù tipica dei deboli e quindi incompatibile con personalità forti. Il rifiuto di questo duplice pregiudizio comporta una dilatazione del significato della misericordia, nel senso che occorre considerarla oltre che cate-goria teologica (di cui molto parlano le religioni), anche catecate-goria antropologica (seppure ancora poco ne parli l’etica). Ciò pone la necessità di valorizzare la misericordia non solo attraverso la teologia, ma anche attraverso la morale, la filosofia e la scienza, per mostrare che la misericordia è un bisogno della condizione umana, ed è virtù che può ascriversi alle virtù deboli, ma non dei deboli, perché a ben vedere richiede grande fortezza d’animo la capacità di nutrire la compassione e di tradurre la benevolenza in concreti atteggiamenti di vicinanza.
Dunque, la mia convinzione è che la categoria di misericordia non abbia una connotazione solo religiosa, ma pure etica, nel senso che la misericordia - oltre ad essere categoria tipica delle tre religioni monoteistiche, secondo le quali la misericordia è una peculiarità di Dio e un comandamento per l’uomo - è categoria che può ben valere anche al di fuori dell’orizzonte religioso, cioè su un piano laicamente umano che prescinde dalle appartenenze confessionali e riguarda le relazioni interpersonali. Si tratta, però, non di una
sem-plice trasposizione dal piano religioso a quello etico, bensì del rico-noscimento della misericordia come valore umano richiesto tanto dalla persona umana, quanto dalla convivenza civile, in particolare quando quella è riconosciuta nella sua dignità e questa nella sua democraticità.
Occorre precisare che, come dimensione personale e comunitaria intrinseca alla esistenza umana la misericordia è stata finora trascu-rata o, addirittura, considetrascu-rata negativamente. Emblematica al ri-guardo la posizione della filosofia. Infatti, nella storia della filosofia sono prevalenti le posizioni critiche (da Platone ad Aristotele agli stoici, da La Rochefoucauld a Kant a, soprattutto, Nietzsche) pur se non mancano le posizioni positive (da Rousseau a Lessing da Hegel a Schopenauer, da Scheler a Levinas). Ma le diverse posizioni filosofiche (antiche e moderne) appaiono datate in presenza delle molteplici forme di antiumanesimo contemporaneo e della crescen-te richiesta di umanità da parcrescen-te delle persone e della società, per cui si rende urgente “ripensare la misericordia”, per estenderne le ragioni di validità dal campo religioso al campo etico, dal campo te-ologico al campo antropte-ologico come risposta all’odierno degrado etico, prodotto per un verso da forme di egocentrismo e narcisismo e per altro verso da forme di individualismo e massificazione: alla base di tali atteggiamenti si trovano egoismo e indifferenza: la chiusura in se stessi e la chiusura verso gli altri.
Non interessa, in questa sede, chiarire quanto tutto ciò sia conse-guente a una mentalità economicistica, che appiattisce l’uomo sulla sola dimensione produttivistico-consumistica; certo è che stiamo assistendo a una crisi etico-antropologica, che sta determinando una “anestetizzazione” individuale e collettiva, per cui siamo sem-pre meno “sensibili” alla miseria (nostra e altrui) o, quand’anche la prendiamo in considerazione, la liquidiamo in modo “razionale”:
dissolvendo il problema come irresolubile, o risolvendo il problema in termini di welfare. In ogni caso, non si verifica un vero e pro-prio “coinvolgimento” con chi si trova in una condizione di miseria materiale o morale, anzi: dal coinvolgimento si tende a prendere le distanze, perché accettare un atteggiamento “viscerale” appare disdicevole o cedevole.
In breve, quand’anche si verifica una “partecipazione”, essa è ben lontana dall’essere una “condivisione”, per dire che manca, a ben vedere, l’amore, quell’amore per cui la condizione dell’altro ci “pro-voca”, ci “interpella”, e possiamo quindi essere soggetti o oggetti di misericordia. Come aprire a questo sentimento, che può alimentare una rinnovata antropologia sotto il segno della vocazione per un verso e della responsabilità per l’altro? Ritengo che non basti ap-pellarsi astrattamente alla misericordia, ma occorra avvertirla come una modalità esistenziale propria del nostro essere umani e capace di umanizzarci.
Che cosa, dunque, della condizione umana, rinvia necessaria-mente, universalmente e liberamente alla misericordia? Direi che due aspetti importa qui mettere in evidenza, vale a dire la fragilità e la relazionalità dell’uomo. Fragilità, per dire precarietà, caducità, vulnerabilità; fragilità collegata alla finitezza e creaturalità dell’uo-mo. Si badi: fragilità significa tutto questo, ma significa anche pre-ziosità della persona, nel senso che questa ha dignità, ossia è sempre fine mai puro mezzo, per cui merita attenzione e rispetto, esige ac-coglienza e benevolenza. Insieme con la fragilità va tenuta presente la sua relazionalità, nel senso che nessuno è autosufficiente, ognu-no ha bisogognu-no di avere e bisogognu-no di dare e tale relazionalità ognu-non si aggiunge alla individualità, ma fa tutt’uno con essa e non può prescindere da essa, per cui la persona è unica, originale, irripetibile e, nel contempo, è in rapporto, in collegamento, in comunicazione.
Tutto ciò sottolinea la complessità dell’essere umano: fragile e prezioso, individuale e relazionale. Con tale complessità occorre mi-surarsi, scoprendo che proprio la misericordia permette di rispettare l’ambivalente connotazione della persona. Infatti, se la condizione umana configura paradossalmente la persona, per un verso, come un valore assoluto (ha dignità) e per altro verso come un valore relativo (è in relazione), proprio questa duplice peculiarità dell’uo-mo reclama una continua e reciproca misericordia tra gli uomini. Si potrebbe allora dire che la misericordia risponde a un bisogno con-naturale all’uomo. Certo, possiamo sottrarci dall’esercitare la mise-ricordia (atto squisitamente libero), ma, quando ciò accade, si de-termina un calo di umanità, una diminuzione dell’umano, mentre l’esercizio della misericordia costituisce un sicuro arricchimento di umanità: emblematici sono al riguardo l’atteggiamento di Fabrizio Maramaldo contro Francesco Ferrucci (tanto che la mancanza di misericordia si definisce “maramaldesca” per dire disumana) e l’at-teggiamento di Achille nei confronti di Priamo (quando la miseri-cordia vince sulla crudeltà e apre all’umanità).
Per tutto questo ritengo che la misericordia contribuisca a ela-borare una rinnovata antropologia, che integra certe concezioni antiche e moderne, mostrando la complessità umana, e il pensiero femminile (o, meglio, il pensiero di alcune filosofe) sotto questo profilo ha dato e dà un apporto significativo per evitare riduzioni-smi e unilateralità; penso, solo per fare un esempio, al senso meta-forico della postura retta e di quella inclinata: vi ha richiamato l’at-tenzione Adriana Cavarero nel suo libro Inclinazioni dove “critica la rettitudine”, cioè la posizione “verticale” anziché “inclinata” del pensiero. Ecco, prché mi sembra che ci sia bisogno di rivedere certi percorsi di umanizzazione che la modernità ha operato e che non hanno sortito gli esiti sperati (o non completamente). Si tratta
al-lora di portare avanti questi percorsi conclusi troppo presto, si trat-ta di svilupparli, di portrat-tarli a compimento. Pertrat-tanto prenderò in considerazione due percorsi, e utilizzerò due parabole evangeliche per chiarire che la misericordia pare essere il tassello mancante per il completamento di questi processi di umanizzazione dell’uomo.