ANTIDOTI AI MALI DELL’ANIMA
4. La tristezza: il male e la cura
Un terzo male è la tristezza (11), che papa Francesco considera particolarmente grave, in quanto la “tristezza individualista” (n. 2)
va dalla “scontentezza” (n. 2) all’accidia, la quale “inaridisce l’ani-ma” (n. 277).
La tristezza, cui qui si fa riferimento, non è semplicemente un stato d’animo o un sentimento; non è nemmeno la condizione pa-tologica dal punto di vista medico (quella che sfocia nella depres-sione); è invece una modalità esistenziale e comportamentale, che apparentemente non è scelta ma subita, mentre in realtà è conse-guente ad altre scelte, che sono caratterizzate da mancanza di co-raggio, di perseveranza, di pazienza, e sono caratterizzate da assen-za di forassen-za d’animo e di grandezassen-za d’animo: ecco perché resilienassen-za e magnanimità vanno adeguatamente coltivate, diversamente di fronte alle difficoltà e agli insuccessi ci si intristisce, e si cede ancora una volta a una visione necessitaristica, secondo cui le cose vanno in modo negativo, e non si può farle andare diversamente: lottare contro il destino (cinico e baro) è inutile; il ritirarsi appare allora come l’unica soluzione possibile; è così che il pessimismo prende campo e la disperazione in modi anche subdoli si fa avanti, aval-lando ulteriormente un appiattimento su un presente senza senso:
così non c’è posto per il passato se non in termini di rimpianti o di rimorsi, e non c’è posto per il futuro se non in termini di paura e di sofferenza. In fondo sono esiti conseguenti a una chiusura ego-centrica ed egoistica che esaurisce le risorse della persona: abitando in “egolandia” (il neologismo è della scrittrice Chiara Gamberale) è inevitabile cadere prima o poi, in modo clamoroso o nascosto, nella passività e nella meschinità, perdendo il senso della vita: il suo senso immanente oltre quello trascendente.
Dal punto di vista sociale (precisa papa Francesco) “non è la stessa cosa quando uno, per la stanchezza abbassa momentanea-mente le braccia rispetto a chi le abbassa definitivamomentanea-mente, dominato da una cronica stanchezza”; infatti, “può succedere che il cuore si
stanchi di lottare perché in definitiva cerca se stesso in un carrie-rismo assetato di riconoscimenti, applausi, premi, posti: allora uno non abbassa la guardia, però non ha più la grinta, gli manca la risurrezione”. Dunque, “il grande rischio del mondo attuale, con la sua molteplice ed opprimente offerta di consumo, è una tristezza individualista che scaturisce dal cuore comodo e avaro, dalla ricerca malata di piaceri superficiali, dalla coscienza isolata”.
Dal punto di vista ecclesiale, questo è un rischio che “anche i credenti corrono”, per cui si trasformano in “persone risentite, scontente, senza vita” (n. 2). Riecheggia in queste parole la conte-stazione di Friedrich Nietzsche, il quale (in Umano, troppo umano) scriveva rivolto ai cristiani: “Le vostre facce sono state per la vostra fede più dannose delle vostre ragioni. Se il lieto messaggio della Bibbia vi stesse scritto in viso, non avreste bisogno di esigere così costantemente fede nell’autorità di questo libro”.
Dunque, i cristiani non devono (come invece sovente accade) avere paura della gioia, non devono preferire la tristezza alla gioia, ha detto recentemente papa Bergoglio, il quale ha messo in guardia dalla “accidia paralizzante” (81) e dalla “accidia pastorale” (82), in cui possono cadere i cristiani che hanno “uno stile di Quaresima senza Pasqua” (n. 6). Per dirla con il titolo di un recentissimo volu-me di p. Sorge: “con papa Francesco oltre la religione della paura”.
Dal punto di vista umano, per sconfiggere la tristezza bisogna riguadagnare la “gioia che si vive tra le piccole cose della vita quo-tidiana”. Si tratta inoltre di disporsi a “leggere nella realtà attuale i segni dei tempi”; a tal fine, in particolare “è opportuno ascoltare i giovani e gli anziani. Entrambi sono la speranza dei popoli”. Infatti,
“gli anziani apportano la memoria e la saggezza dell’esperienza”, e “i giovani ci chiamano a risvegliare e accrescere la speranza” (n. 108).
In ogni caso, al cuore - come “centro dell’uomo, dove
s’intreccia-no tutte le sue dimensioni: il corpo e lo spirito; l’interiorità della persona e la sua apertura al mondo e agli altri; l’intelletto, il volere, l’affettività” (Lumen fidei n. 26) - si appella papa Francesco, e c’è un’o-pera che fin dal titolo sintetizza bene la sua posizione: Aprite la mente al vostro cuore: non si tratta, semplicemente, di aprire la mente e il cuore, bensì di aprire la mente al cuore, perché non si ceda a qualche forma di intellettualismo astratto o di riduttivismo sommatorio; per dirla con il titolo di un altro libro è l’amore che apre gli occhi.
Il primato del cuore permette di ripensare anche alla modalità relazionale per eccellenza, cioè il dialogo, che “è molto di più che la comunicazione di una verità. Si realizza per il piacere di parlare e per il bene concreto che si comunica tra coloro che si vogliono bene per mezzo delle parole. È un bene che non consiste in cose, ma nelle stesse persone che scambievolmente si donano nel dialo-go” (n. 142). Siamo in presenza di una vera propria trasformazione culturale: il dialogo non è più solo di tipo concettuale e definitorio, ma anche di tipo empatico ed esistenziale. È dunque da precisare che il dialogo non è una tattica né una strategia, non è un artificio né uno stratagemma, non è un esercizio retorico né un impegno intellettualistico, ma è atto che impegna tutta la persona, reclama una continua revisione interiore e coerenza ideale, e, mettendo in relazione le persone, le arricchisce. A queste condizioni, il dialogo,
“sempre affabile e cordiale” (n. 251), è “autentico, pacifico e frut-tuoso” (n. 243); “è un cammino di armonia e pacificazione” (n.
242); è “un processo in cui, mediante l’ascolto dell’altro, ambo le parti trovano purificazione e arricchimento” (n. 250) all’insegna di un “sano pluralismo” (n. 255).
Dal punto di vista cristiano, l’antidoto fondamentale alla tristezza sta nel “rapporto personale con Gesù”: è quindi la fede l’antidoto della tristezza, e la fede è “credere che è vero ciò che Gesù ci dice”; è credere
a Gesù, “perché egli è veritiero”; ed è credere in Gesù, accogliendo-lo “personalmente nella nostra vita” (n. 18). In questa prospettiva,
“la fede non è intransigente, ma cresce nella convivenza che rispetta l’altro. Il credente non è arrogante; al contrario, la verità lo fa umile, sapendo che più che possederla noi, è essa che ci abbraccia e ci possie-de. Lungi dall’irrigidirci, la sicurezza della fede ci mette in cammino, e rende possibile la testimonianza e il dialogo con tutti” (n. 34).
Sconfiggere la tristezza è incontrare Cristo o lasciarsi incontrare da lui, perché “il Vangelo, dove risplende gloriosa la Croce di Cri-sto, invita con insistenza alla gioia” (n. 5), a riguadagnare quella
“gioia che si vive tra le piccole cose della vita quotidiana, come risposta all’invito affettuoso di Dio nostro Padre” (n. 4). Una “gioia che non si vive allo stesso modo in tutte le tappe e circostanze della vita, a volte molto dure. Si adatta e si trasforma, e sempre rimane almeno come uno spiraglio di luce che nasce dalla certezza persona-le di essere infinitamente amato, al di là di tutto” (n. 6). Più speci-ficamente, “la gioia del Vangelo che riempie la vita della comunità dei discepoli è una gioia missionaria” (n. 21). Si potrebbe anche dire che la Chiesa è chiamata a “scoprire e trasmettere la mistica di vive-re insieme”; così anche “le maggiori possibilità di comunicazione si tradurranno in maggiori possibilità di incontro e di solidarietà fra tutti”, cioè “in una vera esperienza di fraternità, in una carovana solidale” (n. 87). Possono favorire questo (e contrastare la tristezza) due impostazioni relazionali: quella ispirata dalla tenerezza e quella improntata al dialogo.
Non è casuale che due sillogi del pensiero bergogliano sono de-dicate alla tenerezza: quella intitolata Non abbiate paura della tene-rezza che raccoglie “le parole del papa che sta cambiando la Chiesa di Roma”, e quella intitolata Siate forti nella tenerezza composta di
“parole di coraggio e speranza per un anno da vivere insieme”.
Tan-to importante è quesTan-to atteggiamenTan-to che papa Francesco è staTan-to definito da Nicola Gori il papa della tenerezza di Dio.
L’altro atteggiamento è il dialogo, che rientra a pieno titolo nell’opera evangelizzatrice della Chiesa, e “per la Chiesa, in questo tempo, ci sono in modo particolare tre ambiti di dialogo nei quali deve essere presente per adempiere un servizio in favore del pieno sviluppo dell’essere umano e perseguire il bene comune: il dialogo con gli stati, con la società - che comprende il dialogo con le culture e le scienze - e quello con altri credenti che non fanno parte della Chiesa cattolica” (n. 238). Ebbene, “il dialogo come forma d’in-contro” ha una triplice configurazione ricca di antidoti contro la tristezza: la configurazione politica, che “esige una profonda umiltà sociale” (n. 240); la configurazione culturale, che “apre nuovi orizzon-ti al pensiero e amplia le possibilità della ragione” (n. 242); e la con-figurazione religiosa, per cui “bisogna affidare il cuore al compagno di strada, senza sospetti, senza diffidenze, e guardare anzitutto a quello che cerchiamo: la pace nel volto dell’unico Dio” (n. 244); “in questa luce, l’ecumenismo è un apporto all’unità della famiglia umana” (n.
245) ed essenziale è il vincolo tra “dialogo e annuncio” (n. 251). In ogni caso, è richiesta la consapevolezza (anche questa aiuta ad allon-tanarsi dalla tristezza) di “quante cose possiamo imparare gli uni dagli altri” (n. 246), a partire dalla capacità di “accettare gli altri nel loro differente modo di essere, di pensare e di esprimersi” (n. 250).
Tutto ciò ha delle ricadute anche sul piano pastorale: per esem-pio, nella predicazione; questa deve essere “sempre rispettosa e gen-tile”, e il suo “primo momento consiste in un dialogo personale”;
“solo dopo tale conversazione è possibile presentare la Parola” (n.
128). Per questo è necessaria “la Chiesa in uscita” (n. 24), cioè una Chiesa che non sia all’insegna della autopreservazione e della au-toreferenzialità, ma sappia “prendere l’iniziativa, coinvolgersi,
ac-compagnare, fruttificare e festeggiare”; ne consegue che “la Chiesa in uscita è una Chiesa con le porte aperte”, cioè va “verso gli altri per giungere alle periferie umane” (n. 46). Ma questo - precisa papa Francesco - “non vuol dire correre verso il mondo senza una dire-zione e senza senso”, vuol dire invece “guardare negli occhi e ascol-tare” o “accompagnare chi è rimasto al bordo della strada” (n. 46).
Per rispondere a questo impegno è essenziale non cedere alla tristezza; per questo papa Francesco già all’indomani della sua ele-zione esortava: “non siate mai uomini e donne tristi!”, e ricordava che “la gioia dei cristiani non nasce dal possedere tante cose, ma dall’aver incontrato una Persona, Gesù, e dal sapere che con Lui non siamo mai soli, anche quando il cammino della vita si scontra con ostacoli che sembrano insormontabili”. È, questo, Il Vangelo del sorriso oggetto dell’omonimo volume, per cui poi nella Evangelii gaudium (n. 109) papa Francesco invita ad essere “realisti, ma senza perdere l’allegria, l’audacia e la dedizione piena di speranza”. Da qui l’invito ai cristiani a non farsi rubare l’entusiasmo missionario (n. 80), la gioia dell’evangelizzazione (n. 83), la speranza (n. 86), la comunità (n. 92), il Vangelo (n. 97), l’ideale dell’amore fraterno (n.
101), la forza missionaria (n. 109): sono tutte condizioni per essere cristiani vivi e vitali.