Parte seconda
CONVIVERE E CONDIVIDERE PER UN UMANESIMO FRATERNO
6. Per un umanesimo conviviale
A questo punto - per concludere - vorrei tornare a riferirmi ad una filosofa, che alla cucina aveva già dedicato un originale interesse e che, recentemente, ha richiamato l’attenzione sul cibo, elaboran-do un manifesto del cibo liscio (2015), elaboran-dove la qualificazione del cibo fa chiaramente intendere la necessità di distinguere tra diversi tipi di cibo, tra cui si segnala quello cosiddetto “striato” e quello cosiddetto “liscio”. Vediamo di chiarire sinteticamente la proposta della Rigotti, a partire dall’intento che muove questa pensatrice, vale a dire la “costruzione di una scienza minore, la disciplina della
“gastronoetica”, intesa come “gastro-noetica”, ossia come “una let-tura filosofica delle cose del ventre” (p. 37), ma che potrebbe essere
intesa anche come “gastro-etica” (p. 93), per cui si potrebbe parlare di “gastrofilosofia” (p. 85).
In questo contesto si colloca la distinzione fra “cibo liscio” e “cibo striato”, una distinzione che può suonare manichea (positivo uno e negativo l’altro), ma così non è, perché la concezione della Rigotti è più articolata, nel senso che “i due principi di liscio e striato lavora-no in coppia e in alternanza, solavora-no antitetici e complementari, l’ulavora-no per l’altro necessari. Entrambi concorrono alla definizione del mo-dello alimentare liberatorio e positivo, liscio nella misura in cui que-sto valore si impone e prevale sull’altro, senza cancellarlo” (p. 48).
In altre parole, quella che la Rigotti auspica è una “rivoluzione che va nella direzione del liscio senza abbandonare completamente lo striato” (p. 75), per cui il suo manifesto del cibo liscio si caratterizza più precisamente come manifesto del cibo prevalentemente liscio, il nuovo modello alimentare nasce “dalla combinazione tra liscio e striato” (p.
7), “un modello alimentare di compresenza di liscio e striato con una prevalenza del liscio e dei suoi effetti liberatori” (p. 40).
Dunque, “il cibo liscio è un modello alimentare”, perché “nel liscio nasce la possibilità di alimentarsi di cibo sano, che nutre sen-za provocare disagi e malattie” (p. 7). Si badi (e la Rigotti ci tiene a precisarlo): “il cibo liscio non è una dieta, è una non dieta, è nessuna dieta” (p. 92). Infatti, “una alimentazione liscia è una ali-mentazione “ordinata” (nel tempo e nello spazio) e “genuina” (cioè non adulterata né sofisticata) (p. 99). Il cibo liscio è distribuito in
“porzioni moderate”, è preparato “in casa” con “ingredienti sempli-ci e poco trattati”, consumati a “orari regolari”, sedendo “a tavola”, possibilmente “in compagnia” e senza produrre “disagi di vario tipo e malattie vere e proprie (dettate dal sovrappeso e adiposità)”.
Una tale alimentazione non ha solo un carattere nutrizionale ma - com’è evidente - veicola anche una concezione valoriale: della vita
e della società. E torniamo così alla questione iniziale, per ribadire che la commensalità se positiva può aprire a una convivialità che non riguarda più solo la tavola, ma dischiude nuovi orizzonti esi-stenziali e sociali. Pertanto, l’invito a esercitare il “gusto” (e non la
“ghiottoneria”) e a essere dei “buongustai” (e non dei golosi”) non è solo un invito gastronomico, ma più ampiamente “gastro-noetico”
e “gastro-etico”: ne va cioè del modo di vivere.
Si tratta di un vero e proprio stile di vita che, dal punto di vista della convivenza è caratterizzato sia da un ritorno all’idea di “bene comune”, sia da una proposta incentrata sui “beni comuni”, tali sono il cibo, l’acqua, l’aria, le risorse naturali, oggetto di altrettan-ti diritaltrettan-ti, che dovrebbero essere daaltrettan-ti per scontaaltrettan-ti, e che, invece, a tutt’oggi non lo sono affatto. Da qui il dibattito in corso sui cosid-detti “beni comuni”, concetto che non dovrebbe prendere il posto del tradizionale “bene comune”, ma collocarsi nel contesto di questo.
Ciò richiede - come ha ben visto papa Francesco - una rivolu-zione ecologica, una conversione ecologica e una educarivolu-zione ecologica.
Sono, queste, le condizioni per restituire al convivio la sua valenza positiva come uno dei luoghi privilegiati dello stare insieme; il con-vivio come simbolo di una convivenza all’insegna della convivialità, ma nella consapevolezza che non c’è convivialità senza condivisione.
Si potrebbe allora parlare di un umanesimo conviviale, per indicare un umanesimo che fa della convivialità un progetto di conviven-za all’insegna della condivisione, rispondente all’imperativo di un mangiare per tutti e di un mangiare con tutti.
Nel contesto di questa visione conviviale si pone la questione del cibo. Al riguardo facciamo nostra la convinzione espressa recente-mente da Franco Riva in Filosofia del cibo (2015), secondo cui “il cibo non è solo mezzo e materia. È lavoro, parola, pensiero, gioco, umanità, libertà, esistenza, responsabilità, salute, giustizia. Un essere
con gli altri da non confondere con un banchetto”, per cui bisogna guardarsi da “elogi generici e retorici di qualche banchetto come si-nonimo di condivisione”. Certamente, sinonimi (banchetto e con-divisione) non sono, ma altrettanto certamente possono coniugarsi insieme, se il banchetto è dialogico, altruistico, aperto, includente, amicale: quindi la logica sottesa a un vero banchetto, cioè condiviso e non diviso, è la logica della ospitalità. Per questo non esito a dire che il banchetto senza condivisione si riduce a commensalità, men-tre solo il banchetto caratterizzato da condivisione è espressione di convivialità. Una distinzione che risalta nella nostra epoca caratte-rizzata da un significativo paradosso, vale a dire che proprio quando trionfa il consumismo, si accentua la commensalità, ma si perde il senso della convivialità. La cosa dà a pensare, e apre a una visione gastrofilosofica. C’è infatti bisogno di essere consapevoli che il cibo e il convivio sono espressioni dell’anima perché, come scrive il fi-losofo Salvatore Natoli (2013), “nel mangiare da soli si nasce, nel mangiare insieme si conversa e il cibo materiale diventa l’occasione per nutrirsi della parola degli altri”. Pertanto all’interrogativo posto dal teologo Gianfranco Ravasi: Siamo quel che mangiamo? (2015), si può rispondere positivamente, e quindi si dovrà portare attenzione al cibo, alla alimentazione, al nutrimento nelle sue varie forme ed espressioni, in vista di attuare banchetti (reali o metaforici che sia-no) come espressioni non di mera commensalità, ma di autentica convivialità.
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ECOLOGIA