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Nel 1913 esce per mano di John Watson l’articolo che inaugura la nuova corrente psicologica del comportamentismo:

«La psicologia secondo il comportamentista è un ramo sperimentale puramente oggettivo della scienza naturale. Il suo scopo teorico è la predizione e il controllo del comportamento. L’introspezione non è parte essenziale del suo metodo, né il valore scientifico dei suoi dati dipende dalla disponibilità di prestarsi alla loro interpretazione in termini di coscienza. Il comportamentista, nei suoi sforzi per formulare un quadro unitario della risposta animale, non ammette nessuna linea di separazione tra uomo e animale».431

Con queste parole Watson esordisce con un nuovo metodo di ricerca psicologica che si radica nell’assunto di base di una parità valutativa del comportamento fra uomo e animale. La posizione di Watson è il frutto più tangibile di una consapevolezza crescente dell’ambiguità di certi risultati della psicologia umana e del crescente valore che i risultati della psicologia animale stanno assumendo alla luce della teoria evolutiva.432 Mentre non è stato ancora risolto il problema filogenetico della nascita della coscienza e non si è ancora raggiunto un punto di accordo sulla linea di discrimine fra uomo e animale, sostiene Watson, il comportamento rivela una uniformità di dati e risultati che possono valere sia ammettendo che negando l’esistenza della coscienza.433 Scopo di Watson non è quindi tanto quello di spiegare e descrivere gli stati coscienti in quanto tali, né tanto meno quello di ricercarne l’origine; piuttosto, la psicologia così come egli la intende è rivolta a prevedere il comportamento

431 J. B. Watson, Psychology as the Behaviorist views it, in “Psychological Review” 2/20, 1913, p. 158. Per una

ricostruzione storica del comportamentismo rimandiamo a J. A. Mills, Control. A History of Behavioral

Psychology, New York University Press, New York 1998; per una visione del comportamentismo che evidenzia

maggiormente l’evoluzione del suo apparato concettuale vedi G. E. Zuriff, Behaviorism: A Conceptual

Reconstruction, Columbia University Press, New York 1985.

432

Cf. R. Boakes, Da Darwin al comportamentismo (ed. it. a cura di M. Poli), Franco Angeli, Milano 1986, pp. 305-87.

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dell’essere umano in determinate situazioni studiate scientificamente. Da qui la proposta watsoniana di una uniformità metodologica di ricerca che dia spazio ad un corpus di risultati e nozioni uniformi, oggettive e certe. Gli unici dati condivisibili nel modo più preciso possibile derivano dall’osservazione del comportamento esteriore dell’individuo: solo i movimenti fisici sono dati osservabili fattualmente giacché mentre il comportamento rientra all’interno della scienza naturale, essendo la risposta a stimoli derivanti dall’ambiente, gli aspetti soggettivi della coscienza e le teorie psicologiche basate su questi aspetti ricadono in un dualismo psicologico che sfocia in un «misticismo teologico».434 È necessario, quindi, eliminare tutto ciò che in un metodo sperimentale non può essere osservato in maniera regolare.435 Da un siffatto quadro metodologico viene naturalmente escluso il metodo dell’introspezione, sia perché nello studio del comportamento animale non ci si può servire dell’introspezione per l’analisi degli stati di coscienza, sia perché i risultati ottenuti dal metodo introspettivo nello studio della psicologia umana si sono dimostrati tutt’altro che omogenei.436

Watson propone quindi una ipotesi fortemente riduzionista: i processi superiori di pensiero si esprimono sotto forma di debole reintegrazione dell’originario atto muscolare (compreso il parlare) e sono integrati in meccanismi associativi che rispondono in ordine seriale. I processi riflessivi figurano in tal modo meccanici quanto le abitudini e il pensiero risulta la conseguenza di deboli contrazioni muscolari implicate nell’esercizio aperto dell’atto abituale del parlare. Il pensiero viene identificato in ultima istanza con il «parlare con noi stessi» in cui le abitudini muscolari apprese per il linguaggio manifesto hanno valore causale anche nei confronti del linguaggio interiore437 e la memoria viene ricondotta al funzionamento della parte verbale di una organizzazione del corpo, ovvero di una abitudine fisica appresa e verbalizzata.438

434 J. B. Watson, Psychology from the standpoint of a Behaviorist, Lippincott, Philadelphia 19293, p. VIII.

435 J. B. Watson, Behavior: An Introduction to Comparative Psychology (1914), Holt, Rinehart e Winston, New

York 1967, pp. 18-19.

436 J. B. Watson, Psychology as the Behaviorist views it, cit., p. 164. Se l’oggetto di studio cambia, ovvero

diventa il comportamento e non più gli stati psichici, il metodo introspettivo non ha più nessuna utilità per la ricerca.

437 J. B. Watson, Behaviorism (1925), trad. it. Il comportamentismo, a cura di P. Meazzini, Giunti Barbera,

Firenze 1983, p. 231.

438 Se non posso parlare di una abitudine fisica (ad esempio giocare a golf) e mostrare l’organizzazione corporea

in tale gioco, dovrei andare in campo e giocare ma essendo molto più numerose le occasioni di parlare di questa abitudine la memoria si rivela essere la parte verbale di questa abitudine (J. B. Watson, Il comportamentismo, cit., p. 246).

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Ora, Watson elabora la propria teoria durante gli anni trascorsi all’Università di Chicago dove è impegnato in un progetto di ricerca dottorale sotto la guida di James Angell.439 Egli si forma, quindi, nel cuore del funzionalismo, ma in un momento storico in cui le questioni riguardanti la possibilità di una base scientifica della psicologia si scontrano con l’ambiguità concettuale e il sostrato metafisico di cui viene accusata la psicologia funzionalista. Ed è per tale ragione che Watson si rivolge al funzionalismo come al destinatario principale delle proprie critiche. Egli infatti ritiene che nonostante la psicologia funzionalista abbia cercato di rispondere all’analisi prettamente introspettiva degli stati di coscienza attraverso la concezione di processi psichici dinamici, essa sia comunque ricaduta all’interno di un mero piano metodologico-concettuale che non ha offerto nessun contributo alla conoscenza scientifica dei fenomeni psichici: sebbene abbia sostituito la nozione di ‘contenuto’ della psicologia strutturalista con quella di ‘funzione’, non ha superato l’ambiguità di significato nell’uso di termini come “sensazione”, “emozione”, “affezione”, “volizione”, “percezione”, mantenendo così quell’alone metafisico che inficia alla radice l’idea di una scienza dei fenomeni della mente. Egli, inoltre, considera il concetto jamesiano di “istinto” una «assunzione metafisica» fuorviante440 e la nozione di “flusso di coscienza” inutile per l’apporto di conoscenza rispetto alle sensazioni e percezioni che esperiamo normalmente. Rifiuta inoltre l’utilizzo fatto tanto da James quanto da Dewey ed Angell della nozione di “mente”, indicata come «una specie di “angelo custode” pronto ad intervenire» nel momento del bisogno, o come un «lusso mentale […] senza nessun significato funzionale».441 Come risposta a questi limiti Watson propone di abbandonare la possibilità di conoscere le forme complesse di comportamento umano come l’immaginazione, il giudizio, il ragionamento, l’idea, delle quali in realtà possono essere rintracciati solamente i rapporti in termini di contenuto che esse mostrano all’esterno, e di sostituire sul piano linguistico-concettuale i termini come “sensazione”, “percezione”, “immaginazione”, “emozione”, “volizione” con termini come “stimolo”, “risposta”, “abitudine”, “apprendimento”, allo scopo di evitare confusioni concettuali e dibattiti infiniti attorno ai termini riferiti alla coscienza. Egli ritiene quindi essenziale sostituire alla nozione jamesiana di flusso di coscienza l’idea di un “flusso

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Nel suo periodo a Chicago segue inoltre i corsi di Tufts su Wundt, di Moore, di Donaldson, oltre ai corsi e seminari di Mead, di cui però, confesserà più tardi, non riesce a capire molto. Watson testimonia, inoltre, del grande interesse mostrato da Mead per i suoi esperimenti con gli animali, tanto da passare più di qualche domenica con lui in laboratorio a osservare il suo lavoro su topi e scimmie (cf. J. B Watson in C. Murchison (ed.), A History of Psychology in Autobiography, Vol. III, Clark University Press, Worcester, Massachusets 1936, pp. 271-281); vedi anche R. Boakes, op. cit., pp. 325-26.

440

J. B. Watson, Il comportamentismo, cit., p. 114.

441

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di attività fisiche” che rispondono ai cambiamenti strutturali dovuti alla crescita ed in parte all’addestramento e condizionamento fisici.442

In sintesi, Watson presenta nell’orizzonte degli studi psicologici il comportamentismo come «l’unico funzionalismo consistente e logico»443 che si propone di fare chiarezza in una scienza così contrastata nel dibattito sui fenomeni studiati e sui risultati ottenuti, cercando di colmare quel gap esistente tra la psicologia umana e la psicologia comparata attraverso l’eliminazione della nozione di “coscienza” e la conformazione del metodo al «fatto osservabile che l’organismo, umano e animale, si adatta all’ambiente attraverso fattori ereditari e dispositivi abitudinari».444