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Mead e Ryle tra introspezione ed esperienza soggettiva

5. Mead tra Ryle e Rachlin Il ruolo dell’introspezione

5.2. Mead e Ryle tra introspezione ed esperienza soggettiva

Mead non considera l’introspezione come un metodo psicologico di auto-osservazione; essa figura invece una fase soggettiva non isolata all’interno dell’esperienza al cui sviluppo

508

J. B. Watson, The Psychology as the Behaviorist views it, cit., p. 171.

509

Cf. E. Valentine, Perchings and flights: Introspection, in A. Burton, J. Radford (eds.), Thinking in

Perspective. Critical Essays in the Study of Thought Processes, Methuen & Co. Ltd., London 1978, pp. 2-5.

510

Ivi, p. 172.

511

Ivi, p. 172n.

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contribuisce in maniera principale attraverso un processo di interpretazione della situazione da parte dell’individuo in riferimento ad un ambiente fisico e sociale comune a più individui ma che è definibile nei termini della sua esperienza singola. Il processo di interpretazione si manifesta nella capacità immaginativa dell’individuo, capacità che se da un lato «non può essere messa in una coscienza distinta dal mondo che ci riguarda» giacché essa è rivolta al mondo esterno e quindi appartiene ad esso, da un altro punto di vista appartiene alla «storia dell’individuo particolare», operando nelle fasi di elaborazione soggettiva della condotta da tenere.513

Viene qui naturale il riferimento a Ryle e al concetto di mente in quanto insieme di «capacità e propensioni di cui l’azione è attuazione».514 Al pari di Mead, infatti, anche Ryle nega che la mente sia un “luogo”, anche solo metaforico, dove collocare ciò che non può rientrare in una spiegazione dei processi in termini fisici,515 identificandola piuttosto con le capacità di agire in un certo modo, capacità apprese attraverso la comunicazione e l’osservazione degli altri soggetti coinvolti nell’interazione sociale.516 Ryle indica l’autocoscienza come un processo appreso dai rapporti interpersonali, così che l’introspezione si mostra un discorso interiore che analizza retrospettivamente le esperienze vissute.517 In altre parole, essa analizza ciò che Mead definirebbe la parte passiva della coscienza, i contenuti dell’esperienza vissuta, le immagini del passato, caratterizzandosi come il Me del Sé. Come afferma Ryle, le agitazioni dell’animo si possono esaminare solamente retrospettivamente, l’introspezione è quindi una analisi del ricordo che mostra come il pensare sia, almeno in parte, un discorso interiorizzato, «parole udite interiormente»:518 «La retrospezione immediata o ritardata è un processo genuino; ed è esente dalle difficoltà connesse all’idea di una attenzione suddivisa, come pure da quelle che vengono dal pensare i moti violenti dell’animo oggetto di un freddo esame ad essi concomitante».519 Di certo, quando il soggetto riflette su se stesso lo fa grazie ad una struttura di pensiero acquisita nel contesto socio-culturale dal quale ha assunto e interiorizzato generalizzando i ruoli degli altri. A differenza di Mead, però, Ryle sostiene che la retrospezione non ci permette di avere un accesso privilegiato, quanto di

513

MT, p. 398.

514

D. L. Miller, George Herbert Mead, cit., p. 154. Cf. G. Ryle, Lo spirito come comportamento, Laterza, Roma- Bari, 1982, p. 36.

515

Ivi, p. 73.

516

Ivi, p. 95: «un processo induttivo che sbocca nell’asserzione di certe costanti da citarsi come “ragioni” per certe azioni. Non si tratta di risalire causalmente a un evento non visto, ma di riconoscere che in un certo episodio si rispecchia una regolarità, come quando si spiegano reazioni e azioni per mezzo di riflessi e abiti e il rompersi del vetro con la sua fragilità».

517 Ivi, p. 170. 518 Ivi, p. 172. 519 Ivi, p. 142.

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acquisire «una quantità di dati che contribuiscono al nostro giudizio di quel che facciamo e delle nostre qualità mentali».520 Le nostre qualità mentali e le nostre azioni, quindi, sono in qualche modo pubbliche ed io le conosco come possono conoscerle gli altri. Mead ritiene invece che sia possibile parlare di soggettivo e oggettivo – intesi come ‘privato’ e ‘pubblico’ – riguardo ad esperienze che coinvolgono sensazioni piacevoli o dolorose e sentimenti indeterminati, e in generale riguardo a tutte quelle esperienze che sono frutto delle interazioni sociali ma che si manifestano esclusivamente come esperienze vissute dal singolo. In MSS egli distingue inoltre tra “esperienze riflessive” ed “esperienze soggettive”, le prime riguardanti la struttura del Sé in quanto entità sociale, le seconde indicate come esperienze riguardanti il soggetto e quindi «necessariamente limitate ad un individuo particolare, e a cui gli altri non possono partecipare per il carattere individuale di esse».521 Queste sono le esperienze affettive vaghe, incapaci di fare riferimento ad un oggetto e quindi non condivisibili dalla comunità:

«La disposizione di qualcuno può tendere irrimediabilmente verso qualcosa che non è possibile ottenere, lasciando quella persona semplicemente con i suoi sentimenti e il desiderio di contatto a cui non è pervenuta; vi è però ancora una implicazione di qualcosa che non riesce ad oggettivarsi, e resta perciò l’esperienza isolata dell’individuo».522

Vedremo come Mead affronti la questione dell’oggettivazione delle esperienze soggettive nel prossimo capitolo, qui ci interessa notare solamente che non è possibile affermare che le nostre qualità e le nostre azioni sono pubbliche o che la conoscenza di sé sia riducibile alla conoscenza delle nostre tendenze e capacità da parte degli altri soggetti con cui agiamo.523 Quando Ryle parla di conoscenza di sé sembra fare riferimento a quel tipo di esperienze che Mead include nelle “esperienze riflessive”, ovvero quelle esperienze che hanno la possibilità di trovare una oggettivazione nella condotta.524 Ma esistono anche delle esperienze che non trovano la propria oggettivazione e queste esperienza confermano il fatto che non sempre gli altri possono conoscerci meglio di noi stessi e non sempre gli stati interiori sono conoscibili attraverso l’osservazione della condotta.

520 Ibidem. 521 MSS, p. 420. 522 Ibidem. 523

Cf. anche D. Davidson, Knowing One’s Own Mind, in “Proceedings and Addresses of the American Philosophical Association”, Vol. 60, No. 3 (Jan., 1987), p. 441.

524

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Il significato attribuito da Mead all’introspezione si lega alla convinzione che non sia possibile considerare come pubblica l’intera condotta di un individuo, le esperienze soggettive sono quelle esperienze accessibili al solo soggetto, che rendono merito dell’immaginazione in quanto processo di elaborazione individuale che non necessariamente sfocia in una azione corrispondente. Come scrive Mead: «non puoi dire cosa un uomo sta pensando a meno che egli non decida di dirlo. Se lo dice, hai accesso a quello così come ce l’ha lui; e conosci cosa sta per fare, e questa anticipazione può entrare nella tua condotta».525

Non sempre, quindi, è sufficiente l’osservazione della condotta per conoscere i processi psichici del soggetto, anche quando la nozione di ‘comportamento’ venga intesa nei termini più ampi di come intende il comportamentismo stricto sensu. Identificare il mentale con ciò che si manifesta attraverso il corpo comporta necessariamente una perdita di elementi per la comprensione dell’individuo umano, ma comporta soprattutto la negazione di quello spazio in cui le intenzioni, i desideri, le emozioni, i pensieri, fanno riferimento alla nostra «arena interna, in cui noi siamo gli unici spettatori e gli unici attori».526 Questa critica vale a maggior ragione nei confronti della prospettiva comportamentista teorizzata da Howard Rachlin.

5.3. Il comportamentismo teleologico di Rachlin e il problema della conoscenza dell’altro

Secondo il comportamentismo teleologico di Rachlin il mentale si riferisce al comportamento evidente: la mente non si rivela nel comportamento ma è essa stessa il comportamento.527 Questa forma di comportamentismo non nega i processi cognitivi come il

525 MT, p. 404. 526 MT, p. 401. 527

H. Rachlin, Behavior and Mind. The Roots of Modern Psychology, Oxford University Press, New York 1994, p. 15. La finalità nel comportamentismo viene introdotta da Tolman nel 1922 (cf E. C. Tolman, A New Formula

for Behaviorism, in «Psychological Review», 29 (1922), pp. 44-53; Id., Principles of Purposive Behavior, in S.

Koch (Ed.), Psychology: a study of a science. Study 1: Conceptual and systematic. Vol. 2: General systematic

formulations, learning, and special processes, McGraw Hill, New York 1959, pp. 92-157). Tolman ipotizza

l’esistenza di processi mentali non osservabili nell’individuo, ma dei quali è possibile inferire osservando il modo in cui agiscono come «processi funzionali intermedi», in mezzo fra le cause del comportamento e il comportamento. (Per un excursus storiografico e concettuale rimandiamo a J. Staddon, The New Behaviorism:

Mind, Mechanism and Society, Psychology Press, Philadelphia 2001, pp. 12-21). Mackenzie, invece, nota che il

tentativo generale dei comportamentisti di seconda e terza generazione per includere nelle proprie teorie anche processi “superiori” come l’amore e la curiosità è stato quello di cercare di utilizzare i concetti tipici della teoria dell’apprendimento utilizzati nella ricerca di laboratorio sugli animali, con il risultato, però, di rendere talmente generali certi termini da arrivare ad «avere poco più che un significato analogico o perfino metaforico» (Cf B. D. Mackenzie, Il comportamentismo e i limiti del metodo scientifico, Armando, Roma 1980, pp. 26-28).

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pensiero e l’emozione ma ritiene che a questi siano riconducibili le cause di spiegazione del comportamento, lo stesso pensiero è una forma di comportamento conoscibile attraverso lo studio di elementi maggiori che caratterizzano il comportamento. Per sostenere la propria tesi Rachlin prende a sostegno i concetti di causa efficiente e causa finale di Aristotele, sostenendo che il comportamento teleologico risponde non solo al come si agisce in una certa situazione ma al perché si agisce: ciò che va osservato, in questo genere di ricerca, non è tanto il movimento fisico, quanto l’atto inteso come un insieme coordinato di movimenti rivolti ad un certo risultato: «Un dato atto può essere veramente conosciuto solo qualche tempo, forse un tempo considerabile, dopo che è occorso poiché il contesto (la causa finale) di un atto si estende nel futuro così come nel passato».528 È quindi necessario considerare la complessità del compito e tenere conto sia del fattore tempo, poiché un atto può trovare significato solamente in un esteso arco di tempo, sia del fattore aleatorio che consiste nel considerare i differenti aspetti del contesto in cui si produce l’atto. Questi aspetti rendono possibile la predizione del comportamento futuro (ciò che studia una scienza) che però può fare riferimento solamente alla probabilità, fondandosi sull’osservazione del contesto in cui il comportamento si esprime e tenendo conto di tutte le variabili che condizionano e causano il comportamento. Più condizioni si conoscono più sarà possibile comprendere i motivi di un certo comportamento, sebbene, come lo stesso Rachlin ammette, questi non potranno mai essere completamente conosciuti («it will be never be 100% knowable»).529

Ora, anche la teoria di Rachlin, come quella di Ryle, presenta degli elementi comuni con il pensiero meadiano, tra i quali uno in particolare ci interessa qui evidenziare: la natura teleologica della condotta, il fatto che ci sia, quindi, una distinzione nella spiegazione della condotta tra il perché il soggetto pone in essere una azione e il come la pone in essere.

Per rendere i motivi della condotta di un certo individuo conoscibili in base alla conoscenza delle condizioni del comportamento, Rachlin si serve di un esempio: un droghiere dona una pagnotta di pane ad una persona povera; ora, osservando solo il comportamento del droghiere, sostiene Rachlin, non possiamo sapere se questo dono venga dal suo buon cuore o se sia la conseguenza di una campagna promozionale, per saperlo dobbiamo conoscere se ci sia o meno una campagna promozionale in corso da cui dedurre se il droghiere è una persona di buon cuore o meno.

Quello che a nostro parere Rachlin non considera, in questo caso, è il fatto che indifferentemente dalla campagna promozionale, il droghiere potrebbe voler donare una

528

H. Rachlin, op. cit., p. 32.

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pagnotta di pane perché ha buon cuore, e il fatto che quando agisce in questo modo sia in corso una campagna promozionale potrebbe essere solamente una coincidenza: non possiamo affermare di conoscere lo stato mentale del panettiere conoscendo solamente le condizioni esteriori dell’atto e il suo comportamento.

Un altro esempio che Rachlin porta a favore della propria teoria trova il suo antecedente più famoso nell’esperimento mentale della “fidanzata automatica” formulato da William James. Rachlin immagina di vivere con una bambola, Doll II, che presenta tutti gli atteggiamenti di una donna e di cui viene a sapere che è una bambola solo alla sua morte, al momento dell’autopsia. Egli sostiene quindi che, non avendo mai dubitato, osservando il suo atteggiamento, che lei potesse essere una bambola, il concetto di anima deve necessariamente fare riferimento ad «un modello complesso di comportamento».530

Ora, la prima osservazione che potremmo fare all’esempio di Rachlin è che sebbene l’argomento di Doll II possa essere considerato intelligibile, nel senso che possiamo in qualche modo immaginarci una “fidanzata automatica”, esso non è comunque comprovabile nella realtà, non è soggetto a prova: i suoi effetti reali non possono essere osservati, come non sono stati osservati in passato; rimane dunque sul piano della pura ipotesi.531

Nonostante ciò, cercheremo di rispondere sullo stesso piano dell’esempio di Rachlin. Immaginiamo che dopo lo “spegnimento” di Doll II Rachlin venga a sapere anche che per tutto il tempo in cui era in vita, Doll II lo abbia tradito con vari uomini, e questo senza che Rachlin se ne accorgesse, giacché l’atteggiamento di Doll II nei suoi confronti non ha mai fatto trapelare nulla, essendo stata programmata anche per fingere. Rachlin potrebbe sostenere di non aver avuto una visione completa del comportamento di Doll II, potrebbe quindi sostenere che il motivo per cui lo ha tradito può essere riconducibile al suo atteggiamento legato alle condizioni esterne della presenza di altri uomini. Ma se così fosse, sembrerebbe che il motivo del tradimento debba trovarsi nel comportamento del tradimento. Ma non c’è altro? Non c’è qualcosa oltre il comportamento?532

Mead noterebbe che sebbene normalmente ciò che proviamo accompagna la nostra condotta, può accadere anche che un buon attore possa presentare gli effetti esterni senza le emozioni interiori.533 La questione potrebbe essere quindi posta anche dal punto di vista di chi subisce il comportamento altrui, si tratta, in altre parole, del problema di essere certi della

530

Ivi, pp.16-17.

531

Come direbbe Putnam: «Supporre che le altre persone siano ‘senz’anima’ è parlare al di fuori di ogni nostro criterio effettivo per la coscienza, l’esperienza, il pensiero, ecc.» (H. Putnam, Mente, corpo, mondo, cit., p. 159).

532

Per la simulazione in amore vedi N. Luhmann, Amore come passione, Laterza 1985, pp. 102 ss., 121 ss.

533

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sincerità del sentimento d’amore dell’altro: non è forse il sentire l’inafferrabilità, in certi momenti, del sentimento dell’altro, la sua inalienabile soggettività che ci porta ad essere continuamente in tensione per cercare di comprendere ciò che l’altro pensa o prova? Scrive Wittgenstein: «Si possono dire diverse cose sulla /particolare/determinata esperienza e oltre a questo sembra che vi sia qualcosa, la parte essenziale dell’esperienza, che non si può descrivere».534 La domanda potrebbe essere posta in questi termini: qual è la relazione tra il pensare (o il soffrire e l’amare) e il soggetto che pensa (soffre e ama)? Si tratta di una relazione puramente “comportamentale”? Rachlin non specifica cosa intenda per “complesso modello di comportamento” ma in qualche modo apre la strada alla questione se esista una esperienza privata che non sia riducibile alla sua espressione fisico-comportamentale. Egli infatti ritiene che gli atti intrinsecamente privati (compresa l’introspezione) non siano possibili; è senz’altro possibile parlare a se stessi o fare dei movimenti neuromuscolari non osservabili all’esterno, ma tali atti non hanno significato, non essendo connessi ad altri atti secondo un legame di significato.535 Egli inoltre sostiene che per l’esistenza dell’amore sono necessarie delle strutture interne, identificate con delle organizzazioni neurali. Così facendo, però, si rischia di ricadere in una posizione che rende l’esperienza del soggetto riducibile per quanto riguarda gli stati mentali a stati cerebrali ma che in realtà non risolve la questione riguardante la coscienza. Rachlin glissa così sulla questione della connessione tra stati cerebrali e stati mentali affermando che chi è consumer of love non deve preoccuparsi delle strutture interne: «L’idea che l’amore e tutta la vita mentale è azione [performance], un modello di comportamento è l’essenza del comportamentismo teleologico».536

La relazione tra esperienze soggettive e loro oggettivazione si rivela però molto più problematica di quanto possa sembrare da una simile prospettiva. La distinzione tra esperienza privata ed esperienza pubblica viene alla ribalta soprattutto quando il soggetto non oggettiva le proprie esperienze psichiche: «Privata e psichica – scrive Mead – è quell’esperienza che non riesce a conseguire quel valore oggettivo che essa pretenderebbe»,537 per cui chi osserva il soggetto non riesce a inferire ciò che l’altro sta sentendo, pensando, ecc.

Quello che vogliamo evidenziare non è il nostro dubbio sul fatto che il comportamento possa dimostrare un sentimento, ad esempio l’amore o la sofferenza; vogliamo però evidenziare il fatto che la questione della conoscenza degli altri soggetti non è così limpida e che l’osservazione del comportamento non esaurisce il conoscibile. È vero che attraverso

534

L. Wittgenstein, Esperienza privata e dati di senso, Einaudi, Torino 2007, p. 4.

535

H. Rachlin, op. cit., pp. 58-59.

536

Ivi, p. 18.

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l’osservazione del comportamento posso trarre certe conclusioni sugli stati mentali dell’altro, ma tali conclusioni sono sempre incerte. Come scrive Wittgenstein: «L’incertezza sul fatto che un altro… [soffra, ami, pensi, ecc.] è un tratto (essenziale) di tutti questi giochi linguistici»,538 è quindi un tratto essenziale della nostra relazione con gli altri soggetti sociali. L’incertezza e il dubbio sono alla base della nostra conoscenza, di qualsiasi genere e proprio perché abbiamo a che fare con esseri umani la nostra incertezza è ancora maggiore. È anche vero, però, che «questo non significa che ognuno viva irrimediabilmente nel dubbio per quel che riguarda ciò che sente un altro».539 Comprendiamo infatti che il modo di agire secondo la condotta altrui ha alla base dei presupposti connessi alla nostra capacità di interagire con l’altro, presupposti che fanno riferimento a una dimensione sociale pre-riflessiva, ad «un fondo di organizzazione sociale inesplorata che ci permette di agire con più sicurezza in un ambiente sociale piuttosto che in un ambiente fisico» e che fa sì che «[c]iò che vediamo nei volti e attitudini degli altri non è il viso o il corpo. È l’indicazione di certi tipi di condotta, e l’evidenza della sensazione che la condotta implica».540 Potremmo allora parlare di un “residuo” istintuale che, riprendendo la riflessione wittgensteiniana sviluppata in Zettel, si esprime sotto forma di relazione umana naturale, istintiva, rispetto alla quale il nostro linguaggio è una estensione di certi comportamenti come l’essere sicuri che qualcuno soffre, o il dubitare che soffra, o, nel nostro caso, il sapere o il dubitare se un certo gesto significhi desiderio, attrazione, amore, ecc.541 Inoltre questi presupposti sono la conseguenza del fatto che i nostri Sé si formano all’interno di una interazione sociale che ci porta ad apprendere certe convenzioni comunicative che ci consentono di interpretare in parte le loro esperienze. Come nota Wittgenstein nel Blue Book, sebbene io sia tentato di dire che posso conoscere solamente i miei stati interiori mentre non posso conoscere quelli degli altri, e quindi posso asserire che solamente la mia esperienza è reale, non quella degli altri, è vero anche che gli altri potrebbero ribattere allo stesso modo, eppure nella realtà noi non ci facciamo tali problemi e quasi sempre interpretiamo gli stati dell’altro, o crediamo di comprenderlo. Così come non percepiamo certe difficoltà quando esaminiamo le nostre esperienze mediante introspezione o quando le sottoponiamo a ricerche scientifiche.542 Allo stesso modo non possiamo negare il fatto che molte volte indoviniamo lo stato dell’altro, e lo indoviniamo grazie alla nostra capacità di sentire e di riconoscere atteggiamenti simili ai nostri.

538

L. Wittgenstein, La filosofia della psicologia, cit., § 877.

539

Ibidem.

540

G. H. Mead, The Social Character of Instinct, cit., p. 6.

541

Cf. L. Wittgenstein, Zettel, cit., § 545.

542

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Questo non significa però negare il fatto che non sempre sia possibile attraverso il riconoscimento di atteggiamenti simili negli altri ridurre la nostra conoscenza delle menti altrui all’osservazione del loro comportamento riconoscibile:

«Due cose […] sono importanti: Che in molti casi l’altro non può predire le mie azioni, mentre io le prevedevo nella mia intenzione; e che la mia predizione (nell’espressione della mia intenzione) non poggia sulle stesse basi sulle quali