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Comunicazione prelinguistica e Teoria della mente

La questione della Teoria della mente è stata indagata da diversi ricercatori. L’indagine sperimentale ha coinvolto negli anni sia bambini normali (Wimmer & Perner, 1983) sia bambini con sviluppo atipico — bambini con ritardo mentale, bambini sordi, e ciechi congeniti, (Baron-Cohen, 1989, Minter et al., 1998) — e in particolar modo bambini autistici (Baron-Cohen et al., 1985). Come è già stato chiarito da H. Wimmer e J. Perner, lo sviluppo della Teoria della mente nei bambini normali coinvolge diversi stadi: lo sviluppo della comunicazione intenzionale (dodici mesi); l’abilità di partecipare ai giochi di finzione, i cosiddetti “giochi simbolici” (ventiquattro mesi); la comprensione dei desideri (trentasei mesi), e lo sviluppo delle meta-rappresentazioni che rendono possibile la comprensione delle false credenze (quattro anni). Tali abilità risultano essere

compromesse nei bambini che hanno uno sviluppo al di fuori della norma (ad esempio gli autistici). Difatti, la capacità di leggere la mente e le intenzioni altrui, capacità strettamente correlate alle abilità sopramenzionate, risultano inadeguate nei bambini con sindrome autistica, tanto è vero che la condizione autistica è stata denominata da Baron- Cohen (1995) “cecità mentale” (mind-blindness), intendendo con questa espressione una carenza nelle capacità meta-rappresentative.

I bambini autistici presentano difficoltà specifiche nel gioco simbolico, nelle abilità linguistiche e nell’interazione sociale. L’uso del linguaggio risulta inappropriato in quanto caratterizzato da persistenti ecolalie18, inversioni di pronomi (“tu” al posto di “io”) e da scarsa pertinenza sociale (Loveland, 1991, 1993), e per di più la comunicazione prelinguistica, l’imitazione e le capacità di attenzione condivisa, come si è già detto, risultano essere deficitarie. È presente appunto un certo grado di incapacità ad assumere il punto di vista altrui e risulta problematico anche il contatto oculare (totalmente assente o evitante).

Alcune ricerche suggeriscono che i bambini con autismo sono inesperti nella coordinazione oculo-gestuale e manifestano problemi a condividere l’attenzione con un’altra persona su un oggetto. Mancano perciò tutti quei gesti che sono correlati all’attenzione condivisa come l’atto di “indicare” o di “mostrare” con finalità proto-

dichiarative, e prevalgono quelli usati per lo più con finalità proto-imperative. Si tratta

pertanto di gesti mirati a ottenere un oggetto o a realizzare un’azione, ma non a ricreare un

setting condiviso. I bambini con autismo, insomma, mostrano deficit nello sviluppo

cognitivo sociale, e di riflesso nello sviluppo della Teoria della mente.

Secondo Pérez-Pereira & Conti-Ramsden (2002) i bambini non vedenti sembrano mostrare molti punti di contatto con gli autistici, soprattutto per le scarse competenze sociali e comunicative. L’interesse di molti studiosi in tutti questi anni è stato specificatamente rivolto verso quei comportamenti e quelle abilità che nei bambini ciechi risultano inadeguate e correlate a uno sviluppo problematico della Teoria della mente (gioco simbolico, attenzione condivisa, imitazione). In particolar modo sono stati rintracciati comportamenti molto simili a quelli autistici, come l’ecolalia (Fay, 1973), le difficoltà nell’uso dei pronomi personali, le difficoltà a iniziare una conversazione, problemi di generalizzazione e ritardo nel gioco simbolico (Fraiberg & Adelson, 1973), sebbene le cause siano profondamente differenti. Inoltre, si è osservato che in molti casi i bambini non vedenti esibiscono stereotipie, manierismi e comportamenti rituali (Chess,

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L’ecolalia è un disturbo del linguaggio che consiste nel ripetere involontariamente, come un eco, parole o frasi pronunciate da altre persone.

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1971, Willis, 1979) tipici dell’autismo (Frith, 1989; Hobson, 1993a), al punto che spesso alcuni ricercatori hanno ritenuto che le caratteristiche esibite dai bambini con cecità congenita includessero un numero davvero sostanziale di aspetti clinici di tipo autistico, confondendo la linea che separa la cecità mentale dalla cecità congenita. Naturalmente non è possibile dire che si tratta della stessa cosa, ma di frequente si è valutato se la mancanza della vista predisponga i bambini all’autismo o a comportamenti di tipo autistico. In particolar modo si è cercato di valutare se i bambini non vedenti siano in grado di raggiungere un pieno sviluppo della Teoria della mente e dei suoi precursori. I risultati raggiunti hanno evidenziato chiaramente che i bambini ciechi, nonostante le difficoltà nello sviluppo dell’attenzione condivisa, a causa degli ovvi problemi visivi, sono capaci di stabilire un focus di attenzione congiunta attraverso altre modalità interattive, come per esempio la modalità verbale, tattile o uditiva. Questo significa che l’assenza o il ritardo nell’atto di indicare con finalità proto-dichiarative non è necessariamente indice di difficoltà con alcuni precursori della Teoria della mente. L’uso di strade comunicative alternative che assolvono la stessa funzione della proto-dichiarazione sono in grado di stimolare la produzione di gesti deittici19.

Per poter interagire con i bambini non vedenti basta quindi scoprire quali sono le modalità principali che essi utilizzano sia per comunicare sia per comprendere. Una volta che vengono trovati i percorsi più opportuni per poter entrare in relazione con loro le probabilità che si possa procedere verso uno sviluppo prelinguistico, e successivamente linguistico, eccellente sono davvero elevate. L’ambiente di vita infatti può incidere positivamente sul loro sviluppo cognitivo e linguistico.

È stato constatato che ambienti familiari sensibili e stimolanti da un punto di vista comunicativo possono offrire ai bambini non vedenti numerose occasioni per manifestare le loro produzioni linguistiche, per condividerle con gli adulti e partecipare attivamente alle interazioni sociali. D’altra parte, i dati raccolti (McAlpine & Moore, 1995) dimostrano che i bambini ciechi non hanno un deficit significativo nello sviluppo della Teoria della

mente o dei suoi precursori come i bambini con autismo, anche se rimane sempre aperta la

possibilità che essi possano avere problemi di ritardo nello sviluppo della Teoria della

mente, specialmente nella misura in cui l’ambiente di vita sia estremamente privo di

stimoli sociali e comunicativi. Ciò significa che questi bambini, malgrado i ritardi nelle

19 Con il termine deissi si definisce il ricorso ad espressioni che, all'interno di un enunciato, fanno

riferimento a qualcosa o qualcuno e il loro significato si ricava esclusivamente osservando il contesto. “Mostrare”, “offrire” e “dare” ne sono un esempio. I gesti deittici vengono utilizzati sia per chiedere l'intervento o l'aiuto dell'adulto (funzione di richiesta), sia per attirare l'attenzione e condividere con l'interlocutore l'interesse per un evento esterno (dichiarazione).

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prime fasi dello sviluppo, possono affrontare con successo i molteplici ostacoli incontrati con il passare degli anni, mediante varie esperienze rilevanti (multisensoriali e multimodali) che consentano loro di familiarizzare, gradualmente, con il mondo esterno. Tutto questo, evidentemente, non accade così spesso nei bambini con autismo poiché in questi casi è proprio la Teoria della mente a essere gravemente deficitaria, e di conseguenza anche un ambiente di vita stimolante e favorevole non avrebbe gli stessi effetti positivi che ha sui non vedenti. Pertanto, si può dire che in un caso si tratta di un problema di natura essenzialmente periferico, in cui le difficoltà prevalenti sono da attribuire specificatamente al deficit visivo, ed è questo che limita fortemente le esperienze socio-emotive. Nell’altro caso il meccanismo danneggiato sarebbe più centrale.

Alcune “similarità” tra bambini con autismo e bambini non vedenti sono ancora da esplorare con attenzione, in particolar modo per poter osservare se la cecità congenita abbia ripercussioni rilevanti sulle abilità cognitive o se le scarse abilità cognitive facilitino la comparsa di comportamenti di tipo autistico.

Intanto, i risultati rintracciabili in letteratura sembrano indicarci che nelle popolazioni con deficit sensoriali le abilità cognitive giocano una parte importante nel determinare la comparsa dell’autismo. Sono state analizzate popolazioni con deficit sensoriali e di altra natura (bambini sordi, sordo-ciechi, con ritardo mentale grave), e si è visto che l’incidenza dell’autismo, o per meglio dire l’incidenza di comportamenti o spunti autistici, è davvero elevata (Jure et al., 1991). Ci sono molti resoconti clinici che riferiscono di bambini ciechi con caratteristiche simil-autistiche (Pérez-Pereira & Conti- Ramsden, 2005; Brown et al., 1997; Blank, 1975; McGuire, 1969), ma si tratta spesso di singoli casi, a partire dai quali è difficile trarre delle generalizzazioni. Altri studiosi hanno rintracciato sette casi su ventisette di bambini non vedenti con un quadro clinico strettamente somigliante a quello autistico (Fraiberg, 1977) e hanno trovato che i soggetti con cecità congenita hanno anche deficit cognitivi.

Naturalmente in questo campo d’indagine molte domande rimangono ancora aperte, e per questo motivo sarebbe utile essere cauti e cercare di accertare se l’eventuale presenza di atteggiamenti di tipo autistico sia legata esclusivamente all’assenza della vista o ad altri fattori. Ad esempio, si potrebbe analizzare con maggiore attenzione se il soggetto in esame presenta dei ritardi cognitivi oppure se vive in un’ambiente gravemente deprivato di stimoli e di opportunità comunicative che, certamente, possono incidere in modo prevalente. Nel portare avanti queste ricerche è sempre opportuno tenere in considerazione che le similitudini superficiali tra bambini ciechi e bambini con autismo possono essere

fuorvianti, specialmente dal momento che i comportamenti di tipo “autistico” attribuiti ai soggetti con deficit visivo non hanno sempre ed esattamente gli stessi meccanismi di funzionamento che presentano le persone con autismo.

I comportamenti di tipo “autistico” nel caso di deficit visivo potrebbero avere funzioni differenti (ad esempio adattative). Girare ripetutamente la testa o dondolarsi, infatti, sono azioni che gli individui con cecità congenita eseguono non in maniera a- finalistica ma con lo scopo di vicariare il deficit visivo. Come emerge dai risultati trovati mediante un’indagine statistica, illustrata nel capitolo successivo, essi rintracciano in questi comportamenti un modo altrettanto efficace per stabilire un contatto con la realtà circostante. Il dondolamento di fatto ricopre diverse funzioni, si configura come una sorta di “farsi avanti col corpo” anziché con lo sguardo e in molti casi restituisce un feedback propriocettivo sulla posizione del proprio corpo. V.J. Eichel (1978) ha addirittura osservato che il “dondolio” è una delle forme più comuni fra i comportamenti stereotipati, e in talune situazioni sembra persistere anche in età adulta, soprattutto quando oltre alla cecità si aggiungono altri handicap.

In queste circostante dunque è importante condurre sempre una attenta e precisa analisi per individuare eventuali fattori responsabili e identificare funzioni e specifici valori comunicativi. Alcuni studiosi (Blass et al., 1974) hanno notato che il movimento continuo delle mani molte volte ha una funzione di “rievocazione” perché facilita il recupero lessicale e la fluenza verbale.

In altre parole, quel che appare chiaramente è che questi tipi di comportamenti sono dei segni da interpretare e osservare accuratamente. Ecco perché un’ampia parte di questo lavoro, e in particolar modo il secondo capitolo, sarà rivolto alla loro analisi e descrizione, con particolare riferimento al ruolo e alle funzioni che essi ricoprono. Lo scopo è quello di dimostrare che le stereotipie non sono disfunzionali, piuttosto hanno un forte valore adattativo giacché sostituiscono tutti quei feedback visivi che normalmente accompagnano le interazione dialogiche (sguardi, espressioni facciali e sorrisi).