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L’uso del linguaggio e il ruolo degli input uditivi

3. L INGUAGGIO , COGNIZIONE , VISIONE

3.5. L’uso del linguaggio e il ruolo degli input uditivi

Le testimonianze da parte di individui non vedenti rappresentano una risorsa particolarmente significativa nelle ricerche relative alla cognizione spaziale, specialmente quando si valuta l’influenza della perdita della vista nella strutturazione concettuale (Meini & Donati, 2012).

I casi in esame sono davvero emblematici poiché ci consentono di indagare più da vicino non solo la questione della natura delle rappresentazioni mentali ma anche di valutare il ruolo dell’esperienza sensoriale, rivolgendo particolare attenzione agli stimoli linguistici nella formazione delle categorie spaziali. Prima di introdurre quest’ultimo aspetto, bisogna tener presente che per quanto riguarda la capacità di costruire rappresentazioni spaziali le posizioni sono alquanto controverse. Secondo alcuni studiosi i ciechi presentano delle difficoltà per specifici compiti (crf. Warren, 1984; Pasqualotto &

Proulx, 2012), altri studiosi ancora, invece, sottolineano le loro efficienti capacità in un’ampia gamma di situazioni (Noordzij et al., 2006), affermando che le loro rappresentazioni possono contenere persino dettagli “visivi”. Ne è una dimostrazione il fatto che utilizzino spesso termini come “vedere”, “guardare” e “cercare”. Eventuali limitazioni quindi non sono legate alla deprivazione sensoriale in sé, ma piuttosto al tipo di sistemi adoperati nel processamento di dati. Ad esempio, vi sono indizi del fatto che i ciechi hanno maggiori difficoltà rispetto ai vedenti nell’acquisire nozioni riguardo la verticalità (Cornoldi & Vecchi, 2003; Cattaneo et al., 2008) perché ricorrono a strategie non propriamente adatte per questa condizione.

Alcuni esempi provengono da esperimenti focalizzati sulla rappresentazione dello spazio peripersonale. Per esempio, in pointing tasks i ciechi precoci si basano prevalentemente su rappresentazioni spaziali egocentriche prendendo come punto di riferimento loro stessi, e mostrano di avere qualche difficoltà in più nel catturare tutte quelle informazioni lontane da questo punto. Di contro, i ciechi tardivi (così come i vedenti) sono capaci di costruirsi una rappresentazione basata anche su coordinate esterne — rappresentazione egocentrica vs allocentrica — (Cattaneo & Vecchi, 2011). Ne deriva che le differenze tra i due gruppi non dipendono dalla minore o maggiore acuità visiva, piuttosto sono identificabili nella tendenza a utilizzare una determinata categoria spaziale o un determinato punto di vista, scelto solitamente, per quanto possibile, sulla base dei vantaggi che può offrire (maggiore orientamento o capacità di muoversi in modo autonomo).

Dal quadro complessivo che si ricava da questi risultati, gli elementi visivi non sono indispensabili nei compiti di elaborazione spaziale, però la loro assenza influisce senz’altro sulla selezione delle strategie adoperate nella formazione di mappe cognitive. Tali ricerche, inoltre, si rivelano utili per supportare l’idea che le strutture neuronali legate alla cognizione spaziale hanno un’organizzazione prevalentemente sopra-modale (Pietrini

et al., 2004, 2009; Ricciardi et al., 2007; Cattaneo et al., 2008; Cattaneo & Vecchi, 2008).

Le immagini mentali dei non vedenti sono considerate più astratte dello specifico input modale e il ruolo della vista viene considerato marginale nel loro processamento. Ciò accade in nome della natura essenzialmente plastica del cervello, giacché le aree originariamente dedicate a processare una certa informazione, in presenza di deprivazione sensoriale, vengono attivate da altre modalità.

Tale flessibilità evidenzia che le immagini di cui ci creiamo una raffigurazione mentale sono relativamente svincolate dal canale sensoriale originario. Come evidenziano

alcune ricerche sperimentali, nella mental imagery non confluiscono solo dati percettivi ma anche informazioni veicolate dal linguaggio (Struiksma et al., 2009; Cattaneo & Vecchi, 2011). Quest’ultimo, poi, unitamente alle modalità sensoriali, contribuisce considerevolmente nell’ampliare gli orizzonti percettivi dei non vedenti, generando così delle ricche rappresentazioni semantiche e spaziali. Per cui, infine, oggetti e spazio possono essere percepiti e concettualizzati anche dai non vedenti, sebbene con alcune differenze legate proprio ai canali impiegati e alle strategie cognitive messe in atto per la strutturazione di modelli vicini alla realtà.

Le proprietà costituenti i concetti deriverebbero da due principali tipi di esperienze: senso-motorie e linguistiche. Laddove la visione viene a mancare l’acquisizione concettuale si suddivide in due fasi:

• in una prima fase (dall’infanzia fino all’adolescenza) è l’azione motoria e sensoriale ad emergere, consentendo la formazione dei primi concetti semantici e spaziali;

• in una seconda fase, quando il linguaggio è ben sviluppato, è questo a prevalere e supportare i processi di consolidamento delle conoscenze.

In questa ricerca si vuole evidenziare che il linguaggio occupa sempre un posto di rilievo nei processi rappresentativi, specialmente quando una scena percepita risulta ambigua o sfocata e di conseguenza i soli canali di senso non sono sufficienti per poter definire i contorni di quell’immagine. In tale contesto le descrizioni verbali assumono un valore inestimabile, divenendo lo strumento più utile per la codifica di tutte quelle informazioni che non possono essere immagazzinate con accuratezza mediante altre modalità.

Molti studi riportano che le persone cieche hanno un’ottima cognizione del mondo, ad esempio sanno che le ciliegie sono rosse, la banana è gialla, e che il colore rosso è una caratteristica strettamente associata a parole come “ciliegia” e “sangue”. Questo tipo di conoscenza è frutto delle loro esperienze linguistiche, benché i ciechi siano consapevoli che si tratta di un’idea un po’ differente rispetto a quelle delle persone normovedenti, perché il significato concettuale dell’associazione tra il nome “banana” e il colore “giallo” non può essere esattamente quello ricavato tramite esperienza (visiva) diretta. Tuttavia, ci sono forti ragione per credere che gli input verbali compensino efficientemente la mancanza di esperienza visive, consentendo ai ciechi di apprendere tutte quelle caratteristiche legate unicamente alla visione come, ad esempio, il colore degli oggetti. Ne consegue che il deficit visivo non influenza direttamente i processi percettivi e rappresentativi, grazie ad una potente forza esercitata sui sistemi riorganizzativi.

D’altro canto, come si può osservare, dal punto di vista concettuale non si riscontrano enormi difformità tra vedenti e non vedenti. La deprivazione sensoriale non compromette il modo in cui i ciechi utilizzano il linguaggio per descrivere le cose, anzi sembra che essi facciano grande affidamento su di esso: per orientarsi nello spazio, stabilire salde relazioni sociali e ottenere conoscenze riguardanti la realtà circostante.

Negli ultimi anni è stato proprio un gruppo di studiosi italiani dell’Università di Pisa (Marotta et al., 2013; Pietrini et al., 2009) a occuparsi di analizzare e comparare il comportamento verbale dei non vedenti con quello dei vedenti, notando che tra i due gruppi non vi sono differenze significative, e questo nonostante il canale mediante cui il cervello normalmente ottiene più informazioni sul mondo esterno venga a mancare. I dati veicolati dal linguaggio, soprattutto in questi casi, diventano una sorgente di strabiliante valore nell’acquisizione concettuale. Essi addirittura li orientano e li guidano verso la scoperta di concetti astratti e concreti, finché ad un certo punto, grazie a un uso ripetuto e prolungato nel tempo, le persone cieche sviluppano una formidabile abilità nell’usare tutte quelle parole legate alla visione (Arditi et al., 1988). Imparano a usare verbi ed espressioni correlate all’esperienza visiva come:

 “guardare” e “vedere”,  “ci vediamo domani”.

Quando utilizzano alcuni nomi di oggetti o di animali danno delle definizioni precise e fanno emergere le peculiarità alle quali essi sono associati in modo saliente e distintivo: per esempio, le “strisce” della zebra, il “collo lungo” della giraffa o il colore tipicamente “giallo” della banana. Spesso poi, se ciò non basta, “cercano chiavi smarrite” e “guardano la tv”. Questo accade perché “guardare” o “vedere” per loro significa esplorare con la modalità sensoriale dominante usata per percepire gli oggetti (Landau & Gleitman, 1985) e perché il linguaggio contiene in sé delle espressioni molto rappresentative come “rosso sangue” e “giallo canarino” che possono essere utilizzate per evocare in modo forte le associazioni colore-nome.

Il dato più interessante da osservare è perciò che le rappresentazioni e i modelli concettuali dei non vedenti sono molto simili a quelli dei vedenti seppur questi non dipendano da input visivi. Questo è possibile poiché il processo di elaborazione e di reclutamento di input avviene normalmente e ugualmente attraverso modalità alternative. Tali modalità inoltre possono essere prevalentemente linguistiche o anche extralinguistiche (tattili, cinestiche, uditive): entrambe le fonti permetterebbero la

costruzione di modelli concettuali, e ciò sarebbe un’ulteriore conferma del fatto che a fare la differenza sono semplicemente le modalità e le strategie impiegate.

In breve, dalle osservazioni e dalle comparazione effettuate, la vista non può essere considerata l’unico sistema di senso ad avere un’influenza esclusiva nella formazione delle strutture concettuali, dei contenuti semantici e delle categorie spaziali. Certamente, però, non si può negare che sia uno dei sensi maggiormente implicati e anche quello più affidabile in termini di accuratezza e velocità; tuttavia laddove risulti deficitario, come si è dimostrato, entrano in gioco sistemi di acquisizione alternativi altrettanto validi ed efficienti, capaci di concorrere alla realizzazione di ricche immagini mentali.

In accordo ai risultati ricavati mediante fRMI, in compiti uditivi, tattili e di codifica verbale — ad esempio per i verbi di azione — (Bedny et al., 2011a), si è notato come le regioni corticali visive siano in grado di attivarsi e di formarsi pienamente. Tale affermazione si rivela molto notevole da un punto di vista sperimentale poiché non è molto distante dalla tesi che sostengono diversi ricercatori, cioè che il cervello è programmato a prescindere dagli input sensoriali ricevuti ed è capace di ricreare scene “visive”. Questo ci porta a pensare che le rappresentazioni mentali non siano strettamente ed esclusivamente dipendenti dalla modalità percettiva specifica. I concetti sarebbero immagazzinati in regioni cerebrali non percettive e sarebbero formati da caratteristiche astratte e simboliche (Mahon & Caramazza, 2008). Il concetto di ciliegia, ad esempio, appare non essere sostanzialmente diverso da quello che si creano i normo-vedenti; addirittura sembra che la stessa rappresentazione possa essere prodotta a partire da stimoli linguistici, e molte proprietà di un oggetto, come forma o consistenza, possono essere apprese ugualmente per via aptica.

La somiglianza tra immagini spaziali nei ciechi e nelle persone vedenti sarebbe un’ulteriore prova a supporto della loro natura sopra-modale. In particolare, si è osservato che anche in caso di cecità congenita è possibile avere contezza delle distanze, e addirittura una stima delle dimensioni, attivando dei meccanismi (probabilmente) “innati” di riconoscimento, i quali consentono di giudicare tali parametri semplicemente dai suoni prodotti da un oggetto. Questo aspetto potrebbe accomunarci ad alcuni animali che basano gran parte delle loro attività sessuali e di procacciamento sugli stimoli uditivi. Le galline ad esempio, attraverso dei particolari richiami comunicano ai propri conspecifici la posizione di una fonte di cibo e ne segnalano perfino la qualità. Un altro comportamento esibito da molti animali, e in particolar modo da alcuni uccelli (i garruli) è il mobbing, una pratica basata su segnali uditivi e indirizzata a indurre i predatori a desistere. I garruli

infatti per persuadere i predatori e difendere il loro territorio emettono delle fragorosissime vocalizzazioni.

Un caso altrettanto convincente è stato descritto da T. Fitch (2005) che ci porta l’esempio del cervo rosso. Le vocalizzazioni messe in atto dal cervo maschio durante il periodo riproduttivo servono per “fingere” di avere una stazza più grande, maggiormente apprezzata dalla femmina delle stessa specie, che stima uditivamente le sue dimensioni corporee e ne è particolarmente attratta (size exaggeration theory).

D’altro canto, come evidenziano molti studi etologici, nelle specie animali le possibilità di codificazione sono molto ampie, in quanto i suoni hanno una grande varietà di frequenza, intensità e modulazione. Negli insetti la maggior parte dei suoni è prodotta per percussione, mediante organi appositi, oppure per sfregamento di parti del corpo quali le ali. Nei vertebrati sono le vesciche d'aria a vibrare, oppure parti dello scheletro che vengono strofinate; gli uccelli, invece, usano camere e cavità risonanti e mettono in azione un organo caratteristico, molto simile alla nostra laringe, che si chiama siringe. In tutti questi casi gli stimoli uditivi diventano dei segnali carichi di significato (comunicativo) e assumono un’importanza unica.

Come si può constatare, gli studi etologici sono molto ricchi di esempi in grado di spiegarci chiaramente come funzionano i sistemi di riconoscimento, oltre a suggerirci quali sono gli elementi che più ci accomunano. L’aspetto più saliente di questo confronto è che gli input uditivi ricoprono uno status privilegiato sia per l’uomo sia per alcune specie animali. Nella specie umana, però, l’udito insieme alla vista giocano un ruolo chiave nella percezione linguistica, ed è questo uno dei tratti che più ci distinguono dagli altri animali da un punto di vista percettivo e neuro-cognitivo. Al riguardo ci sono alcuni esperimenti di integrazione visuo-acustica molto interessanti (discussi approfonditamente nel capitolo successivo) dai quali emerge come la produzione dei suoni articolati coinvolga non solo l’udito ma anche la vista.