3. L INGUAGGIO , COGNIZIONE , VISIONE
3.3. La “Cross-modal plasticity” e le capacità adattative dei non vedenti
Gli studi sui soggetti con deprivazione sensoriale, come s’è detto, forniscono un’evidente dimostrazione della natura plastica della corteccia cerebrale. In particolar modo è stato possibile notare come alcune regioni del cervello riescono ad adattarsi efficacemente, divenendo maggiormente sensibili alle risposte di altre modalità sensoriali (plasticità cross-modale). Nonostante ciò, sembra però fondamentale prendere in considerazione l’esistenza di “periodi critici” durante i quali gli input visivi sono assolutamente necessari per il normale sviluppo di certe funzioni. Ad esempio, nei casi in cui la visione risulta essere deficitaria fin dalla nascita la percezione globale del movimento viene alterata permanentemente, mentre nei casi in cui la perdita della vista
sopravviene dopo pochi mesi questa abilità viene in qualche modo preservata. Durante dei compiti di osservazione, testando tale attitudine (Dormal et al., 2012), si è visto che i ciechi congeniti, comparati ai soggetti con cecità acquisita, avevano complessivamente prestazioni peggiori, e questo come testimonianza del fatto che anche un breve periodo di visione dopo la nascita (prima degli otto mesi di vita) li rende maggiormente sensibili (in una fase successiva) alla percezione dei movimenti.
Ne consegue che l’esperienza visiva gioca un ruolo determinante per lo sviluppo di tutte quelle funzioni correlate alla via dorsale. Viceversa, alcuni aspetti della visione comunemente correlati alla via ventrale si sviluppano normalmente a prescindere dall’età di insorgenza del deficit. Per esempio, parliamo di tutte quelle abilità esibite da soggetti con carenza o assenza totale di input visivi precoci (Geldart et al., 2002), i quali preservano la capacità innata di discriminare certe caratteristiche del viso come: espressioni facciali, direzione dello sguardo e lettura delle labbra.
Vi è così un periodo sensibile, durante il quale la perdita della vista guida le regioni dorsali a sviluppare specifiche risposte cross-modali per stimoli spaziali e di movimento. Ciò vuol dire che tutti gli stimoli provenienti dal canale visivo ed elaborati dalla via dorsale sono una preziosa sorgente da cui poter attingere per conoscere il mondo circostante. A questo proposito si possono menzionare i rari casi di recupero della vista, dove la risoluzione spaziale (in qualche modo e in una certa misura) rimane pur sempre povera e limitata.
Stando a uno studio recente, (Pasqualotto & Proulx, 2012), la cecità congenita pregiudica il completo sviluppo della cognizione spaziale, compromettendola in modo incisivo rispetto alle persone vedenti e perfino rispetto agli individui divenuti ciechi più tardi (Casey, 1978; Cornoldi et al., 1993; Gaunet & Thinus-Blanc, 1996; Thinus-Blanc & Gaunet, 1997; Herman et al., 1983; Lehtinen-Railo & Juurmaa, 1994; Pasqualotto & Newell, 2007; Rieser et al., 1986, 1992; Zwiers et al., 2001). Diversi autori riportano invece risultati contrastanti, suggerendo che gli input visivi non sono propriamente necessari per rispondere con successo a compiti spaziali. I risultati ottenuti in specifici
spatial tasks sono soddisfacenti e assolutamente equiparabili a quelli raggiunti da persone
normodotate (Haber et al., 1993; Hollins & Kelley, 1988; Landau et al., 1981; Loomis et
al., 1993; Passini et al., 1990; Tinti et al., 2006).
Per risolvere le varie controversie però è necessario tenere in considerazione tre importanti condizioni normalmente richieste durante la rappresentazione spaziale:
• il frame di riferimento (McNamara, 2003),
• il livello di conoscenza spaziale (Ishikawa & Montello, 2006), • le dimensioni spaziali (Vecchi et al, 1995).
Per quanto riguarda il primo punto bisogna considerare la variabilità degli elementi di riferimento: se dobbiamo individuare la localizzazione di un oggetto rispetto alla posizione dell’osservatore useremo un frame di riferimento egocentrico (egocentric
reference), mentre se dobbiamo individuare la posizione dell’oggetto rispetto a landmarks
esterni al corpo useremo un frame di riferimento allocentrico (allocentric reference) (McNamara, 2003; Kelly et al., 2010; Iachini & Ruggiero, 2006).
Il livello di conoscenza spaziale, invece, riguarda il grado di complessità di questo processo di orientamento (Ishikawa & Montello, 2006); ad esempio la rappresentazione delle distanze tra elementi (allocentric reference) è più complessa di una rappresentazione basata sulla distanza di un oggetto dall’osservatore (egocentric reference). Pertanto, se calcoliamo la differenza tra le due possiamo dire che un cieco, seppur non totalmente incapace di usare un riferimento allocentrico, ha grosse difficoltà nel descrivere un set di oggetti sulla base delle relazioni spaziali che essi presentano. Questo perché le modalità a sua disposizione, come tatto e udito, si rivelano poco adatte nello svolgere compiti spaziali in parallelo. Le difficoltà maggiori, infatti, sono quelle di catturare simultaneamente le relazioni spaziali tra un oggetto e il conteso circostante (Rieser et al., 1992), il che induce inevitabilmente e di conseguenza una riduzione nello sviluppo della cognizione spaziale (Vecchi et al., 2006).
Tuttavia, si presuppone che i sistemi di codifica auto-referenziali vengono pian piano sostituiti da quelli esterni non appena i bambini ciechi crescono. Quindi si tratterebbe semplicemente di un ritardo nello sviluppo di queste abilità, causato indirettamente dall’impiego di strategie cognitive differenti ma maggiormente appropriate alle perfomance da eseguire.
Al di là di ciò, resta vero che la modalità visiva assume una posizione di rilievo fin dai primi anni di vita, contribuendo ad affinare l’abilità di processare informazioni in parallelo e a sviluppare pienamente la capacità di integrazione multisensoriale (Loomis & Lederman, 1986). Più nello specifico, la precoce stimolazione visiva interviene a sviluppare i cosiddetti neuroni multisensoriali, in grado di rispondere simultaneamente ai vari input che provengono dall’esterno (Wallace et al., 2001; Wallace, 2004; Wallace & Stein, 1997; Wallace et al., 1996). Di conseguenza, i risultati sperimentali (Pasqualotto & Proulx, 2012) indicano che la mancanza di esperienza visiva (in qualche modo) indebolisce tutti quei compiti richiedenti un’integrazione sensoriale. Per queste ragioni è
possibile supportare la seguente ipotesi: gli aspetti visivi occupano uno status privilegiato nella completa formazione della cognizione spaziale e in assenza di un feedback di questo tipo solo alcuni aspetti possono essere rappresentati a pieno.