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Rappresentazioni sequenziali VS rappresentazioni simultanee

3. L INGUAGGIO , COGNIZIONE , VISIONE

3.4. Rappresentazioni sequenziali VS rappresentazioni simultanee

Come si può intuire dalle osservazioni fatte fin qui, seppur diverse modalità sensoriali sono sufficienti nella formazione delle rappresentazioni spaziali, la vista rimane il canale predominante. Essa ci consente di percepire oggetti a una certa distanza, con la massima velocità e accuratezza (fig. 12), e quindi può essere definita il canale di senso più affidabile coinvolto nell’analisi di elementi concreti e astratti, nonché l’esperienza percettiva primaria per la costruzione di concetti (Marotta, 2014). Per di più, è primariamente e direttamente coinvolta nell’analisi di dati spaziali. La sua influenza risulta particolarmente incisiva durante tre specifici periodi dello sviluppo:

 l’acquisizione della coordinazione occhio-mano,  il gattonamento e primi passi,

 l’acquisizione del linguaggio.

In tutti e tre i casi la vista gioca un ruolo critico e favorisce lo sviluppo di abilità importanti che, in qualche modo, sono correlate con l’inizio della cognizione spaziale.

Secondo diversi autori la vista è da considerarsi il senso spaziale (Thinus-Blanc & Gaunet, 1997) per eccellenza, e questo è dovuto essenzialmente alla sue ampie capacità percettive. A differenza di altri sensi ci permette di percepire oggetti distanti con la massima precisione, ci restituisce indicazioni immediate sulle relazioni spaziali e perfino su forme e colori (Foulke, 1982; Foulke & Hatlen, 1992). È applicabile inoltre a qualsiasi oggetto della realtà, poiché ogni oggetto concreto possiede caratteristiche visive, e dunque in termini più generali la percezione umana è fortemente basata sulla modalità visiva (Cattaneo et al., 2008; Cattaneo & Vecchi, 2011). Gli altri canali di senso, invece, non riescono a cogliere tutte queste informazioni spaziali e semantiche in tempi così brevi: per cui il vantaggio della visione sulle altre modalità appare essere quantitativo piuttosto che qualitativo.

Al di là di questi evidenti svantaggi, sappiamo che i ciechi sono capaci di crearsi un’immagine del mondo ricca di colori e sfumature, sono capaci di costruirsi una rappresentazione mentale di tutti quegli oggetti che vengono toccati e riescono a cogliere le distanze delle cose attraverso feedback uditivi. In età adolescenziale sviluppano pienamente le loro rappresentazioni spaziali anche se con un po’ di ritardo rispetto ai

vedenti, ovvero a diciassette anni piuttosto che a quattordici (Thinus-Blanc & Gaunet, 1997).

I dati presenti in letteratura suggeriscono che i ciechi tardivi raggiungono alti livelli di performance in ogni ambito, però, coloro che non hanno mai beneficiato di stimoli visivi (congenitally blind) o hanno perso la vista nella prima infanzia (early blind) presentano delle difficoltà iniziali, abbastanza notevoli, nei compiti spaziali.

Figura 12. Principali influenze del sistema visivo e qualità percettive

Fonte: (Davies, 2005), St. George Library, University of Sheffield

Ciò succede perché la vista è l’unica modalità che consente una percezione più accurata, simultanea e globale dell’ambiente circostante e permette inoltre di codificare le informazioni in modo simultaneo, mentre il tatto (canale maggiormente utilizzato dai ciechi per conoscere gli spazi esterni) è coinvolto in un processamento di informazioni di tipo sequenziale (simultaneo vs sequenziale). Questo vuol dire che per avere una piena rappresentazione spaziale i non vedenti hanno bisogno innanzitutto di ricordare ed elaborare i dati acquisiti, e infine di effettuare un’opportuna integrazione di tutti questi

dati. Il processo di codifica risulterebbe quindi più lento e faticoso, e le immagini mentali sarebbero frammentate e ridotte a una mera collezione di elementi.

Cionondimeno numerosi studi concordano nell’affermare che il mondo dei ciechi non è qualitativamente diverso rispetto a quello dei vedenti (Marotta et al., 2013; Marotta, 2014; Virga, 2000, Ruotolo et al., 2012; Arditi et al., 1998; Bertolo, 2005; Ricciardi et al., 2009; Ricciardi et al., 2010; Zimler & Keenan, 1983). La conoscenza e la rappresentazione dello spazio avvengono mediante valide ed efficaci strategie compensatorie, con tempi di elaborazione e ricezione sostanzialmente più lenti. Per questo motivo si presuppone una differenza legata non tanto al tipo di rappresentazioni create dai non vedenti, quanto piuttosto alle diverse strategie cognitive impiegate per riorganizzare i dati spaziali (Virga, 2000; Ruotolo et al., 2012). Per di più, la quantità di input percepibili risulta in qualche modo differente. Coloro che sono abituati a utilizzare tatto e udito sin dalla nascita hanno una percezione dello spazio meno completa. In primo luogo perché l’udito può localizzare solo sorgenti sonore vicine, e di conseguenza fornire una idea vaga di alcune caratteristiche (come direzione, distanza e relazioni spaziali) (Ceppi, 1981). In secondo luogo perché il tatto può favorire una conoscenza limitata dello spazio e delle proprietà oggettuali (forma, grandezza, distanza, peso, temperatura), e comunque, essendo un recettore di “contatto”, ha sempre un campo percettivo molto esiguo. La percezione aptica difatti rende più laboriosa la gestione di informazioni, dal momento che consente di cogliere le varie parti in sequenza e non nella loro globalità: i non vedenti in una prima fase esplorano i particolari, i dettagli, e solo dopo un attento processo analitico e un faticoso processo di sintesi mentale giungono a una rappresentazione complessiva. Perciò, strategie e tempi in cui si realizza l’organizzazione di dati sono essenzialmente differenti. Tuttavia il tatto è un senso molto “realistico” che privilegia le qualità funzionali e materiali degli oggetti, e di conseguenza consente di conoscere le loro caratteristiche concrete.

I risultati osservati inoltre suggeriscono che ad influenzare realmente le rappresentazioni non è la deprivazione visiva, ma la modalità di acquisizione e l’età di insorgenza. Ad esempio, un cieco tardivo (late blind), rispetto a un cieco congenito, può avvalersi di conoscenze ed esperienze pregresse per la ricostruzione di un’immagine, recuperando in memoria un set di elementi visuali conosciuti in passato con gli occhi, e dunque non solo con la mente. Viceversa, i ciechi congeniti o precoci devono costruirsi interamente i loro punti di riferimento, sviluppare il senso dell’orientamento e dello

spazio, ed esercitare i sensi residui affidandosi totalmente ad essi. Per cui, alla fine, una cecità precoce incide notevolmente sull’elaborazione spaziale.

Complessivamente, dai risultati esaminati si può affermare che le persone cieche per adattarsi mettono in atto un processo di “riequilibrazione” e “riorganizzazione plurisensoriale”, favorendo così l’acquisizione di nuove immagini mentali, e prendendo in carico la conoscenza del mondo in modo diverso. Riassumendo possiamo dire che:

 le persone vedenti dispongono di mappe cognitive simultanee e generali basate su immagini visive;

 i ciechi si avvalgono di immagini sensoriali non visive.

Da questo confronto deriva che il mondo oggettuale e spaziale dei secondi è molto simile a quello dei vedenti, soprattutto sotto il profilo dell’immaginazione. Seppur le immagini tattili seguono un dinamismo basato su principi e metodi diversi da quelli che danno origine a immagini visuali, le rappresentazioni mentali risultano le stesse da punto di vista qualitativo, e questo nonostante il più delle volte i non vedenti facciano ricorso a rappresentazioni cognitive più astratte. Infine, la loro capacità di orientarsi e di muoversi alla scoperta di uno luogo dipende strettamente da una lunga e corretta educazione sensoriale.

Tali osservazioni avvalorano ancora di più l’ipotesi che il nostro cervello si nutra di informazioni multiple e sia in grado di sfruttare efficaci e validi meccanismi di “sostituzione sensoriale”, concorrendo in modo produttivo alla formazione di ricchi e (altrettanto) complessi modelli mentali.