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Linguaggio formulario e finalità strettamente pragmatiche

2. L E RAPPRESENTAZIONI SENSO MOTORIE NELL ’ ACQUISIZIONE LINGUISTICA

2.5. Linguaggio formulario e finalità strettamente pragmatiche

Come confermano i dati rintracciati in letteratura, il significato concettuale assegnato a un’ampia gamma di terminologie è simile sia nei vedenti sia nei non vedenti, specie se si prendono in esame le tappe finali dello sviluppo linguistico. Il percorso evolutivo dei bambini ciechi, pertanto, non è atipico, benché appaia piuttosto evidente che essi hanno bisogno di più tempo prima di acquisire una buona padronanza lessicale. I processi di apprendimento quindi differiscono da un punto di vista quantitativo, ma non qualitativo. Durante la strutturazione morfologica, ad esempio, si è constatato che le persone con deficit visivo si esprimono ricorrendo con insistenza a un set ordinato di frasi combinate, riprodotte in modo rigido senza essere mai cambiate (si usa “what’s that” e mai “what is that”). Gli studiosi parlano di “formule fisse” per dare l’idea che si tratti di strutture schematiche, invarianti, di veri e propri “rituali”, abbandonati completamente quando il raggio di esperienze possibili si estende.

In accordo agli studi intrapresi da A. Miecznikowski e E. Andersen (1986), questo tipo di esibizione sprona una piena acquisizione di morfemi e dunque non è disfunzionale. Inoltre, sembra essere confermato che le stereotipie linguistiche persistono per un periodo prolungato (Pérez-Pereira, 1994), costituendo una strategia cognitiva davvero efficacie mediante cui i ciechi tentano di sopperire all’isolamento causato dalla perdita di feedback

non verbali (per esempio incontro di sguardi, sorrisi, ecc.). Di conseguenza, lo scopo principale è quello di promuovere e supportare l’inizio di una serie di sequenze interattive, così come di creare, tramite il canale acustico, un’interazione più attiva con l’interlocutore. Ci sono buone ragioni per credere, allora, che il linguaggio costituisca un tipo di esperienza particolarmente rilevante, più di quanto accada alle persone vedenti le quali invece possono fare affidamento sulle risorse visive.

I non vedenti si concentrano in modo prevalente sulle proprietà formali del linguaggio, memorizzano scrupolosamente tutte le strutture che lo caratterizzano e riproducono esattamente i costrutti ascoltati da altri partner comunicativi imparando a parlare. In questo processo utilizzano meccanismi congeniali alle loro capacità: sfruttano gli input verbali per potenziare le loro competenze lessicali e, nel contempo, ampliano notevolmente il loro bagaglio percettivo-rappresentativo. Diversi ricercatori hanno riportato dati davvero interessanti al riguardo, constatando che i bambini ciechi dopo i tre anni esibiscono un netto incremento nell’uso delle domande (Pèrez-Pereira & Castro, 1997; Taddei, 2004), e tale ricorso avrebbe varie finalità, tra cui:

• raccogliere informazioni sull’ambiente esterno, • mantenere il contatto sociale,

• valutare l’attenzione dell’ascoltatore,

• instaurare un turn-taking per avere maggiore controllo conversazionale.

Tutti questi elementi presi insieme ─ seppur implicitamente ─ sarebbero correlati al bisogno di “vedere” e scoprire ogni aspetto della realtà mediante altre modalità. Pertanto, in assenza di preziosi elementi visivi, l’esibizione di certi atteggiamenti può essere, in qualche misura, compensativa, e mostrare persino la sua funzione mediatrice. Il preponderante ricorso al linguaggio può essere considerato come uno dei percorsi o delle strategie alternative usate per costruirsi una conoscenza del mondo, così come un modo per poter instaurare delle relazioni interpersonali significative.

Si individua un pattern di sviluppo leggermente diverso tra vedenti e non vedenti. In particolare, nel primo caso si riscontra che l’uso delle domande diminuisce con l’età, mentre nel secondo caso si assiste a un andamento contrario. E comunque, laddove risulta prevalente l’uso di domande anche per il gruppo dei vedenti, spesso si tratta di un altro tipo di domande (a volte di tipo retorico), non sempre orientate ad attingere informazioni, bensì instaurare esclusivamente rapporti di tipo sociale.

Da uno studio globale se ne deduce che le finalità con le quali il linguaggio viene adoperato sono in un certo senso differenti, poiché i soggetti con deprivazione visiva usano il linguaggio per:

• fare affermazioni, • porre domande, • avanzare richieste.

Più in generale, si dice che fanno un generoso uso di routine verbali (o linguaggio stereotipato), per partecipare in modo più attivo al mondo dei vedenti. Esibiscono ripetute vocalizzazioni con finalità prevalentemente pragmatiche (Casby, 1986):

 attirare e mantenere maggiormente l’attenzione dell’ascoltatore;  dare inizio ad attività condivise o a giochi sociali;

 verificare la presenza delle persone nelle immediate vicinanze;  ricevere una sensazione di sicurezza personale.

Nei bambini vedenti le attività appena menzionate vengono mediate da altre forme di comunicazione (come contatto oculare, sguardo, sorriso), e da una serie di gesti “convenzionali” impiegati per concedere e attirare l’attenzione (come indicare, offrire e

mostrare). Ciò significa che avendo a disposizione l’informazione visiva, gli atti

linguistici assumono un ruolo per così dire secondario, e comunque non hanno una funzione esattamente “adattativa”. Il più delle volte sono totalmente privi di forza

illocutoria e mancano di tutte quelle funzioni necessarie per il mantenimento di una

conversazione (Dunlea, 1989). In seguito a queste considerazioni, dunque, risulta più chiaro il motivo per cui i ciechi mostrano un particolare interesse verso gli altri: cogliere informazioni utili riguardo a ciò che accade attorno a sé. Di contro, nel caso in cui il canale visivo risulta intatto, l’esplorazione può avvenire per lo più in maniera autonoma, e ad ogni modo verificarsi anche in una serie di circostanze casuali in cui è la vista che fa da supporto.

Come si può intuire dalle varie argomentazioni sostenute, la mancanza di input visivi influenza in modo del tutto peculiare le funzioni linguistiche, specialmente in età precoce. In fase adulta, invece, le discrepanze iniziali nell’uso del linguaggio vengono superate e i due gruppi (vedenti e non vedenti) tendono ad eguagliarsi. Tuttavia, non bisogna dimenticare che il linguaggio formulario — seppur con modalità, finalità e frequenze differenti — costituisce per tutti i bambini una tappa fondamentale nei processi acquisitivi, anche se per i bambini non vedenti l’uso di ripetizioni, imitazioni, e domande è maggiormente prevalente.

Secondo molti studiosi essi tendono ad avvalersi di parecchie formule quando parlano (Dunlea, 1989; Pèrez-Pereira, 1994; Pèrez-Pereira & Castro, 1992, 1997; Peters, 1987, 1994; Urwin, 1978). Questo accade soprattutto quando si trovano di fronte a specifiche situazioni per loro ancora estranee. In tali condizioni, tendono a riprodurre tutte quelle frasi e quei discorsi sentiti pronunciare da altri, spesso riportano esattamente anche lo stesso tono di voce udito:

• per richiamare l’interesse dell’interlocutore, (per stabilire cioè un setting di attenzione condivisa),

• per evitare l’isolamento causato dalla perdita della vista e quindi partecipare attivamente al variegato mondo linguistico in cui sono immersi.

Un po’ come accade a noi quando ci accingiamo per la prima volta a parlare una lingua straniera di cui non conosciamo a pieno gli usi e le funzioni. In queste situazioni ricorriamo costantemente alle cosiddette “frasi fatte”, quelle frasi già costruite e combinate, adottate per facilitare la comunicazione e a lungo andare anche i processi di decontestualizzazione. In altre parole, quando ricorriamo ripetutamente a certe frasi, impariamo gradualmente a generalizzare. Per i non vedenti le routine verbali rappresentano un ottimo ausilio per estrarre informazioni grammaticali, nonché per analizzare ed elaborare le singole componenti impresse in memoria.

Come suggeriscono gli studi di Pérez-Pereira (1994, 2002), durante gli scambi comunicativi i bambini non vedenti all’età di tre anni e mezzo cominciano a produrre strutture linguistiche sempre più complesse dando prova di quanto sia fondamentale imitare. L’uso più intenso e prolungato di stereotipie verbali porterebbe il bambino cieco ad analizzare e a riflettere maggiormente le strutture linguistiche. Questo vuol dire che il bambino grazie all’imitazione acquisisce il linguaggio e addirittura (ad un certo stadio dello sviluppo) il suo vocabolario inizia a superare quello di un vedente. Pertanto, si potrebbe avanzare l’ipotesi secondo la quale in seguito al frequente uso di stereotipie motorie (in una prima fase) e di ecolalie e routine verbali (in una seconda fase), i non vedenti in età adulta sono in grado di manifestare una sorprendente iperproduzione sintattica e semantica. Non è un caso infatti che essi, in primo luogo, conoscano e comunichino attraverso un’intensa attività motorio-gestuale e, in secondo luogo, riproducano esattamente frasi e costrutti ascoltati in specifiche circostanze, per partecipare in modo più dinamico al mondo dei vedenti. In questa fase il linguaggio comincia ad assumere un significato fortemente adattativo e si rivela sempre più essenziale man mano

che crescono, diventando la modalità cognitiva per eccellenza grazie alla quale i ciechi conoscono, categorizzano e rappresentano la realtà esterna.

Riassumendo, le routine verbali hanno numerose e importanti funzioni:  stabilire un contatto con gli altri;

 partecipare alle normali routine interattive (alternanza dei turni);  dare inizio ad attività condivise e giochi verbali;

 analizzare ed elaborare le strutture linguistiche.

In accordo agli studi citati, infine, si può affermare che la capacità di ritenere lunghe unità linguistiche, con la conseguente analisi mediata dal gioco ecolalico, fanno parte di un normale processo di maturazione, per mezzo del quale i soggetti con cecità congenita sviluppano delle ottime abilità linguistiche. E questo sembra per di più logico se si pensa che il linguaggio (come abbiamo visto) rappresenta un canale di esperienze assai rilevante (Marotta et al., 2013), capace di “superare” i problemi relativi alla condizione di ridotta acuità visiva.