• Non ci sono risultati.

Dove altro se non sei nostri punti comuni possiamo trovare un tale specchio? Qui, insieme, un uomo può apparire chiaramente a sé stesso non come il gigante dei suoi sogni o il nano delle

~ 112 ~

sue paure, ma come un uomo, parte della comunità, con il suo ruolo da svolgere. In questo terreno possiamo mettere radici e crescere non più soli come nella morte ma vivi: un uomo tra

uomini.

Queste ultime righe sono la chiave della filosofia, ciò che rende la comunità una comunità. Trovare uno specchio l'uno nell'altro, acquisire un ruolo nella vita quotidiana della struttura, e ancora di più «mettere radici». La vita del tossicodipendente non è soltanto una vita di irresponsabilità, di soluzioni facili e rifiuto delle conseguenze; è anche una vita di progressivo isolamento, di allontanamento dagli affetti, di disgregazione delle reti relazionali. Quella «incapacità di sentire» di cui mi avevano parlato Stephen e molti altri utenti si manifesta anche in un'incapacità di stare insieme agli altri. E anche in questo caso il tempo in comunità è pensato per costringere alla condivisione, alla cooperazione, al confronto. Soltanto i colloqui sono tenuti individualmente; tutto il resto deve essere fatto «insieme». Ma «insieme» non significa senza interventi regolativi dell'équipe; anzi, è forse nella gestione delle relazioni fra utenti che ci sono le ingerenze maggiori.

Il primo e più ovvio spazio di «insieme» sono le attività di gruppo. Ho già detto di come siano dei momenti altamente codificati, per i quali esistono delle regole, delle scansioni temporali e pratiche molto precise. Ma, al di là di queste, i gruppi sono pensati come un momento di confronto fra utenti, con l'operatore di turno a svolgere una funzione «di regia» [Goffman 1969], ma cercando di intervenire attivamente il meno possibile. Naturalmente, la concreta realizzazione di ciascun gruppo è variabile, in parte secondo le contingenze del momento, in parte secondo lo 'stile' dell'operatore di turno. Ma l'ideale dovrebbe essere quello di limitare il ruolo di quest'ultimo alla 'moderazione', mentre gli utenti conducono il gruppo in relativa autonomia. Sono loro, in fondo, che condividono non soltanto l'intimità degli spazi della struttura, ma anche delle loro esperienze di vita. Che possono capirsi l'un l'altro.

Marguerite, la consulente psicologa, era quella che più coerentemente faceva lo sforzo di facilitare confronto e comprensione fra utenti. In numerose occasioni, all'inizio del suo gruppo, li ha suddivisi in coppie, affinché tutti fossero costretti a partecipare attivamente, ma anche per creare un'atmosfera di maggiore intimità, per incoraggiare all'apertura anche i più restii. Era una tattica molto impopolare, e in alcuni casi creava delle coppie non molto bilanciate, in cui uno dei due membri parlava molto più dell'altro; ma aveva anche in genere maggiore successo di quanto non ci si potesse aspettare. Durante uno di questi gruppi, persino Chuck, sempre molto restio a parlare di sé, si trovò ad essere sorprendentemente loquace. Marguerite aveva chieso agli utenti di assumere l'uno il ruolo del terapeuta, l'altro il ruolo del paziente, e poi di invertirsi dopo una decina di minuti. Chuck si era trovato con Magda, con la quale non aveva grande confidenza né tantomeno affinità. E la stessa Magda, che invece era sempre molto disponibile a stare alle regole del gioco, quella mattina era oppositiva. Ma entrambi fecero lo sforzo di provare, e alla fine portarono a termine con notevole successo questo 'esercizio'. «Ho parlato io per primo», disse Chuck, quando arrivò il momento di rendere conto a tutto il gruppo del lavoro fatto a coppie. «Magda mi ha ascoltato, era molto attenta. Ho parlato più del previsto, mi sono trovato stranamente a mio agio». «Io non avevo intenzione di parlare, all'inizio», gli

~ 113 ~

fece eco Magda, «ma alla fine l'ho fatto anch'io, più di quanto non mi aspettavo. Dopo aver sentito Chuck, mi sono sentita molto a mio agio anch'io». Non era tutto positivo: condividere le proprie storie, le proprie difficoltà, le proprie paure non è mai una cosa semplice o emotivamente neutra. «Non credo che farò mai più una cosa del genere», affermò Chuck. «Mi sono vergognato troppo a raccontare del mio passato, a ripensare ai miei errori. Non sono cose che voglio tirare fuori». Nonostante la reticenza, non fu l'ultima volta che Chuck si confrontò in gruppo. Nonostante la reticenza, tutti hanno qualcosa da dire, e spesso da dirsi l'un l'altro.

In un'altra occasione, Marguerite fu ancora più esplicita nel lasciare la libertà di 'condurre' il gruppo agli utenti. Il suo gruppo emozioni era sempre di venerdì mattina, e quando capitava dopo una delle due serate mensili con i familiari era difficile parlare d'altro. Un venerdì mattina di fine luglio, Marguerite si trovò di fronte proprio alla necessità di discutere della sera prima, anche perché a richiedere questa discussione era Bret, e a lui era impossibile dire di no. Aveva avuto qualche tensione con i genitori, e non riusciva a spiegarsene il motivo. «Mi si è rotta questa croce», disse, mostrando un pendente rotto al gruppo, «e avevo chiesto a mia madre di portarmi quella che ho a casa la prossima volta che viene. Oppure di comprarmene una nuova. Con i miei soldi, ovvio. Ma lei si è arrabbiata, e non capisco perché». Parte della doppia diagnosi di Bret era un disturbo ossessivo che lo portava ad accumulare compulsivamente oggetti, di qualsiasi tipo essi fossero. Anche cose prive di qualsiasi valore d'uso, come penne esaurite o batterie scariche, non sfuggivano ai suoi tentativi di accumulo. Un disturbo, questo, che preoccupava i suoi genitori ancora di più dati numerosi furti e rapine che Bret aveva commesso sin dalla tarda adolescenza, e che lo avevano portato prima in carcere e poi a Lucerna. Per questo si trovavano sempre in situazioni di imbarazzo quando Bret chiedeva loro di portare o comprare qualcosa; per questo, Jane aveva energicamente chiesto loro di rispondere negativamente, a meno che non fosse qualcosa di fondamentale per la prosecuzione del percorso di Bret in comunità. Ma Bret non sapeva niente di tutto questo, di nuovo sotto suggerimento di Jane. Dunque, si aspettava una risposta positiva, senza inconrtare alcuna resistenza. E quando i genitori se ne andarono con un «no» privo di ulteriori spiegazioni, rimase confuso e interdetto. Casualmente, accompagnai io i suoi genitori al cancello quella sera. E vidi lo smarrimento di Bret, insieme alla sua delusione, dipinti sul suo volto, mentre la madre e il padre si allontanavano.

Invece che limitarsi a parlarne, Marguerite decise di «mettere in scena» questo momento della serata precedente. Christiane avrebbe recitato la parte della madre, Carlos49 la parte del padre, Magda

49 Ivo era un tossicodipendente di lunga data, che aveva passato molto tempo in tutte le comunità della zona,

uscendo e rientrando ripetutamente negli anni. Nel periodo della mia ricera, rimase a Nocchi soltanto qualche settimana – in quel momento era in un'altra comunità gestita dalla stessa associazione, ed era stato mandato a Nocchi in «riflessione», ovvero era stato allontanato per un breve periodo dalla sua struttura per un incidente che aveva reso la sua presenza temporaneamente indesiderata o 'pericolosa'. La «riflessione» doveva essere un momento in cui, per l'appunto, «riflettere» sugli errori commessi in comunità, senza però essere costretti ad abbandonarla. Nei mesi che passai a Nocchi, soltanto in un altro caso arrivò un utente da un'altra comunità (dalla stessa dalla quale proveniva Ivo); in entrambi i casi, la permanenza fu molto ridotta. «La chiamano riflessione, ma è solo un modo per calmare un attimo le acque, prima che qualcuno arrivi alle mani», mi disse Jane all'arrivo di Ivo, con tono infastidito. Non credeva molto in questo strumento.

~ 114 ~

quella di Bret. Quest'ultimo, dopo aver fornito la traccia su cui costruire la scena, sarebbe dovuto rimanere momentaneamente in disparte, e «riflettere su quello che senti guardandola dall'esterno», lo istruì Marguerite. In parte, non c'è dubbio, fu un momento di divertissement, in cui i tre attori, Magda in particolare, offrirono una rappresentazione quasi caricaturale dei tre personaggi. Ma tale rappresentazione ebbe qualche effetto su Bret, e non soltanto di divertimento. Si stupì nell'essere molto colpito dall'efficacia della scena nel far emergere il momento di tensione. Il padre che cercava in tutti i modi di accontentarlo, o almeno di attenuare l'effetto emotivo del rifiuto; la madre che si sforzava di essere quanto più rigida possibile, cercando di mantenere il controllo non soltanto di Bret ma anche del padre; e infine lui stesso, che nella sua insistenza a chiedere, chiedere, chiedere, aveva messo i genitori in difficoltà, in una posizione di dovergli dire di no. Il modo pur caricaturale in cui Magda lo aveva rappresentato era stato un inaspettato risveglio emotivo, e dopo aver cercato di restituire le sue sensazioni al resto del gruppo, Bret rimase qualche secondo in silenzio, quasi stupito dalla sua stessa reazione.

«Tu ti identifichi con tuo padre?», gli chiese Emily. Come Agatha, Emily è una donna di circa sessant'anni la cui vita, e il cui corpo, sono stati profondamente segnati dall'abuso di sostanze, nel caso di quest'ultima l'alcol. Come Agatha, ha un figlio di trent'anni con il quale fatica a mantenere rapporti. Ma, a differenza di Agatha, Emily non parla spesso ai gruppi, non parla molto in generale; e quando interviene lo fa in maniera precisa, tagliente. Questa sua domanda sembrava non avere molto a che fare con la discussione della scena appena rievocata; ma Bret parlava spesso del padre, con toni sempre elogiativi, e nel raccontare la fine di questa scena, la partenza dei genitori, aveva sottolineato che era stata la madre a trascinare il padre via, e che invece quest'ultimo lo avrebbe assecondato. Il tono di risentimento era riservato soltanto alla madre.

A questo punto, Bret iniziò a ripensare la sua rappresentazione degli equilibri della sua famiglia, raccontando che il padre aveva avuto problemi psichiatrici e di gioco d’azzardo, che aveva avuto un crollo nervoso nel 2006 – quando Bret aveva soltanto 11 anni –, che tutti, compresa la madre, «avevano paura di lui». Tutti, tranne Bret. «Io ho sempre pensato di voler fare quello che faceva mio padre, perché se lo faceva lui voleva dire che era qualcosa di buono. Non ho mai avuto paura di lui. Mai». Per questo, concluse, provava dei sentimenti negativi nei confronti della madre. Per questo sentiva che il tono di sufficienza e malcelata sopportazione che a volte la madre usava con lui era lo stesso che utilizzava con suo padre. Si sentiva vittima dello stesso ‘timore’, che per lui era assolutamente ingiustificato.

«Funzionano meglio quando sono soli, vero?», mi sussurrò Marguerite. In quel momento, mi accorsi che lei non era intervenuta più, da quando aveva chiesto a Bret di parlare della sua reazione alla scena. Era stato un dialogo fra Bret e Emily, con qualche intervento di Christiane. «No, soli forse non va bene.

Liberi».

C’è un altro gruppo che lascia «liberi» gli utenti di dettare il ritmo della discussione. È un gruppo irregolare e infrequente, per la sua stessa natura, ma sicuramente fra i più significativi e interessanti per comprendere gli equilibri della «condivisione della riabilitazione». «Psicoritratto», si chiama. È condotto sempre da Jane, e tenuto a intervalli lunghi, per lasciare a ciascun gruppo di utenti il tempo di

~ 115 ~

conoscersi non solo nelle attività collettive ma anche nella quotidianità. È strutturato in tre parti. Nella prima, dopo aver scelto la persona che «lavora su di sé» per il gruppo in questione, tutti gli altri hanno dieci minuti di tempo per cercare nelle riviste che vengono messe a disposizione (e che sono accumulate a questo scopo) tre immagini che rappresentino qualcosa di questa persona, e poi affiggerle a una lavagna. La seconda parte vede ciascuno spiegare le proprie scelte, cosa rappresentano e perché sono state fatte. Infine, il/la protagonista le commenta e le discute, con l’obiettivo di capire quale sia la percezione che gli altri hanno di lui/lei.

Di nuovo, non è un gruppo particolarmente popolare, in parte perché costringe una persona alla volta a stare «alla berlina», in parte perché obbliga tutti gli altri a partecipare attivamente, a dire qualcosa. Ma è sicuramente un gruppo che fa emergere tutte le discrepanze fra percezione di sé e immagine che proiettiamo verso gli altri. Il primo gruppo psicoritratto a cui partecipai aveva come protagonista Goliarda. Una protagonista inusuale – aveva già passato molto tempo a Lucerna, su più di un programma riabilitativo, e per questo non amava parlare durante i gruppi. «Sono cose che ho già sentito mille volte, sempre i soliti discorsi. E li dovrò sentire altre mille volte», perché aveva una pena alternativa da scontare in comunità. E in generale non è una persona molto loquace, né partecipa spesso ai momenti di socialità «marginale» rispetto alle attività collettive quotidiane. Ma il risultato del gruppo fu ugualmente molto significativo.

Alla fine, è uscito un quadro abbastanza rappresentativo di Goliarda, almeno per come me la sono sempre descritta qui dentro. Impaurita dal mondo, oscillante fra una tranquillità che rapidamente sfocia nella pigrizia, nell'immobilismo e nell'abbandono agli altri, alle «responsabilità» dei professionisti che le stanno intorno, e il timore di essere a sua volta abbandonata dai suoi servizi di riferimento, che immagina come sua unica ancora di salvezza. Lei non ha accettato molto questa immagine, perché non si sente così immobile e passiva, ma poi ci è tornata sopra diverse volte. Il fatto di non sapersi gestire in autonomia, il fatto di non avere esperienza in tutte quelle minuzie della quotidianità. «lo non so fare la spesa, fare la fila dal medico, pagare le bollette. Non l'ho mai fatto». Non ha mai vissuto quella vita ‘normale’ alla quale dovrebbe tornare attraverso la riabilitazione. Per un periodo senza casa, poi dentro e fuori dal carcere, anche due mesi in isolamento, e quando ha scontato la sua pena e se n'è andata, subito è ricaduta. «Visto che allora questo cartellone era azzeccato? È stato probabilmente il più interessante», le ha detto Jane. Però è difficile da parte dell'esaminando riuscire ad accettare tutto quello che viene detto. E infatti un po' Goliarda si è piccata, a sentirsi descrivere come una «che si lascia trascinare dalla marea». «A noi ci serve per capire quanto vi conoscete, e quanto uno è capace di accogliere le critiche degli altri. Se non siete in grado di farlo, lo chiudiamo», ha commentato nuovamente Jane, infastidita dalle sue reazioni a queste rappresentazioni. Agatha le ha fatto eco: «A me hanno detto che ho la pancia. Insomma, bisogna accettare le cose che ci vengono dette».50

~ 116 ~

Lo psicoritratto è forse ciò che meglio rappresenta la filosofia della «comunità che cura». È pensato per essere uno spazio di condivisione fra utenti, al di là di qualsiasi contingenza che possa spingere verso un maggiore o minore intervento dell’operatore di turno. È pensato per lasciare campo libero alle rappresentazioni che gli utenti danno di sé e degli altri, per costringere anche i più restii a mettersi in gioco. Il caso di Goliarda è particolarmente emblematico proprio per questo motivo: mi diceva spesso di sentirsi «parcheggiata» in comunità, soltanto perché in attesa di finire di scontare la sua pena e di trovare una struttura nella quale poter passare il resto della sua vita, ma sentirlo dire dagli altri, sentirsi descrivere come una persona passiva, timorosa e abbandonata all’azione altrui è stato ugualmente difficile e doloroso. Forse anche in questo caso possiamo fare riferimento a un tipo di esercizio spirituale, quello del dialogo socratico [Hadot 1988], un dialogo in cui nessuno degli interlocutori impara o insegna nulla, ma in cui è possibile approfondire la conoscenza di sé. «Il tema del dialogo dunque conta meno del metodo che vi è applicato, la soluzione del problema vale meno del cammino percorso in comune per risolverlo» [ivi, 51], sostiene Hadot. E lo psicoritratto si fonda su premesse simili. Non serve per «imparare a vivere», come molti degli altri esercizi della comunità; serve per intervenire sull’altra parte dell’equazione, quel «conosci te stesso» che fa da complemento al «prenditi cura di te stesso». Produce un oggetto concreto, il «cartellone» con tutte le immagini attaccate, che costituisce una sorta di summa del modo di essere-con di ciascuno, di ciò che ciascuno trasmette nelle relazioni che costruisce all’interno della comunit{. A partire da questo oggetto, da questa «materializzazione» delle rappresentazioni che gli altri hanno di noi, e dalle inevitabili discrepanze con la percezione del nostro Sé, è possibile cercare di raggiungere una sintesi. È possibile accogliere critiche e domande per chiedersi l’effetto che abbiamo sugli altri, o anche semplicemente per posizionarsi in quella seconda-persona che decentra la soggettività e presta invece attenzione alla relazione.

Webb Keane, attraverso le lezioni del sociologo e linguista americano Harvey Sacks, riflette proprio su questo posizionamento, e sul fatto che «rendere conto di sé stessi» non è una cosa che avviene spontaneamente, ma «è istigata» da qualcun altro. Più precisamente, è una riflessione e una pratica istigata dalla consapevolezza di essere «osservabile» [Keane 2015, 141]. Sacks definisce l’essere «un osservabile» come «avere, ed essere consapevoli di avere, un’apparenza che permette delle ragionevoli inferenze sul proprio carattere morale» [Sacks 1972, 281]. Significa trovarsi in mezzo a persone che formulano su di noi dei giudizi, e di fronte alle quali sentiamo di doverci presentare come soggetti morali. Di dover «verbalizzare» il nostro carattere e le nostre scelte. Nello psicoritratto, gli utenti della comunità si trovano di fronte a questo arduo compito. O meglio, sono «gettati» di fronte a questo arduo compito. Di fronte ad un oggetto che rappresenta la loro «osservabilità», i giudizi che gli altri hanno formulato sul carattere morale di ciascuno. Ma qui entra in gioco un’altra componente, che in Das non è enfatizzata e che invece ci riporta nuovamente al dialogo socratico di Hadot: la disponibilità

a partecipare. «[Il] dialogo non è possibile che se l’interlocutore vuole veramente dialogare» [Hadot

1988, 52], e così anche il processo di conoscenza di sé che è «istigato» dallo psicoritratto. La

responsabilità di tutto rimane sulle spalle di chi sta intraprendendo il percorso di riabilitazione. «Se

~ 117 ~

Al di là dei gruppi, delle attività collettive strutturate, è la stessa condivisione della quotidianità a costituire una parte di quel processo di «imparare a vivere». Forse la parte più consistente, poiché in comunità, gli spazi veramente privati sono ridotti al minimo. Le stanze sono doppie o triple, a seconda del numero di utenti che la comunità ospita in ogni momento (e dell'equilibrio uomini-donne). I «settori» sono sempre coperti da più di una persona, in alcuni casi con un rapporto di «apprendistato» fra quelli che vi sono assegnati. A volte sono necessari interventi 'straordinari' che richiedono la partecipazione di tutti (o quasi) gli utenti, come la sistemazione della legna, o il controllo degli ortaggi e della verdura che a volte sono donate alla comunità. E anche le comuni attività lavorative implicano sempre un certo grado di collaborazione. E poi ovviamente ci sono i pasti, le merende, i momenti di pausa e di inerzia. La villa non è particolarmente grande, e 14 persone fanno presto ad occupare tutti gli spazi disponibili. Anche se qualcuno vuole stare da solo, è spesso costretto a stare da solo insieme agli altri.

Per i primi giorni della mia presenza in comunità, Jane insisteva molto sull'importanza che io non mi fermassi dentro l'ufficio, che non mi limitassi a partecipare alle attività di gruppo. «Te ne accorgerai subito. Durante i gruppi, sono molto performanti. A volte, ti senti dire delle cose che ti fanno credere di