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28 febbraio 2018. Arrivai, come al solito, la mattina presto. Una mattina a dire la verità ben poco significativa, passata fra la cucina e la dispensa a organizzare il menu della settimana, controllare lo stato delle provviste, capire cosa ordinare. A dire il vero, avevo imparato ad apprezzare il lavoro in cucina: non soltanto mi dava l’impressione di essere concretamente d’aiuto nella quotidianit{ di uno spazio che mi aveva accolto senza remore e senza richiedere niente in cambio, ma avevo sempre piacere a conversare con Magda e Elsa. C’era sempre qualche pettegolezzo, qualche segreto, qualche commento da fare sugli altri utenti. Ed essendo l’ufficio direttamente di fronte alla cucina, era anche semplice tenere sotto controllo i movimenti dell’intera comunità, utenti e operatori, che gravitavano, sempre, attorno a quella piccola e disordinata stanza.

In realt{, qualcosa di diverso c’era: il giorno prima, Ernest si era lamentato con Jane della qualità del vitto, con parole molto forti e sprezzanti. Non era la prima volta. Ma, evidentemente, doveva aver trovato una Jane con l’umore più provocatorio del normale, perché la risposta di quest’ultima è stata di affidare l’incarico di pensare il menu della settimana proprio a Ernest. Il tono di Magda, mentre mi raccontava l’accaduto, era fra il beffardo e il preoccupato: apprezzava il contrappasso, in particolare per uno come Ernest che «non fa altro che lamentarsi»; ma prevedeva anche conflittualità, ansie e costanti revisioni che avrebbero reso il lavoro in cucina più frenetico e più faticoso. Cercai di rassicurarla, promettendo che nei giorni successivi sarei stato anch’io sempre a disposizione in caso si fosse presentata la necessit{, ma proprio in quel momento fummo interrotti dall’ingresso di Ernest, occhiali da lettura e foglio del menu alla mano, che richiedeva le giacenze di frigoriferi e congelatori. Rimasi ancora qualche minuto in cucina, finché Ernest non si rese conto della mia presenza. «Ah, Lorenzo, buongiorno». E mi fece una domanda che mi colse alla sprovvista: «Ma cos’è questa storia che vengono dei volontari a leggere poesie, oggi?»

«Devono venire dei volontari che stanno seguendo un corso che ha organizzato l’amministrazione», fu la spiegazione di Jane. L’associazione che amministra la rete di comunità aveva organizzato un corso di formazione per i suoi volontari, e parte di questo corso avrebbe comportato una visita ad alcune strutture della zona, accompagnati ovviamente da un’educatrice. E le poesie? «Niente poesie. Devono leggere una cosa, un discorso, ma non so di che si tratti». Riferii le informazioni che avevo ottenuto in cucina. E poi di nuovo a merenda. E poi di nuovo a pranzo.

Passammo la prima parte del pomeriggio a preparare la sala TV per l’incontro. Pulire, ordinare, rintracciare sufficienti sedie per le persone in più. Le sedie non bastavano mai, per qualche motivo.

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Jane se n’era andata, ed era arrivata Patricia a sostituirla. Con il tono perentorio che la caratterizza, dava ordini a destra e a sinistra, assegnava compiti, e nel frattempo entrava e usciva dalla cucina, per sovrintendere la preparazione di una macedonia di frutta per la merenda pomeridiana. I volontari arrivarono quando la tavola era già apparecchiata e la maggior parte degli utenti era già seduta, in attesa di essere servita. Tre persone, due ragazze e un ragazzo, a una prima impressione miei coetanei. Si sedettero in fondo al tavolo grande, un po’ distanti dal resto dei loro commensali. Ebbi l’impressione che fossero in difficolt{, insicuri di come comportarsi, come interagire, se attendere di essere interpellati oppure farsi avanti e presentarsi. Alla fine, furono Magda e Ernest a sedersi vicino a loro e cercare di coinvolgerli nella conversazione, almeno per rompere il ghiaccio. Mi accorsi dopo qualche minuto che mi guardavano con aria interrogativa – il mio aspetto, avrei scoperto, li aveva indotti a pensare che fossi anch’io un utente della comunit{, e non si spiegavano come mai fossi stato lasciato a gestire il momento della merenda autonomamente. Da parte mia, non potevo fare a meno di sorridere nel vedere la goffaggine che manifestavano nell’interagire con gli utenti, anche con quelli più aperti e socievoli come Magda. Una goffaggine che mi ricordava la mia, soltanto qualche mese prima. In poco tempo, la mia posizione era cambiata significativamente. Ero stato progressivamente integrato nella quotidianità, riconosciuto come «uno di noi» dagli utenti, «un collega» dagli operatori. E questo creava sempre una divertente confusione agli esterni.

Magda mi chiese di accompagnarla nel tour della casa. Era raggiante all’idea di poter mostrare a dei perfetti sconosciuti ogni angolo di quel luogo che racchiudeva la sua vita, e non mi sarei mai sognato di rifiutare. Questa è la sala TV, dove facciamo anche i gruppi. Le camere al piano di sopra. La mansarda, sempre chiusa a chiave. E di sotto, il laboratorio, la dispensa, la lavanderia, la palestra, la falegnameria. Infine, la stanza fumo.

Ci fermammo lì. Fuori era ancora piuttosto freddo, e come sempre la stanza fumo era affollata. Agatha e Goliarda, sedute una accanto all’altra, fumavano stancamente. Albert e Ernest, appena arrivati, stavano mettendo mano al pacchetto e all’accendino. Magda fece per congedarsi dai volontari, per unirsi agli altri quattro nel concedersi una sigaretta prima del gruppo, ma i tre ragazzi rivelarono di essere anche loro fumatori, e chiesero di rimanere. Io ero sulla soglia, l’unica persona in quella minuscola stanza a non fumare. La cosa non stupiva più gli utenti – ero spesso in stanza fumo, perché quello era l’unico luogo cui gli operatori non si sognavano nemmeno di avvicinarsi, tanto era soffocante l’aria ed elevata la temperatura, anche d’inverno. Ma per i volontari fu ulteriore causa di confusione, e alla fine il ragazzo prese la parola: «Non ho capito di preciso che cosa ci fai qui». Mi aspettavo questa domanda, ma non potei comunque evitare di lasciarmi scappare una risata. Prima che potessi ripetere, per l’ennesima volta, il discorso che mi ero preparato sull’antropologia e la ricerca etnografica, intervenne Ernest. «Lorenzo ci studia. Siamo i suoi topolini». Rimasi un attimo interdetto. Non ero sicuro del significato di quelle parole. Era fastidio? Orgoglio? «Sta sempre qui», proseguì. «Ce lo invidiano tutti, ma noi ce lo teniamo stretto», seguito da un sorriso un po’ imbarazzato, sia da parte sua che da parte mia. Cercai di spiegare un po’ il senso della mia ricerca, ma fui rapidamente e fortunatamente sollevato da questa responsabilità dalla voce di Patricia, che dal piano di sopra ci

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chiamava per iniziare il gruppo. Nuovamente, l’attenzione si allontanava dalla mia persona. Ci sedemmo in cerchio, come a ogni gruppo. L’educatrice che accompagnava i tre ragazzi prese immediatamente la parola: «Prima di qualsiasi domanda, il nostro mandato di oggi è quello di leggervi una cosa. Dopo possiamo parlare». Una delle ragazze tirò fuori un libro dalla sua borsa. Riuscii a riconoscerlo: Questa è l’acqua, una raccolta di scritti di David Foster Wallace. Si allungò per porgerlo al ragazzo, che lo aprì e iniziò a leggere.

Ci sono due giovani pesci che nuotano uno vicino all’altro e incontrano un pesce piu anziano che, nuotando in direzione opposta, fa loro un cenno di saluto e poi dice «Buongiorno ragazzi. Com’e l’acqua?» I due giovani pesci continuano a nuotare per un po’, e poi uno dei due guarda l’altro e gli chiede: «Ma cosa diavolo e l’acqua?» E una caratteristica comune ai discorsi nelle cerimonie di consegna dei diplomi negli Stati Uniti di presentare delle storielle in forma di piccoli apologhi istruttivi. La storia e forse una delle migliori, tra le meno stupidamente convenzionali nel genere, ma se vi state preoccupando che io pensi di presentarmi qui come il vecchio pesce saggio, spiegando cosa sia l’acqua a voi giovani pesci, beh, vi prego, non fatelo. Non sono il vecchio pesce saggio. Il succo della storia dei pesci e solamente che spesso le piu ovvie e importanti realta sono quelle piu difficili da vedere e di cui parlare. Espresso in linguaggio ordinario, naturalmente diventa subito un banale luogo comune, ma il fatto e che nella trincea quotidiana in cui si svolge l’esistenza degli adulti, i banali luoghi comuni possono essere questioni di vita o di morte (...). [Wallace 2009]

Lo scritto eponimo di Questa è l’acqua è un discorso che Wallace tenne di fronte ad un gruppo di giovani laureati del Kenyon College, nel 2005. Un discorso accorato, fortemente immerso nel moralismo anti-moderno che caratterizza numerosi degli scritti dell’autore americano. Un discorso di forte disgusto ma anche di grandi speranze. Un discorso che, in quel momento, era letto in maniera lenta, stentata, piatta e inespressiva. Mi guardai intorno: erano pochi a cercare di seguire. Agatha, Jorge e Hunter stavano dormendo. Chuck, Stephen e Albert si guardavano l’un l’altro, con espressione interrogativa. Gli altri, chi più chi meno, sembravano distratti e disinteressati. La lettura andò avanti per oltre quindici minuti.

E straordinariamente difficile da fare, rimanere coscienti e consapevoli nel mondo adulto, in ogni momento. Questo vuol dire che anche un altro dei grandi luoghi comuni finisce per rivelarsi vero: la vostra educazione e realmente un lavoro che dura tutta la vita. E comincia ora. [ibidem]

Dopo la lettura, il ragazzo si avventurò in un tentativo di analisi del testo. Il punto fondamentale del discorso, sostenne, è la difficoltà ma allo stesso tempo la necessità di non «vivere con il pilota automatico», di imparare a decentrare lo sguardo, non porci sempre al centro dell’universo ma prestare anche attenzione agli altri. Sforzarsi di problematizzare il mondo che ci circonda, anche e

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soprattutto ciò che ci appare più normale e naturale. Era molto incerto nell’offrire questa spiegazione, e non mi stupì apprendere che non conosceva il testo, e che «ce lo siamo fatto spiegare quando ce lo hanno dato da leggere».

L’esegesi di Wallace fu seguita da qualche attimo di assoluto silenzio, rotto soltanto dal respiro pesante di Hunter. Il volontario lettore prese nuovamente la parola. «Ma vorremmo sapere qualcosa da voi. Cosa fate qui, come vivete la comunità, come passate le giornate». Agatha fu la prima a rispondersi, lanciandosi in una puntuale descrizione dell’organizzazione della quotidianit{. Dalla sveglia alla cena, passando per ciascuna delle fasi della giornata: gruppi, attività lavorative, responsabilità. Un accurato elenco di tutto ciò che concretamente significa stare in comunità. Ernest si intromise, con impazienza, per rettificare. «La nostra vita qui non è soltanto settori e gruppi. Non è fatta solo di responsabilità e attività lavorative. È un costante lavoro su noi stessi. È un venire a patti con quello che siamo per poter cambiare, per poter migliorare. Significa creare dei nuovi rapporti, delle amicizie, con persone che sanno cosa hai passato». Magda gli fece eco: «Qui devi imparare tutto da capo. Quando arrivi non capisci niente, spesso non sai fare niente, e la convivenza non è facile. Non è facile dover condividere ogni momento della tua giornata con qualcuno, non avere mai uno spazio veramente privato. È frustrante e spesso si creano conflitti. Ma lo facciamo per noi stessi. Imparare a vivere qui dentro fa parte del lavoro su noi stessi». Di nuovo, Ernest: «Se, una volta uscito di qui, mi chiederanno dove sono stato in questi due anni, risponderò che sono stato a Lucerna. Un paesino di campagna, un po’ sperduto, di 450 metri quadri e 13 abitanti».

In numerose occasioni ho sentito descrivere la comunità come uno spazio liminale [Turner 1986], uno spazio intermedio in cui le regole del mondo esterno sono temporaneamente sospese, e in cui i soggetti diventano momentaneamente altro da sé, per poi tornare nel mondo trasformati. La riabilitazione può, in effetti, avere l’aspetto di un rito di passaggio, anche se sarebbe difficile sostenere che essa abbia la stessa posizione all’interno del più vasto contesto sociale in cui si inserisce dei rituali di cui parlavano Arnold Van Gennep o più tardi Victor Turner. Utilizzando la terminologia turneriana, possiamo forse sostenere che la tossicodipendenza sia piuttosto un’esperienza liminoide, in cui ci si allontana dall’ordine sociale – quella che Turner chiama la struttura – e lo si sospende, senza che tuttavia ci sia una reintegrazione che prevede una trasformazione o un avanzamento. Il liminoide è una «sospensione» dell’antistruttura, una chiusura di uno spazio simbolico marginale che diventa un rifugio da (e, potenzialmente, una critica a) la struttura sociale.

Ma fra liminale e liminoide c’è compenetrazione e non necessariamente separazione. Turner, ad esempio, nota che

Vi sono anche spazi e contesti 'liminoidi' permanenti: i bar, i pub, certi caffé, i circoli sociali ecc. Ma quando i circoli diventano esclusivi, tendono a produrre dei riti di passaggio, sicché il

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Nel caso della riabilitazione in una struttura sanitaria, avviene il contrario. Un’esperienza che possiamo considerare liminoide, ma che progressivamente è sempre più incapace di reintegrarsi all’interno della struttura sociale, che viene forzosamente spostata in uno spazio liminale, in cui possa avvenire quella trasformazione che prelude alla reintegrazione.

Non sono categorie, quelle di liminale/liminoide, che funzionano perfettamente per la tossicodipendenza e la riabilitazione. In particolare, perché i primi due termini hanno delle componenti di obbligatorietà e volontarismo, rispettivamente, che nel caso degli altri due non sono del tutto adatti a restituirne la realtà sociale. Le esperienze liminoidi, associate come sono principalmente all’universo dello svago e del tempo libero, hanno per Turner una componente di volontariet{ che è difficile applicare acriticamente all’uso di sostanze, come abbiamo visto nel capitolo precedente. Specularmente, il momento liminale segna solitamente dei passaggi sociali fortemente sanzionati, cosa che non si può dire con la medesima convinzione della riabilitazione: nel caso di quest’ultima, la sanzione ha un aspetto radicalmente diverso, e spesso permane nella forma di stigma [cfr. Goffman 1963] anche una volta usciti dallo spazio ‘liminale’ della riabilitazione stessa.

Dove tuttavia il concetto di liminalità ci aiuta a comprendere la particolare situazione di chi sta in una comunità riabilitativa è nella sua dimensione di separazione dal mondo. «Il periodo liminale è quel luogo spaziotemporale situato in una posizione intermedia fra due contesti di significato e di azione», afferma Turner [1986, 200], quel momento in cui «l'iniziando non è più quello che era e non è ancora quello che sar{». È «un’introduzione e un esame per l’esistenza morale», e anche se in questo caso «morale» non ha certamente la stessa accezione che ha nell’antropologia morale, è un punto di contatto significativo che non dobbiamo trascurare. Nello spazio liminale il soggetto sospende la sua identità e la sua posizione sociali per trasformarle. Mutuando la distinzione da autori Kenelm Burridge, Turner riflette sulla differenza fra «individuo» e «persona». Quest’ultimo termine rappresenta il ruolo sociale che ci troviamo a ricoprire, è un termine ‘generico’ il cui significato si ricalca su quello delle personae latine; l’individuo invece indica la singolarit{ e l’unicit{ di ciascun soggetto. Ma non solo: se la «persona» si accontenta di riprodurre l’ordine sociale per com’è, l’individuo invece si pone «un insieme alternativo di discriminanti morali» [citato in ibidem]. Ancora più importante, quando il soggetto è spogliato del suo essere «persona» e diventa individuo all’interno dello spazio liminale, è in grado di formare una vera e propria communitas, «dove gli esseri umani, spogliati dei loro ruoli, status, relazioni di appartenenza e codici morali, sono in comunione come soggetti umani» [citato in ivi, 201]. Anche in questo senso, il liminale è antistrutturale, si pone in un’opposizione antitetica rispetto all’ordine sociale, anche critica; ma sempre con l’obiettivo di tornare indietro, di tornare alla struttura. Per questo Turner chiama il liminale il «doppio» della vita quotidiana, dell’ordine sociale, perché ne è tanto decostruzione quanto ricostruzione, e la seconda è conseguente alla prima.

Sarà a questo punto più chiaro perché ritengo il concetto di liminale utile per comprendere la riabilitazione in comunit{. Essa ha pienamente l’aspetto antistrutturale, nello stesso senso del rito di Turner. È uno spazio separato con le proprie regole, in cui il ruolo e la posizione di ciascuno, la sua «persona», viene meno. Soprattutto, è un luogo che idealmente dovrebbe facilitare la costruzione di

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relazioni fra «soggetti umani», o, per utilizzare le parole della filosofia di Lucerna, «un uomo tra uomini». E se la componente di separazione e di trasformazione è sicuramente fondamentale, quella relazionale lo è altrettanto, perché consente di far emergere la specificità di ciascun soggetto, il suo essere «individuo» nel senso turneriano, senza isolarlo dal suo contesto, ma attraverso l’immersione in un altro contesto, in cui l’essere individuo è la cosa più importante. Vorrei perciò esplorare questa dimensione della riabilitazione, quella più strettamente relazionale, ma anche quella che ha a che fare con gli individui che si pongono «un insieme alternativo di discriminanti morali»; e come essa contribuisce non solo al ripensamento della propria soggettività, ma alla definizione del significato della riabilitazione stessa. E il punto migliore dal quale cominciare è l’unico vero ‘obbligo’ che la comunit{ impone a chi la abita: l’obbligo di continuare a vivere.