Un martedì pomeriggio di marzo. Non una giornata qualunque: attendevamo, alle 17, l’arrivo di don Brown, che avrebbe dovuto tenere un gruppo «sulla vita spirituale», per quanto nessuno avesse di preciso capito che cosa, concretamente, il parroco avrebbe detto, di volta in volta. Invitarlo non era stata una decisione dell’équipe della comunit{; al contrario, nemmeno loro sembravano particolarmente entusiasti all’idea. In ufficio, Dacia, in turno, mi lanciò un’occhiata scoraggiata. «Toccano sempre a me, questi incontri». Però, gli utenti sembravano apprezzarli, trovarli interessanti quantomeno. E d’altra parte l’amministrazione aveva gi{ deciso.
L’argomento dell’incontro era la vita comune. O meglio, le diverse forme di condivisione della quotidianità. O meglio ancora, l’assenza di condivisione nella contemporaneit{. Brown offrì una rappresentazione della modernità come progressiva individualizzazione della società, processo che aveva subìto una drastica accelerazione negli ultimi trent’anni. Negli anni Ottanta, era tutto diverso: esistevano più spazi pubblici, ed essi erano effettivamente abitati da persone che volevano stare insieme. Era anche questo lo spirito con il quale aveva pensato di fondare le prime comunità, immaginando che per combattere la tossicodipendenza fosse necessario intervenire alla radice, cercare di cambiare le situazioni di disagio sociale e soprattutto individuale che l’avevano causata. Oggi la situazione è molto cambiata, sostenne Brown. Gli spazi comuni non ci sono più, e quelli che ci sono si sono svuotati. Le persone sono ripiegate su sé stesse, pensano soltanto al proprio interesse, al proprio piccolo, senza preoccuparsi di chi le circonda, senza prestare attenzione agli effetti che le loro azioni hanno sull’altro. In parte è colpa della tecnologia, in parte è una scelta politica. La condivisione, lo stare insieme, sta scomparendo.
«Tutto vero», intervenne Ernest. Lo avevo già sentito parlare, più volte, di un certo disagio nostalgico che provava per la sua gioventù negli anni Ottanta. In quell’occasione, diede una maggiore sistematicità a ciò che in precedenza, almeno nella mia esperienza, erano frammenti di una rappresentazione del mondo ben precisa, che poggiava sullo stesso assunto di partenza di quella di Brown, che la ‘vita comune’ è in via di estinzione. Politicamente, socialmente, persino nelle relazioni più immediate, con amici e famiglia, le persone sono sempre più distanti. Sempre più fredde, sempre più asettiche, sempre più isolate e disinteressate. Ma nella narrazione di Ernest questo cambiamento si intrecciava inestricabilmente con le sue due esperienze di comunità, quella del 2017-2018 e quella degli anni Ottanta, il molto ricordato Progetto Uomo. Perché anche le comunità, affermò Ernest, sono ormai poco più che cliniche. Ci sono i medici, certo, i farmaci. Ma questo ha significato sacrificare quella dimensione di condivisione morale, forse esistenziale che caratterizzava i vecchi percorsi di
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riabilitazione. La terapia farmacologica ha sostituito, o almeno preso il sopravvento su, quella ‘sociale’ che era veramente efficace nel trasformare le persone. Oggi, anche la riabilitazione si fa per lo più da soli.
Qualche momento di silenzio. Nessuno sapeva come rispondere al lungo monologo di Ernest. Brown annuiva, soddisfatto di aver trovato un riscontro immediato alla sua filosofia della storia. «Sa padre», intervenne Eleonora improvvisamente, «noi c’abbiamo anche l’antropologo che ci racconta queste cose», indicandomi. Un momento di panico. «Ah sì?», e Brown si rivolse nella mia direzione. «Tu cosa ne pensi?», le parole che temevo. Perché non potevo che essere in disaccordo su ogni singola parola che avevano detto Brown e Ernest. E, a quel punto, non potevo che controbattere punto per punto, in maniera, retrospettivamente, un po’ troppo combattiva. «A volte è un po’ prolisso», Eleonora giunse alla fine del mio accorato discorso a spezzare la tensione, «ma sa anche essere simpatico». Ritrovai Ernest sulla terrazza, a fumare. «Io lo capisco anche quello che dici», iniziò, quasi a segnalare una tregua retorica. «Lo capisco che ci sono tanti modi di stare insieme, anche oggi. Ma non sono i miei. Non mi appartengono. Non mi ci sento dentro». Si portò la sigaretta alla bocca, ciondolando leggermente, con lo sguardo basso. «Anche la droga è cambiata. L’eroina era un’altra cosa, negli anni Ottanta, era una cosa diversa. Ce la facevamo in maniera diversa. Era una cosa, non lo so, più sociale, più in comune». L’esperienza della dipendenza da eroina, nella sua narrazione, diventava quasi sovrapponibile all’esperienza della riabilitazione del Progetto Uomo, una esperienza di radicale essere-con, che non riguardava soltanto la sua personale traiettoria ma un universo relazionale, sentimentale. «Oggi c’è la cocaina, ed è cambiato tutto. Mi piaceva, eh, siamo chiari. Lo sai che non sono uno di quelli che dice che la droga era brutta anche quando si faceva. Ma è diversa. Mi faceva essere una persona diversa da quella che ero sotto eroina».
«La morale è la capacità di apprezzare le piccole cose», aveva detto Dacia. La vita da tossicodipendente, allora, è per definizione il contrario della morale. È una vita di ricerca costante del piacere, e ancora di più di ricerca di scorciatoie verso il piacere. Ma un piacere che in qualche modo è considerato come illegittimo, come immorale, e così la sua persecuzione. Specularmente, la riabilitazione è un «ritorno alla morale», un ritorno a una vita «retta». Un percorso che il soggetto intraprende per trasformarsi, non solo per «aspirare alle vette», ma più semplicemente per «diventare altro», per poter «essere normale».
Leggendo questo processo alla luce della distinzione che Jarrett Zigon opera fra morale ed etica [2008], possiamo dare una rappresentazione diversa del percorso riabilitativo, ma non radicalmente. In questa prospettiva, la dipendenza attiva è essa stessa una morale, intesa come una modalità di esserci-nel-mondo. È una serie di disposizioni incorporate e non necessariamente riflessive che informano il modo in cui i soggetti agiscono, intessono relazioni, danno significato alle proprie esistenze. Ma è una modalità di esserci-nel-mondo che non è in grado di mantenersi, di conservarsi. E alla situazione di moral breakdown [Zigon 2007] che segue al disfacimento di questo terreno esistenziale, la riabilitazione offre una risposta «etica»: offre la possibilità di «lavorare su di sé», problematizzando e riflettendo sulla propria morale-come-esserci e cercando di trasformarla. In
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questa prospettiva, quella «normalità» che attraverso il lavoro etico i soggetti cercano di raggiungere non è altro che un’altra modalit{ di esserci-nel-mondo irriflessiva e incorporata. Il lavoro di incorporazione è esattamente il lavoro di riabilitazione.
Ci stiamo avvicinando. Ma quello che rimane della rappresentazione della dipendenza offertaci dalla comunità è la suddivisione in momenti discreti della vita delle persone. Il movimento dalla morale all’etica e di nuovo alla morale, un movimento che ha quasi un aspetto «dialettico», e che, rappresentato in questo modo, rischia di cristallizzare non soltanto la nostra comprensione della vita morale dei soggetti, ma anche la caratterizzazione che ne offriamo [cfr. Laidlaw 2014, Keane 2016]. Non è forse possibile rintracciare momenti di breakdown più diffusi, che permeano l’esistenza dei soggetti? Non è forse possibile riconoscere punti di problematizzazione e riflessività al di fuori dello spazio del breakdown? Possiamo trovare anche l’etica, oltre che la morale, nella dipendenza? Questa è l’operazione che vorrei tentare in questa seconda parte. Riesaminare alcuni dei temi salienti della narrazione della dipendenza attiva (e della riabilitazione) utilizzando esplicitamente la lente della riflessivit{. La tossicodipendenza è un’esperienza costitutiva delle soggettivit{ che ho incontrato, ma sicuramente non è inconsapevole, né nel senso della morale-come-esserci di Zigon, né nel senso del discorso egemonico della comunità, per la quale «consapevolezza» afferisce a una specifica rappresentazione dell’uso di sostanze. Ma essa ha un campo semantico molto più ampio. Ed è sicuramente necessario esplorarlo più approfonditamente per comprendere i significati esistenziali che la tossicodipendenza assume.
Insito in questo mio tentativo è un altro problema etico, che stavolta mi riguarda in prima persona come autore. Un problema che, in realtà, permea questo intero testo, ma che sarà ancora più evidente nelle prossime pagine. Come offrire una rappresentazione delle vite e delle azioni delle persone che ho conosciuto, senza scadere in una esotizzazione, o ancora peggio pornografia, della sofferenza, e allo stesso tempo evitando che il mio stesso discorso si faccia giudicante e moralizzante? C’è una tensione inevitabile in queste rappresentazioni, che Philippe Bourgois mette in evidenza nell’introduzione di In
Search of Respect:
Most ethnographers offer sympathetic readings of the culture or people they study. Indeed, this is enshrined in the fundamental anthropological tenet of cultural relativism: Cultures are never good or bad; they simply have an internal logic. In fact, however, suffering is usually hideous; it is a solvent of human integrity, and ethnographers never want to make the people they study look ugly. [Bourgois 2003, 13]
La ricerca di Bourgois è stata condotta, come già abbiamo visto, a East Harlem, che oggi si chiama El
Barrio, un quartiere di Manhattan di forte immigrazione prima italiana e poi (dalla metà del XX secolo)
latinoamericana e portoricana. Il problema di descrivere etnograficamente povertà, marginalizzazione e violenza in un contesto come quello di El Barrio è evidente. «Qualsiasi esame dettagliato della marginalizzazione sociale incontra seri problemi con le politiche della rappresentazione», afferma
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Bourgois, preoccupandosi che «le storie di vita e gli eventi descritti in questo libro [vengano] letti come stereotipi negativi». Non possiamo ignorare le possibili letture di ciò che scriviamo, né tantomeno le conseguenze di più ampio raggio che le nostre parole possono avere, sui protagonisti delle nostre narrazioni come su chiunque altro. Ma forse tacere, o «ripulire» le nostre rappresentazioni degli aspetti più «problematici» (qualsiasi significato possa avere questo termine) sarebbe ancora più eticamente complesso. Lo stesso Bourgois tende in questa direzione. «Mi rifiuto di ignorare o minimizzare la miseria di cui sono stato testimone, per una paura virtuosa o “politicamente corretta” di dare una cattiva immagine della povertà, perché questo mi renderebbe complice di [questa forma di] oppressione» [Bourgois 2003, 12].
Fino a questo momento ho concentrato la mia attenzione (per quanto non interamente) su prassi e narrazioni della riabilitazione per come si dispiegano nella vita quotidiana della comunità. Ma, in questo modo, ho corso il rischio di rappresentare dei soggetti schiacciati da questa disciplina (in questo caso, anche in senso foucaultiano), e non è questa l’immagine che ne voglio offrire. Pur in un’innegabile condizione di marginalizzazione e oppressione, le persone che ho incontrato mantenevano la propria agentività, o ancora meglio la propria libertà per come la intende Laidlaw [2002, 2014]. Per comprendere cosa questa libertà possa significare, cosa questi soggetti facciano della consapevolezza e della riflessività, sarà necessario andare oltre i confini della comunità, e verso contesti che si prestano a stereotipizzazione e pornografia. Non so se sarà possibile parlarne senza inciampare in questi ostacoli; ma, come Bourgois, ritengo necessario confrontarmi anche con essi, per cercare di capire, e forse rendere giustizia a, le persone con le quali ho condiviso i mesi della mia ricerca.
Esperienze
«Ti accorgerai subito che non hanno filtri, che parlano a flusso di coscienza senza stare a farsi troppi problemi su chi è il loro interlocutore», mi ammonì mia madre prima dell’inizio della mia ricerca. Lavora nella psichiatria delle dipendenze da ormai più di vent’anni, e si sentì in dovere di farmi delle «raccomandazioni» su come comportarmi in comunità, e ancora di più su come relazionarmi con gli utenti. Fra tutte, questa è quella che mi è rimasta più impressa. Non tanto perché si sia rivelata la più accurata – non lo era, almeno non completamente – ma perché prefigurò una delle cose che avrei, a Lucerna, fatto più di frequente: ascoltare narrazioni di sé, della propria storia, della propria esperienza. Una parola che tornò spesso nei discorsi che sentivo, e che è a sua volta tornata spesso in questo testo; una parola che, come vedremo, non è assolutamente priva di problematiche. Ma procediamo con ordine. La parte dell’ammonimento materno che oggi trovo più significativa è quel «senza filtri»: nel contesto, indica una tendenza a una ‘esondazione’ di racconti, che contengono quasi sempre dettagli molto personali (nonché, in alcuni casi, incriminanti), ma che mai si preoccupano della possibilità che tali dettagli siano diffusi, ripetuti, o nel mio caso messi per iscritto. Nei miei primi giorni a Lucerna, ebbi questa distinta impressione. Soltanto essermi dichiarato interessato alle loro storie fu sufficiente
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per aprire le porte a momenti che sarebbero potuti sembrare quasi confessionali nel loro contenuto, ma che mi colsero alla sprovvista per la naturalezza con la quale emergevano da conversazioni altrimenti ‘ordinarie’. Jorge fu uno dei primi utenti con i quali strinsi un rapporto che andava oltre i convenevoli, e gi{ il mio secondo giorno di ricerca, in un momento di pausa dall’attivit{ lavorativa, mi raccontò quanto più poteva del percorso che lo aveva portato in comunità.
Più tardi, fuori, mentre fumava una sigaretta, mi ha raccontato di come ha iniziato, prima a fumare, poi a bere, poi a fare uso di sostanze. Di come con i suoi compagni delle medie andavano a rubare soldi a genitori e nonni per comprarsi le sigarette, e poi le nascondevano. Dei primi bicchieri di vino. Dei primi spinelli a 14 anni. Mi ha anche raccontato di un episodio più recente, un episodio che per Jorge è stato una vera e propria crisi mistica. Sapeva di essere fatto, che «non ci stavo con la testa», ed ha iniziato a sentire la voce del diavolo, a «sentire e vedere l'aria intorno a me diversa», e la voce gli diceva alternativamente di uccidersi e di uccidere la sorella, che era con lui. Ha provato a farsi investire dalle macchine che passavano, ha provato a procurarsi un'arma con la quale tagliarsi la testa. Ha provato a tenere la sorella lontana, mentre la voce nel suo cervello gli diceva di farle del male. La cosa più tremenda è che dice di aver mantenuto un briciolo di coscienza durante tutto questo. Si ricorda quasi tutto. Tranne come è stato portato via. Si è svegliato alcuni giorni dopo, in reparto, legato. A quanto pare, mi ha detto, i carabinieri hanno faticato a portarlo via, ed hanno dovuto tenerlo ammanettato dentro l'ambulanza. Nella furia, ha rotto tre costole alla sorella. Una volta in ospedale, lo hanno dovuto legare al letto, perché a lungo non rispondeva a nessun farmaco per calmarlo. Qualche giorno di coma farmacologico. E poi la madre accanto al suo letto, quando si è svegliato. E la consapevolezza di aver fatto qualcosa di moralmente sbagliato, che lo ha fatto e lo fa temere per la sua anima oltre che per il suo corpo. Da qualche anno è Testimone di Geova, e teme di essere cacciato dalla sua congregazione per quello che ha fatto. Cerca una riconciliazione. Con gli altri fedeli, ma soprattutto con Dio.56
Quello stesso giorno, quando riferii a Dacia del racconto di Jorge (e di un altro racconto similmente dettagliato e non sollecitato), lei non poté fare a meno di ridere. «È normale, loro sono proprio senza filtri, e oltretutto sei la novit{ del momento». Di nuovo quell’espressione, «senza filtri». Di nuovo, il cui senso era molto chiaro nel contesto. Se il racconto è un flusso, i filtri devono bloccare parte di quel flusso per renderlo adeguato alle circostanze. Ma, rovesciando la prospettiva, forse possiamo notare che sono presenti, dei filtri. Che l’immagine di sé che gli utenti mi restituivano non era semplicemente un torrente incontrollato di episodi, ma un qualcosa specificamente diretto nei miei confronti. Allora è necessario chiedersi: qual è questo filtro? In che modo questi racconti apparentemente così spontanei, «autentici» potremmo dire, plasmano in una direzione specifica – riflessiva – la rappresentazione che da essi emerge?
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In parte, sono convinto che il filtro applicato in mia presenza servisse a stupirmi, impressionarmi con vividi racconti di mondi di marginalità, illegalità, violenza e disagio che gli utenti si immaginavano, correttamente, io non avessi mai sperimentato direttamente. Chuck, in particolare, cercava spesso di sbalordirmi con i suoi racconti, soprattutto quando raccontava di tutto ciò che stava intorno all’uso di sostanze. «Nella tossicodipendenza arrivi a pensare anche che hai avuto la fortuna di utilizzare certe sostanze», mi spiegò, cercando di rendere conto delle sue sostanze d’elezione. «Magari hai degli agganci, negli ospedali o in posti del genere, persone che ti possono passare qualcosa – anche loro ci guadagnavano ovviamente, non erano al di fuori dei giri di spaccio. A me sono passate per le mani delle sostanze belle potenti, anestetici, antidolorifici usati per la terapia del dolore, benzodiazepine, non cose di tutti i giorni». In queste occasioni, mi rendevo conto che l’obiettivo era quello di cogliermi alla sprovvista, non soltanto per rivendicare nei miei confronti un capitale sociale, ma anche per sottolineare la differenza che c’era tra lui e gli altri utenti, e gli altri tossicodipendenti in generale. «Ora come ora, la piazza è tutta presa dalla cocaina, al massimo dagli alcolici», precisò, riferendosi implicitamente ai suoi compagni di comunità, la maggior parte dei quali utilizzava proprio queste due sostanze (spesso, insieme). «Io ho provato a bere, ma mi fa veramente schifo. Anche la cocaina l’ho provata più di una volta, ma tutte le volte che mi passava l’effetto poi mi sentivo uno schifo anche lì, mi sentivo veramente male. Mi dicevo sempre “no, no, non la userò mai più”, e a un certo punto ho smesso davvero. Anche perché non volevo avere più a che fare con certa gente, né coi cocainomani né con gli alcolisti. Andavo avanti a eroina e psicofarmaci ed ero soddisfatto così». Il tono della voce, la smorfia sorridente, lo sguardo complice che aveva sempre quando mi raccontava le sue (dis)avventure nel periodo della dipendenza attiva, mi assicuravano ogni volta che la mia non era soltanto un’impressione. Così come me lo assicurava il fatto che gli stessi racconti venissero fuori in presenza di Chiara, una giovane neolaureata in psicologia, che passò a Lucerna sei mesi per il suo tirocinio. Come me, anche Chiara appariva assolutamente estranea all’ambiente delle tossicodipendenze; come me, doveva imparare che cosa fosse la vita del dipendente dalla viva voce di chi l’aveva vissuta. Indubbiamente, c’era una dimensione di distinzione [Bourdieu 1979] in queste narrazioni, in particolare nella descrizione delle pratiche di consumo di sostanze e di come le sostanze d’elezione influenzassero in qualche modo la soggettività morale di chi le usava. Chuck reiterava spesso il suo disgusto nei confronti degli altri tossicodipendenti, enfatizzando di frequente anche la componente «estetica», di presentazione al mondo. Così, parlandomi dell’eroina negli anni Ottanta e Novanta, specificò che lui non aveva mai amato essere associato al comune modello di eroinomane, e per questo si era sempre sforzato di essere selettivo tanto per gli oppiacei che consumava, quanto per le persone che frequentava e con le quali li consumava. «Non facevi più parte dei drogati coi capelli lunghi, sdentati, con la pelle rovinata. Era un altro modo di vivere, e io non volevo vivere così. Io volevo stare tranquillo, mi volevo rilassare». Le parole più dure, come abbiamo visto, le riservava ad alcolisti e soprattutto cocainomani, per i quali esprimeva vero e proprio disgusto e disprezzo, in cui la dimensione estetica e quella morale si compenetravano vicendevolmente. Per Chuck, raccontare la propria vita da eroinomane era un modo di asserire la propria individualità, quello che «sapevo fare bene», per rendersi visibile nella sua particolarità, per non scomparire in mezzo agli altri utenti, come
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uno dei tanti in riabilitazione. Sottolineava spesso i suoi «27 anni» di dipendenza attiva, e quello che era riuscito a fare non malgrado, ma anche grazie a ciò che aveva imparato attraverso di essa. E altrettanto spesso sottolineava quanto l’universo della droga, dallo spaccio al consumo, fossero cambiati, quanto non si sentisse più propriamente parte di quell’universo, che non aveva più i suoi