• Non ci sono risultati.

Fra tutti gli utenti che ho conosciuto, Bret era senza dubbio quello che aveva il rapporto più ambiguo con i suoi trascorsi criminali. Non era l'unico ad avere condanne e carcere alle proprie spalle; al contrario, più della metà delle persone che sono passate da Lucerna nei 12 mesi della mia ricerca vivevano in una simile situazione. In alcuni casi, Agatha, Chuck, Goliarda, anche peggiore. Ma il rapporto che Bret aveva con quel momento della sua vita, e il mondo cui afferiva, era sicuramente peculiare all'interno della comunità. Un rapporto che già all'inizio della mia ricerca trovai significativo.

Sin da subito, Bret mi ha preso in simpatia, o almeno così sembra. Anche venerdì, durante la presentazione, non sembrava avere riserve particolari riguardo alla mia presenza. Ho pensato che fosse perché sono quello più vicino a lui di età, ma forse non c'entra niente. Forse cercava soltanto qualcuno a cui racccontare le sue vicende, e oggi lo ha fatto senza esitare, anche se ci siamo visti soltanto tre volte. Mi ha trovato in ufficio, in un ritaglio di tempo dopo merenda. Non so cosa fosse venuto a chiedere, ma quando mi ha visto con il mio taccuino in mano, si è subito fermato, si è seduto accanto a me e ha iniziato a parlare, senza che dovessi chiedergli niente. «Devi scrivere cose su di noi? Allora scrivi che Anonimo – perché hai detto che siamo anonimi no? – dice che viene dal carcere», iniziò, prima che io potessi fare qualsiasi cosa. «Viene dal carcere», come se fosse la sua città natale. Ma non si è limitato a quello. Mi ha raccontato – insistendo che io prendessi appunti – di soffrire di disturbo bipolare provocato dall'abuso di eroina. Mi ha raccontato di essere stato arrestato per furto, rapina, aggressione, associazione per delinquere. Di aver lavorato, ancora minorenne, in una struttura di Libera insieme ad altri giovani «condannati per mafia». Mi ha raccontato che faceva prostituire la sua ragazza a casa sua, e ha anche precisato quanto chiedeva. E poi, come se nulla fosse, ha iniziato a parlarmi di quanto si trova bene a lavorare in cucina, che cucinare «mi toglie i pensieri», che gli piacerebbe fare quel lavoro una volta finito di scontare le sue pene. Senza soluzione di continuità, da rapine e prostituzione al suo futuro da cuoco.60

Nei mesi successivi, dagli operatori e dai suoi genitori, avrei scoperto che molto di quello che Bret raccontava della sua vita criminale era inventato, o quantomeno esagerato. Ma anche questa cosa è, in sé, significativa. Perché vantare condanne più gravi di quelle realmente ricevute? Perché insistere, come avrebbe fatto per tutta la sua permanenza in comunità, sul fatto che «vengo dal carcere», fino al punto di utilizzare questa formula come presentazione per i nuovi arrivi?

~ 156 ~

Le narrazioni che riguardano l’universo della piccola criminalit{, quella che più spesso caratterizza la vita di chi abusa di sostanze, sono forse quelle che maggiormente hanno una connotazione di genere. Il crimine, soprattutto un certo tipo di crimine «da strada», è «una cosa da uomini». Furto, rapina, estorsione, anche spaccio, sono cose che hanno spesso una componente «virile», in particolare quando si intreccia con la dimensione del «rispetto», un altro concetto fondamentale nell’arsenale retorico di queste narrazioni [cfr. Bourgois 1995, 2003; Bourgois, Schonberg 2009]. Per Bret era così. La sua era sicuramente una situazione peculiare. Per la maggior parte del tempo che passò a Lucerna, era di gran lunga il più giovane, e la vita che aveva vissuto non riscuteva particolare ammirazione né tantomeno «rispetto» da parte degli altri utenti. Al contrario, veniva spesso trattato come il 'figlioccio' della comunità, una persona da proteggere e tutelare rispetto a un mondo che aveva già rischiato di rovinarlo in via definitiva. Questo atteggiamento genitoriale, messo in atto soprattutto da Magda, Elsa e Ernest, teneva insieme attenzione e cura nei confronti di Bret a un retrogusto di condiscendenza che, quando si manifestava in maniera evidente, rendeva quest'ultimo molto nervoso. E, in questi momenti, utilizzava la sua (sicuramente considerevole) esperienza con la piccola criminalità per rivendicare il suo status di persona adulta, non solo capace di prendersi cura di sé stesso, ma anche, soprattutto, di esercitare autorità (e violenza) sulle persone che lo circondano. Perciò, i suoi racconti si concentravano sempre su oggetti o momenti in cui poteva manifestare la sua capacità di essere aggressivo, di «prendersi» il rispetto che si merita, o meglio, che gli altri gli devono. Scontri fra spacciatori, dettagli molto specifici sulle sue armi preferite e l'uso che ne faceva, e in particolare la sua attitudine per il furto e la rapina. Ma probabilmente la cosa più significativa era proprio la costante ripetizione del «vengo dal carcere» a ogni presentazione. L'esperienza carceraria, e tutto ciò che la circondava, era forse più di ogni altra cosa quella che per Bret rappresentava la salienza della sua vita. Una «provenienza» non strettamente geografica ma esistenziale, che lo aveva reso la persona che era in comunità. Una provenienza che Bret non rielaborò mai del tutto. Insisteva spesso sulla necessità di vivere «una vita onesta», una volta terminato il suo percorso riabilitativo, ma rimaneva sempre molto legato a concetti come quello di «rispetto», e sempre molto affascinato da ciò che quella vita aveva per lui rappresentato: una forma di emancipazione, un modo per sentirsi autonomo e forte in un mondo in cui soltanto chi è forte può sopravvivere.

Un altro fra gli utenti che raccontava la sua vita ai margini della legalità in termini simili era Chuck, forse in maniera ancora più esplicita. «Mio padre ha sempre cercato di indicarmi la strada giusta, di farmi vedere come ci si possono godere le cose belle. Lui, figurati, è uno che non ha mai nemmeno preso una multa in vita sua, tutto rispettoso delle leggi, anche se aveva sofferto la fame. Anche mia madre, se è per questo. Tutti e due, me l’hanno indicata. Ma, non lo so, per me non era abbastanza forse. Cercavo altro. Ci hanno provato, i miei, ma io sono uscito così. Forse perché è sempre stata una cosa negata, no, non negata, ma che mi avevano detto che era sbagliata, e io per questo volevo provarla per me». Come ho già avuto modo di notare, egli non perdeva occasione per condividere dettagli che riteneva in qualche modo scioccanti per il suo interlocutore (ancora meglio se era convinto, come nel mio caso, che il suo interlocutore non avesse strumenti per rispondere o ribattere). Trovava piacere

~ 157 ~

nello scandalizzare e nello sconvolgere. «Andavo avanti a eroina e psicofarmaci, ed ero soddisfatto così. Diverse qualità di eroina, tutti gli psicofarmaci su cui potevo mettere le mani. Ed ero anche contento, non ci vedevo niente di male, anzi, mi vantavo quasi dei contatti che servivano per ottenere quelle cose, per ottenere sostanze di qualità migliore. Ti realizzava».

Se per Bret raccontare queste esperienze era un modo per ingenerare negli altri il rispetto che egli pensava gli avrebbero garantito, ho sempre avuto l'impressione che per Chuck la motivazione più immediata fosse invece di natura quasi estetica. Ma, in alcuni momenti, quando nessun altro ci poteva ascoltare, mi restituì un'immagine diversa, quella di un «artigiano» dello spaccio e del contrabbando, attività dalle quali ricavava soddisfazione professionale. «Io volevo spacciare, volevo vendere. E non mi bastava vendere droga, volevo vendere tutto quello che mi capitava e che non era legale. Farmaci, armi, esplosivi, oggetti per lo scasso, steroidi, tutto. Avevo imparato a muovermi in diversi ambiti, e mi piaceva. All’inizio lo facevo solo per un guadagno. Non che ne avessi bisogno, perché in quel periodo i miei guadagnavano bene, ma volevo avere i miei soldi, e il modo migliore che avevo era quello. Ma poi ha iniziato a piacermi. E non è servito niente, non riuscivano a fermarmi. Dato che era diventato il mio lavoro, la mia ragione di vita, in qualche modo facevo sempre. Cercavo di fare quel lavoro lì al meglio. Non spacciavo perché non avevo voglia di lavorare. Spacciavo perché mi piaceva, ed ero anche abbastanza bravo. Anche se mi arrestavano, ogni tanto, però sono durato». Parlava di questo come di un lavoro tra tanti altri, con i suoi pro e i suoi contra, i rischi e i benefici, e anche una peculiarità nei rapporti che stabiliva con i suoi «colleghi». «Costa tanta fatica fare quel lavoro lì, cercare i contatti giusti, mantenerli. Non fai una vita regolare. Tu non lo faresti mai. Ma a me mi piglia. Mi piglia cercare quelle persone, per comprare e per vendere. Però oltre una certa soglia non ci voglio andare, non voglio entrarci troppo dentro. Non voglio avere dei padroni, perché quando fai quelle cose lì, poi finisci in rapporti di affiliazione da cui non esci più».

Tu non lo faresti mai. Quello che avevo interpretato come l’ennesimo segno distintivo, lo sforzo di

separarsi da me e allo stesso tempo di mettersi idealmente sullo stesso mio piano, potrebbe avere un altro significato: la percezione di una differenza morale fra le nostre vite. «Quando vedo gente come te, penso che tutte le strade sono preparate, che ciascuno di noi ha un destino che non può evitare». Fra tutti gli utenti, forse era proprio da Chuck che non mi sarei aspettato una prospettiva così profondamente fatalista. Molto spesso insisteva sul fatto che aveva scelto di spacciare, di contrabbandare, aveva scelto di vivere la propria vita al di fuori delle norme morali condivise. E non aveva mai avuto paura di rivendicare questa sua scelta, contro ogni possibile ripensamento a posteriori, tanto con gli altri utenti che con gli operatori. La prospettiva più diffusa all’interno della comunit{ vedeva la vita da tossicodipendente, l’abuso di sostanze, come la causa ultima di tutti gli errori commessi, e in particolare dei crimini commessi. Quando è il momento di procurarsi una dose, non ci sono regole o leggi che tengano contro i sintomi dell’astinenza. E da quel momento diventa un circolo vizioso: l’abuso di sostanze spinge verso la marginalizzazione e poi la criminalità, che a loro volta facilitano la riproduzione delle condizioni materiali per continuare ad abusare di sostanze, al di fuori di ogni possibilità di controllo. Per questo, Jane parlava spesso della vita del dipendente come

~ 158 ~

una vita eterodiretta, in cui la libertà del soggetto non gli appartiene più, è stata ceduta da un lato alle sostanze, che finiscono per dettare i ritmi esistenziali del tossicodipendente; dall’altro, alle persone che procurano loro le sostanze, delle quali devono subire la volontà e i ricatti. È la stessa prospettiva che Virginia aveva acquisito sul problema della dipendenza affettiva – l’impossibilit{ di parlare di relazioni, anche in situazioni di abuso domestico, senza tenere ben presente che al centro di tutto rimane sempre la sostanza.

Perciò, il frame entro il quale la riabilitazione si inserisce non è semplicemente quello della salute, ma, forse ancora di più, quello della libertà. Come abbiamo già visto nel capitolo precedente, se quella delle sostanze è una schiavitù – o ancora meglio, un utilizzo errato della propria libertà che ha avuto la conseguenza di comprometterla – allora soltanto attraverso l’astinenza e poi la sobriet{ sar{ possibile recuperare la propria capacità di agire liberamente. Ed è un modo in cui molti degli utenti descrivevano la propria esperienza. Anche Bret, che non dava l’impressione di aver abbandonato la fascinazione per l’universo della piccola criminalit{, attribuiva molti dei suoi eccessi allo stato di incoscienza e inconsapevolezza in cui versava quando usava cocaina. Se la vita del tossicodipendente è rappresentata come una vita «fuori da sé», lo è perché le sostanze rendono impossibile esercitare pienamente la propria libertà, essere pienamente sé stessi.

Ma questo frame lascia aperta la possibilit{ di una sovversione, con l’enfasi che pone proprio sulla libera scelta. Probabilmente, un punto debole come questo è inevitabilmente insito nel passo indietro rispetto alla più stringente medicalizzazione e psichiatrizzazione della dipendenza, che senza dubbio lasciano meno spazio ai percorsi individuali rispetto alla prospettiva moralizzante adottata dalla comunità. Così come è insito nella contraddizione fra la scelta della sostanza – e quindi la responsabilità della malattia – e l’eterodirezione della dipendenza. Ed è un punto debole su cui la narrazione di Chuck fa fortemente leva. La sua rivendicazione del valore delle sue esperienze, del fatto che, anche nei suoi lunghi periodi di dipendenza attiva, le ha sempre attivamente cercate, in prima persona, senza che fosse qualcuno (o la sua astinenza) a spingerlo in una direzione piuttosto che un’altra, è facilmente inquadrabile all’interno del discorso della scelta e della responsabilit{, ma allo stesso tempo lo rovescia di segno. Riesce a trovare un significato etico a una vita che è spesso considerata al di fuori di ogni spazio dell’etica e della morale. Se la sua scelta della sostanza è una scelta che compì liberamente, allora è legittimo affermare che tutte le altre scelte compiute a seguito di quelle possano essere altrettanto libere. Possiamo forse sostenere che quella che Chuck rivendicava era la libertà di sbagliare, senza che questi errori fossero interamente racchiusi sotto l’ombrello della tossicodipendenza. La sua vita è stata più che eroina, e il male che ha fatto – perché come tale lo riconosceva – andava oltre la sua dipendenza. Se c’era una componente determinista, sembrava avere più a che fare con il contesto in cui ha vissuto, piuttosto che con gli effetti di una qualche substance-

related disorder. In quel caso, sì, affermava che la sua famiglia, le sue frequentazioni, gli ostacoli e gli

imprevisti avevano accentuato il suo cinismo, la sua diffidenza, la sua incapacità di costruire relazioni durature. Forse, più di ogni altra cosa, è il suo carattere, per utilizzare un termine corrente all’interno della comunità, che gli ha chiuso alcune strade. Qui, torniamo al discorso sulla personalità dipendente, e sulla «mancanza» che spinge verso l’uso di sostanze. Ma, ancora una volta, con un importante

~ 159 ~

correttivo: nonostante tutto, la nostra vita, i nostri errori, lo stesso destino, non possono che appartenerci. Anche una strada già segnata non esime dalla necessità di rivendicare come nostre le scelte che abbiamo compiuto; anche una libertà limitata non priva di valore queste stesse scelte.

Quello che trovo particolarmente interessante della narrazione di Chuck è l'ambiguità che fa emergere nella riflessione sul proprio passato – da un lato la consapevolezza di aver sbagliato, non soltanto nell'infrangere la legge ma nel non rispettare le norme morali socialmente condivise; dall'altro, la rivendicazione della propria libertà nella trasgressione. Sapeva che ciò che stava facendo è sbagliato, ma lo faceva ugualmente, nonostante o forse proprio perché sbagliato.

Contemporaneamente, sembrava non ritenersi interamente capace di vivere altrimenti. E, in questo modo, complicava il discorso sull'eterodirezione che frequentemente Jane adoperava come strumento di convincimento verso la riabilitazione. Ma anche chi accettava, in linea di massima, le premesse di tale discorso, lo faceva sempre in maniera negoziata [cfr. Hall 2001], senza mai del tutto schiacciarsi sull'idea che la sostanza priva di libertà i soggetti. Per questo motivo, vorrei esplorare qualche altra narrazione di sé che si concentra proprio su questi punti chiave, sul fatto che la vita da tossicodipendente è una vita «fuori di sé», in cui il soggetto si trova spesso a scendere a compromessi con il proprio contesto, con i propri desideri, con le proprie speranze, senza però perdere completamente la capacità di agire e soprattutto di riflettere. E vorrei cominciare proprio da due narrazioni in cui la dipendenza attiva si scontra direttamente con la «vita onesta» e la plasma a sua immagine e somiglianza.

Raymond entrò durante una mia breve pausa estiva. Un uomo sulla quarantina, di Pistoia, come molti altri con un passato di comunità ben prima di Lucerna. Un passato di ricadute costanti, e di riabilitazioni che non sembravano durare. «Continuavo a ricaderci, perché non riuscivo mai a liberarmi delle mie brutte compagnie. I miei vecchi amici mi chiedevano ospitalità per qualche giorno, perché era successo qualcosa, e io sapevo che non dovevo dire di sì, sapevo cosa sarebbe successo, però non ce la facevo a dire di no. E quindi loro arrivavano, con la coca, e io non riuscivo a resistere». Era, come Agatha, arrivato direttamente dall’ospedale, con una piccola ulcera causata dall’iniezione di cocaina che gli si era perforata. Arrivato con la premessa che non sarebbe durato molto, che ad un certo punto «dal niente, prenderà e se ne andrà», mi disse Dacia, quando mi spiegò la sua situazione. Raymond si raccontava soprattutto come una vittima della sua stessa gentilezza. Insisteva spesso sulla sua incapacità di influenzare il corso della sua vita, su quanto si faceva trascinare dalle persone che lo circondavano. Ma ancora più spesso insisteva sul fatto che quella offrertagli da Lucerna era l’ultima possibilit{ che aveva, l’ultima spiaggia per poter veramente vivere una vita diversa. Dopo notevole fatica – e un concorso sovraffollato – era riuscito a ottenere un posto a tempo indeterminato come dipendente comunale. E se questo gli consentiva di vivere la sua riabilitazione con maggiore tranquillità, perché continuava a percepire uno stipendio, e soprattutto perché aveva già un lavoro che lo attendeva fuori dalla comunità, gli causava anche forti ansie. «Mi hanno detto che posso stare qui a

~ 160 ~

curarmi per il tempo che mi serve, ma non mi daranno un’altra occasione. Se sbaglio di nuovo, va tutto in fumo, e non credo che avrò più un’opportunit{ come questa».

Un simile rapporto fra abuso di sostanze e «vita onesta» emergeva frequentemente dalle parole di Albert. L’argomento ‘lavoro’ era per lui molto rilevante, non soltanto determinante le sue possibilità di riabilitazione al di fuori della comunità, ma anche influente nella sua precedente vita di dipendenza attiva. Aveva sempre lavorato nell’azienda di famiglia, con il padre, e questo aveva portato inevitabili tensioni. Non soltanto l’inerente instabilit{ di una piccola impresa privata, ma anche la necessit{ di doversi ogni giorno confrontare con suo padre, in teoria alla pari ma concretamente sempre da una posizione di debolezza relazionale. E, ovviamente, l’uso di sostanze non faceva che aggravare la situazione e la vita domestica. «Tornavo a casa fatto, facevo dei danni, e poi la mattina dopo dovevo di nuovo guardare mio padre in faccia a lavoro». Il motivo per cui fu costretto a entrare in comunità fu proprio uno di questi improvvisi sfoghi, in un momento in cui era sotto l’effetto di sostanze. Aveva, a seguito di un litigio con la madre, aggredito quest’ultima, e anche se non c’erano stati danni fisici lei aveva ugualmente deciso di sporgere denuncia, e Albert era stato giudicato come socialmente pericoloso. Questo evento, unito al fatto che la madre aveva utilizzato la denuncia come strumento per impedirgli di abbandonare il percorso in comunità, aveva causato in Albert notevole risentimento nei confronti della madre, che accusava di avergli «rovinato la vita» non solo spingendolo in una comunità in cui non aveva intenzione di stare, ma anche soffocandolo, giorno dopo giorno, non rispettando i suoi spazi e i suoi desideri.

Ma ancora di più la vita del tossicodipendente, per Albert, è una vita «senza dignità» perché è una vita in cui non esiste progettualità, in cui è possibile, al massimo, vivere per 24 ore e non di più. Una vita di radicale incertezza, in un presente che impedisce di immaginare il futuro. In primo luogo, sul piano strettamente materiale, delle condizioni economiche in cui il tossicodipendente ‘medio’ versa