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Dopo la filosofia, è stato il turno degli interventi individuali. E la prima a prendere la parola è stata Christiane (...). Ha detto di essersi sforzata, e di starsi sforzando, per intervenire su una parte specifica della propria soggettivit{: fare le cose ‘giuste’ per sé e non per gli altri, mettere in prima posizione il proprio benessere. Sembra una cosa banale, ma comporta un abbandono, almeno parziale, della posizione che Christiane aveva assunto in precedenza nella comunità, quella di ‘tramite’ fra i pazienti e gli operatori, una posizione ambigua che molti non le hanno perdonato. Significa per Christiane rinunciare alla sua torre d’avorio e accettare i suoi stessi errori al pari di quelli degli altri, e riconoscere che non tutto deve intaccare l’integrit{ del suo Sé. Che si può lasciare i torti subiti alle spalle. Interessantemente, una parte relativamente contenuta del suo intervento era relativa alle sostanze, e per quanto ne ha parlato ha detto che non sente molto il craving, e lo sente unicamente nei confronti dell’alcol. E qui, come in altre occasioni, Jane ha sottolineato che l’alcol è una droga, ponendo l’accento sul fatto che, sotto l’effetto di alcolici, siamo eterodiretti come sotto l’effetto di altre sostanze (è interessante notare che il perno del suo discorso sia la questione dell’eterodirezione del nostro comportamento, piuttosto che sulle conseguenze fisiologiche dell’uso. Forse, l’argomentazione fisiologica ha poca presa ormai, e invece la questione di «decidere per sé» tocca sul vivo persone che, in questo momento della loro vita, sono fortemente sotto il controllo degli altri). Albert è intervenuto immediatamente a chiedere ulteriori chiarificazioni su questa cosa: com’è possibile che Christiane non senta il craving? Lui lo sente, e lo sente in alcune occasioni anche molto forte. Lo sente sia come un ostacolo al raggiungimento di «vita normale», sia come un desiderio che ha di fare uso. Fra tutti, Albert forse è uno di quelli che meno ha assunto (incorporato?) il discorso della ricostruzione della sua soggettività morale come proprio: quando Jane lo sollecita chiedendogli se «hai veramente deciso di smettere», Albert risponde positivamente perché «non mi voglio più ridurre in quelle condizioni», ma è difficile dire quanto ‘rimorso’ per la sua precedente vita ci sia. Un po’ come Bret, ma attraverso diversi percorsi, il problema che percepisce nella tossicodipendenza è contingente, non essenziale (come è invece per altri, ad esempio Ernest, Agatha, Christiane, Goliarda, Jorge). Per questo, credo, insiste sul discorso del tempo: «ho sentito che ci vuole tempo, che con il tempo un po’ il craving ti passa». Ha anche ammesso che «mi brucia sapere che probabilmente non potrò più andarmi a prendere una birra con tranquillità». E in questo viene sistematicamente provocato da Jane, che invece percepisce il problema come strutturale, come caratteriale oltre che psichiatrico, forse più che psichiatrico. O quantomeno è quello che dice ai gruppi. E proprio qui si lega Jane con un suo intervento, un intervento che ho percepito come calibrato sul clima del gruppo, oltre che sul contenuto specifico dei due interventi precedenti. (...) Ha insistito su alcuni nuclei centrali della narrazione sulla dipendenza che porta avanti, da quello della scelta

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morale, una scelta che tutti loro hanno compiuto nel momento in cui sono diventati tossici, anzi, nell’intero percorso che li ha portati a diventare tossici, a quello dell’eterodirezione sia fisiologica che sociale, a quello della natura e della fatica della vita. (...) È stata Agatha a prendere la parola, dopo. Il suo discorso ricordava sotto molti aspetti quello di Christiane, ma con una cruciale differenza: Agatha ha più e più volte ribadito di essere malata, di aver bisogno di un contesto che non la spinga a farsi di nuovo. Anche perché, probabilmente sarebbe l’ultima volta. «Io avevo due scelte, o mandare in culo tutti e continuare a farmi finché non morivo, oppure cercare di pensare a me stessa e a finire la mia vita con un po’ di dignit{». Come al solito, nelle sue parole è molto forte il senso di colpa per una vita sprecata dietro le droghe, rovinata per sé e per suo figlio perché «Dorian mi vedeva piegata in due in terra, parlare coi muri, con le sedie, e piangeva, non sapeva cosa fare». E dire che adesso non sono in buoni rapporti è un eufemismo. Agatha si accusa costantemente di aver rovinato il proprio rapporto con il figlio, e riconosce che quest’ultimo avr{ notevoli difficolt{ a superare l’immagine che ha della madre come di una «drogata senza speranza». Su questo senso di colpa, interviene Ernest, con un discorso che fa eco a quello di Jane, e che richiama le precedenti esperienze di Ernest stesso in comunit{, quando ancora era esplicitamente chiamato un ‘drogato’. Quello che Ernest sottolinea, per sé ma anche per Agatha, è che forse «è giusto che ci sentiamo in colpa, perché le cazzate le abbiamo fatte». È giusto che il percorso di recupero dalle dipendenze sia un percorso attraverso da sofferenza e tormento, da frustrazione e sensi di colpa, perché è quello che «abbiamo causato agli altri». C’è davvero una dimensione di ricostruzione morale in questa riabilitazione? Cosa significa per Ernest pensare che la sofferenza che sta provando adesso è in qualche modo un’espiazione per quella che ha fatto provare alla compagna e al figlio? Cosa significa per Agatha ricordarsi e disperarsi per l’infanzia e l’adolescenza del suo, di figlio? Un’altra cosa che Ernest ha detto è significativa, in questo caso rivolta a Christiane in primo luogo (ma anche a Agatha): ha criticato tutte quelle stereotipiche narrazioni del drogato che è triste perché si droga. Al contrario, dalla sua prospettiva, finché uno si droga è ben contento, proprio perché si sta drogando, perché la sostanza è in grado di dare quella soddisfazione immediata di cui il drogato sente di aver bisogno. Christiane ha raccontato che si faceva di eroina e poi piangeva; Ernest, al contrario, non ha mai pianto mentre si faceva. Era ben contento di farsi. Ha pianto dopo, quando ha preso consapevolezza, quando ormai era troppo tardi. Ma finché uno continua a farsi, dal suo punto di vista, è ipocrita dire che è triste. E di nuovo il frame di questo discorso è quello della colpa e dell’espiazione: adesso paghiamo quello che ci siamo (ingiustamente) goduti. Davvero Ernest è quello che più profondamente ha interiorizzato il discorso morale della riabilitazione, in un senso anche profondamente religioso, di frustrazione dei piaceri. Forse, una moralità che gli viene dalle sue precedenti esperienze di umiliazione pubblica delle vecchie comunità. Ma, dal modo in cui ne parla, Ernest sembra avere quasi nostalgia per quel tipo di comunit{, quel tipo di riabilitazione, quell’idea di tossicodipendenza. «Queste comunità sono praticamente delle cliniche», mi ha detto qualche

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giorno fa, «e io non ho bisogno di una clinica. Ho bisogno di qualcuno che capisca il mio comportamento tossico». 31

Ho sostenuto, sopra, che il momento della ‘caduta’ è il momento centrale della narrazione che tutti gli utenti offrono della propria vita di dipendente. La chiave interpretativa che permette di decodificare, di ‘spiegare’ ogni avvenimento significativo della loro vita. Quello che cambia, sensibilmente, è il significato di questa caduta. O, forse, il suo segno. Il perché. E già questo è terreno di conflitto non soltanto fra utenti e operatori, ma anche all’interno dell’équipe stessa, un conflitto che si apre ‘localmente’, contingentemente, sulla narrazione di ciascuno, e si estende progressivamente fino ad abbracciare l’intera rappresentazione della dipendenza. Il terreno di questa contrapposizione è l’ineludibile tensione fra malattia e scelta.

Ho già parlato di come la definizione psichiatrica di dipendenza, o meglio di substance-related

disorder, si sia evoluta negli ultimi trent’anni, di come progressivamente la determinante culturale sia

venuta meno in favore di categorie diagnostiche che danno della patologia una rappresentazione nettamente neurobiologica. Se nel DSM-III si accettava l’esistenza anche di determinanti culturali a stabilire il confine fra uso ‘ordinario’ e patologico di sostanze, nel DSM-5 si parla di centri di ricompensa del cervello, di capacità di controllo, e di altri fattori di tipo fisiologico e neurologico che lasciano presupporre che ci possa essere una sorta di predisposizione genetica alla dipendenza [American Psychiatric Association 2013].

Chiaramente, questo modo di definire la dipendenza come patologia psichiatrica non è rifiutato all’interno della comunit{. Non potrebbe esserlo: la struttura è pur sempre all’interno del circuito sanitario e riceve la totalit{ dei suoi utenti attraverso i servizi sanitari pubblici territoriali. All’interno della comunità vengono regolarmente somministrati psicofarmaci, non soltanto per la comorbidità ma anche per combattere i sintomi legati all’astinenza. All’interno della comunit{ operano e transitano infermieri e psichiatri, e i piani terapeutici vengono concordati con questi ultimi, ciascun utente con il suo servizio e il suo medico di riferimento. Né l’équipe mette in discussione le diagnosi, siano esse di disturbi relativi all’uso di sostanze che di altre patologie psichiatriche. Al contrario, riconosce la necessità di definire lo spazio e le possibilità di intervento relativamente al quadro clinico di ciascun utente. Tuttavia, rimane una palpabile tensione, forse una contraddizione, all’interno delle pratiche terapeutiche, della stessa quotidianità della comunità, fra la dipendenza nella sua veste di malattia, e la dipendenza nella sua veste di comportamento, tratto caratteriale, quello che ho chiamato, con Zigon [2008, 2011], essere-morale-nel-mondo. Perché è proprio su quest’ultima dimensione della dipendenza che sono pensati i percorsi riabilitativi, che sono raccontate le esperienze di dipendenza attiva, che sono immaginati i possibili futuri al di fuori della comunità. E ancora di più, è su questa duplice rappresentazione che si giocano i significati morali di quei momenti di ‘caduta’ che hanno segnato l’esistenza degli utenti.

Uno dei motti più frequenti di Jane è: «Nessuno vi ha messo la siringa in vena, nessuno vi ha dato da bere con l’imbuto, nessuno vi ha imboccato pasticche. Potevate tutti dire di no». Il frame che questo

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mantra costruisce attorno all’esperienza della dipendenza è chiaro: essa è, in primo luogo, una scelta. Una scelta che ha luogo nell’unico momento in cui può aver luogo, quello dell’incontro con la sostanza, che quindi diventa il punto di non ritorno, e allo stesso tempo assume una fortissima carica morale. La cascata di eventi che ha portato ogni singolo utente in comunità può essere tracciata indietro fino a qui, fino al suo primo incontro con la sostanza; e il fatto che questo incontro sia rappresentato in termini di scelta, di decisione libera e individuale, fa entrare di prepotenza in gioco quella una delle questioni senza dubbio principali del discorso della comunità sulla dipendenza, su cui si imperniano narrazioni, pratiche terapeutiche e riabilitative, conflitti, speranze: la consapevolezza dei soggetti delle proprie azioni, delle proprie decisioni.

Ho parlato sopra della storia di Christiane, di come nella sua narrazione della dipendenza sia molto forte la percezione di essere incapace di «stare al mondo» senza le sostanze. Della sua convinzione di saper stare bene «soltanto nelle comunità». E questa convinzione si fonda non sulla consapevolezza della sua fragilit{ nel controllo degli impulsi, o sulla conoscenza dell’effetto che le sostanze hanno sui circuiti di ricompensa del cervello, ma sulla sua fragilità in quanto persona, nella sua assolutamente individuale modalità di costruire e gestire relazioni, con gli altri e con sé stessa. Utilizzò ripetutamente espressioni come «vizio troppo radicato», «qualcosa si è rotto», «ribellione», «fuga». Cercando di

comprendere la sua dipendenza, le cause della spirale discendente che la portò, per la terza volta nella

sua vita, in una comunità riabilitativa, la risposta cui Christiane giunse era quella della «scelta sbagliata», o forse ancora meglio «inconsapevole»: inconsapevole delle implicazioni, delle conseguenze, tanto sulla sua salute quanto sulla sua vita sociale e relazionale. E dove non arrivava l’inconsapevolezza, arrivava l’errore, spesso narrato sotto forma di «incoscienza». Dopo le prime esperienze di comunità, dopo essersi riuscita a spiegare i motivi della sua tossicodipendenza, ed essersi trovata nuovamente di fronte al fallimento, Christiane mi raccontò di aver abbandonato ogni speranza concreta di riabilitazione, ogni desiderio di riabilitazione e recupero. «Mi sono cacciata in una situazione in cui per me si tratta di vivere o di morire, perché essendo diventata anche sieropositiva dopo quest’ultimo fallimento, e avendolo fatto anche con la consapevolezza di poterlo diventare, mi ero fatta con una siringa di un mio amico sieropositivo, senza preoccuparmi troppo, tanto mi sentivo finita. In quel momento, per me, vivere o morire cambiava poco, anzi mi ero trovata una buona scusa per morire con più tranquillità, un alibi». Christiane aveva parlato dell’uso di sostanze come di una «fuga da ferma», con parole che trovano un’eco nella filosofia della comunit{. Un impossibile «nascondiglio dove nasconderci da noi stessi». Da parte sua, Ernest fu in numerose occasioni ancora più esplicito nel dichiarare la propria consapevolezza che quella della dipendenza è una ‘scelta incosciente’. Una sera qualunque, nel mese di febbraio, lo trovai per caso fuori, a fumare, sulla terrazza che costeggia il lato est della casa. Stava parlando con Albert. «Ho fatto la mia prima comunità 35 anni fa», raccontò con tono grave. «Avevo diciott’anni. Ancora non capivo niente di niente. Ci sono stato due anni, e poi me ne sono uscito. Ho anche cambiato città, per evitare di ritrovare le vecchie compagnie. Mi sentivo tranquillo, mi sentivo guarito. Sono stato astinente trent’anni. Ma c’è sempre qualcosa in agguato. E nel mio caso è stata la cocaina. Ma il problema era un altro. Era che io avevo sempre mantenuto il mio comportamento tossico. E a cinquant’anni, ci sono ricascato».

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L’esperienza della ricaduta, dopo trent’anni, sembrò segnarlo ancora più profondamente della prima dipendenza e della prima comunit{, perché fu l’esperienza che consolidò quella percezione di avere incorporato un «comportamento tossico» dal quale non riusciva a liberarsi. Come Christiane, anche Ernest legava la sua (ri)caduta a un momento di crisi personale più generalizzata, che inquadrava nel concetto di «crisi di mezza et{». «A cinquant’anni, non sapevo più di preciso chi ero, che volevo dalla vita. Alcuni miei amici si sono indebitati per comprarsi la macchina da corsa, altri si sono fatti l’amante, io ho iniziato con la cocaina». E, di nuovo come Christiane, nella sua narrazione è molto forte la connessione fra abuso e dipendenza e «inconsapevolezza», o «leggerezza» nel fare le proprie scelte. Ma a questo si lega una dimensione del piacere dell’uso di sostanze articolata in maniera decisamente diversa dagli altri utenti. Christiane, e come lei molti altri, raccontavano il proprio uso come una via di fuga da un contesto sociale e relazionale di disagio, di spaesamento, di sradicamento. E prendere «consapevolezza» significa, in questa prospettiva, riconoscere la propria incapacità di sopportare il dolore, le separazioni, i fallimenti. La dipendenza occupa in questo senso uno spazio puramente negativo: sopperisce a un’assenza, colma una mancanza, e riconoscere l’esistenza di questi vuoti è il requisito necessario (ma non sufficiente) per la riabilitazione, la quale dovrebbe insegnare a fornire una risposta diversa, «sana», a tali difficoltà. Lo «star bene fuori di qui» di Christiane è esattamente questo: un processo che la renda in grado di affrontare il proprio dolore senza doversi rifugiare nelle sostanze, senza dover ricorrere alla sua «fuga da ferma».

Al contrario, Ernest raccontò la sua dipendenza in termini positivi: non esisteva all’interno di uno spazio vuoto, ma aggiungeva alla sua soggettività. Il modo più immediato in cui questa valenza «positiva» si manifestava era strettamente edonista: come nel passaggio sopra citato del mio diario di campo, in molte occasioni Ernest criticava i racconti degli altri utenti, racconti che parlavano della disperazione dell’uso. «La droga è bella finché dura», ribatté durante un gruppo, nuovamente a Agatha e Christiane, che insistevano sulla tristezza della tossicodipendenza. «A me la cocaina piaceva eccome, e quando mi facevo ero bello che contento». Nella sua prospettiva, «inconsapevolezza» non significa non riconoscere le radici delle proprie scelte, ma non vederne le conseguenze. «Si piange dopo, non durante», soltanto quando arriva il momento in cui diventa impossibile andare avanti con il proprio stile di vita. Il che significa la frammentazione del proprio universo relazionale, ma per Ernest anche (forse soprattutto) il venir meno delle condizioni materiali che gli consentivano di mantenerlo. Quest’ultima componente è fondamentale. Nella narrazione di Ernest, la spirale discendente ha una dimensione socio-economica molto forte, forse preponderante. La progressiva frantumazione delle basi materiali della sua esistenza – l’accumularsi di debiti, la perdita del lavoro e poi della casa – si intrecciano alla disgregazione della sua rete sociale e del suo modo di essere-morale-nel-mondo, al punto che le due cose non sono distinguibili, ed entrambe radicate nel suo «comportamento tossico». Quel comportamento tossico che lo ha spinto a cercare nelle sostanze il piacere che non trovava altrimenti, che lo ha reso insaziabile (ovvero, dipendente), che lo ha spinto a indebitarsi per poter mantenere lo stile di vita che desiderava. A sua volta, la ricerca della soddisfazione immediata («il tossico vuole tutto e subito») lo ha alienato da tutte le sue relazioni più prossime, familiari, amicali, ma anche professionali. E la perdita del lavoro è stato il vero punto di non ritorno, il momento in cui è

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stato costretto a subire le conseguenze della sua precedente leggerezza e inconsapevolezza. Il momento in cui divenne impossibile continuare a pensare l’uso di sostanze come un’attività ricreativa e piacevole.

È importante ribadire che la differenza sostanziale fra le narrazioni di Ernest e Christiane sta proprio nel frame all’interno del quale viene interpretato l’uso di sostanze. Anche se il percorso che li ha portati in comunità è abbastanza simile, almeno dal punto di vista della catena evenemenziale, la chiave di lettura è radicalmente diversa. Non c’è alcuna fuga nella storia di Ernest, almeno non raccontata in quanto tale. Al contrario, la scelta della cocaina, ed esplicitamente di scelta egli parla, è assolutamente affermativa: «La cocaina mi faceva essere la persona che volevo essere», spiegò Ernest durante un colloquio con la sua operatrice di riferimento, Dacia.32 «Mi sentivo una persona migliore,

più attiva, più spigliata, più propositiva. Mi sembrava che funzionasse tutto meglio, nel lavoro, con gli amici, con la mia compagna». Questo rendeva la necessit{ dell’astinenza ancora più catastrofica, proprio sul piano del suo senso del Sé. Se per Christiane esisteva una soggettivit{ ‘profonda’ sulla quale la dipendenza si era radicata, ma dalla quale era distinta e distinguibile, per Ernest tale distinzione era praticamente impossibile. Se esisteva una soggettività profonda, egli sentiva di avervi acceduto soltanto attraverso le sostanze, le quali a loro volta l’avevano plasmata, ridefinita e poi quasi ossificata. Non c’era una personalit{ sulla quale intervenire per combattere, nella sua vita fuori dalla comunit{, il rischio di una ricaduta; c’era una personalit{ dipendente da coprire, per mitigare l’altrimenti certa ricaduta.

Questo suo modo di rappresentarsi la propria dipendenza (e la propria soggettività) emerse molto chiaramente durante il gruppo della mattina del 5 marzo 2018, in uno scambio significativo fra di lui e un’altra utente, Magda, una donna livornese di trentacinque anni arrivata in comunità meno di tre mesi prima – qualche giorno prima di Natale. A motivarla nella sua scelta della riabilitazione era primariamente il desiderio di recuperare l’affidamento della figlia Diana, una bambina di tre anni. La situazione familiare di Magda era senza dubbio molto complessa: l’ex compagno, padre di sua figlia, anch’egli tossicodipendente, aveva a lungo rifiutato qualsiasi tipo di percorso di recupero, all’interno di strutture o seguito dai servizi sul territorio. La bambina era stata dunque affidata dal Tribunale dei