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In Attunement and Fidelity, Zigon [2014b] motiva la sua scelta dell'esserci, del Da-sein, come concetto descrittivo delle forme di essere-relazionale di cui la sua antropologia delle morali si

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interessa. Allo stesso tempo, ci offre, quasi di passaggio, una definizione di quello che potremmo altrimenti chiamare «soggetto».

Da-sein is a form of being that is a nexus of potentiality in a world. As a nexus of potentiality, Da-sein must be understood as first and foremost the potentiality or possibility for diverse

ways of being-in-the-world, and these diverse ways of being come into existence through the various relationships within which it finds itself constitutively entangled. Da-sein by its very

nature is relational-being and only exists in constant relationality to other beings. [Zigon 2014b, 21; corsivo aggiunto]

In questo breve passaggio, possiamo individuare una 'teoria' del soggetto e della soggettività. Di per sé, sostiene Zigon, Da-sein non è un soggetto, ma un «crocevia di potenzialità» che si realizzano,

esistono soltanto attraverso le relazioni in cui si trova impigliato. Attraverso queste relazioni Da-sein diventa soggetto, e le relazioni stesse sono costitutive della sua soggettività; essendo tuttavia plurali,

non solo le relazioni ma anche le potenzialità del Da-sein, questo suo farsi soggetto non è mai stabile e definito, ma mutevole, incoerente, con le stesse caratteristiche dell'assemblaggio per come lo abbiamo definito sopra. Se rifiutiamo di pensare a «soggetto» soltanto come il sostituto di «individuo», un termine nella nostra disciplina giustamente impopolare, potremmo accontentarci di pensare soggetto e soggettività attraverso questa lettura del Da-sein, che in fondo copre tutte le basi necessarie: riconosce non solo la loro mutevolezza ma la loro intrinseca relazionalità, li rappresenta come immanenti e non trascendenti e universali, li storicizza e contingentizza. Tuttavia, sono entrambi termini che hanno, nelle contemporanee scienze sociali, una tale diffusione da essere diventati strumenti concettuali praticamente a-problematici. Soggetto e soggettività sono ovunque, e spesso il loro significato è dato per scontato [cfr. Biehl et al. 2007]. Vorrei dunque brevemente esplorare questi due concetti, visto che saranno centrali nella mia argomentazione e narrazione.

Il concetto di «soggettività» indicante una qualche forma di vita interiore, individualità o coscienza si è solidificato intorno al XIX secolo [ibidem], per quanto simili concetti atti a indicare simili oggetti, in forme variabili, siano già presenti nella filosofia classica e tardoantica. Amélie Oksenberg Rorty [2007] ripercorre una storia sommaria della trasformazione del concetto di soggettività e di concetti ‘adiacenti’, partendo da Aristotele che localizzava nella percezione la consapevolezza di sé (o di Sé) – «nel percepire, percepiamo che percepiamo» – ma una consapevolezza che non include necessariamente la percezione di sé come un’entit{ duratura nello spazio e nel tempo. Esplorando i mutamenti di questo concetto, tramite un’operazione genealogica che da Agostino arriva fino a Sartre, Rorty individua alcune caratteristiche salienti della soggettività:

Our history reveals several distinctive strands in conceptions of subjectivity: it was consituted as a (1) first-person, (2) individuated, (3) self-referential, (4) authoritative veridical report (or expression) of an (5) occurrent (6) mental state (sensation, emotion, thought). These

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distinctive markers of subjectivity can occur independently of one another; indeed, they demarcate radically different conceptions. [Oksberg Rorty 2007, 44]

Altrettanto interessante di quello che è incluso in questa rassegna è quello che ne è escluso. La soggettività non è stabile, non presuppone un soggetto trascendente uguale a sé stesso nel tempo, non definisce un modo univoco attraverso il quale si costruisce. Ha a che fare con la propria riflessività e la propria specificità, ma non esiste nel vuoto storico o relazionale. Particolarmente interessanti per la mia argomentazione sono le prospettive di Aristotele e di Ignazio di Loyola. Il primo, come ho già notato, postula che nell’atto della percezione sia insita una forma di auto-percezione; ma è soltanto nel contatto con un altro virtuoso (una qualità che è assolutamente fondamentale), nella contemplazione della vita di questo altro, è possibile raggiungere pienamente l’autocoscienza – che quindi assume una forma quasi intersoggettiva, necessita di una relazione per potersi manifestare. Loyola, a sua volta, separa la percezione di sé dall’autocoscienza, o meglio dalla conoscenza di sé, ma sostiene che essa può raggiungersi soltanto attraverso l’esercizio, un percorso doloroso e faticoso di catarsi e riconoscimento. In entrambi i casi, l’enfasi non è sulla soggettivit{ come ‘stato’ o ‘entit{’ ma come

processo che si dispiega attraverso pratiche (Loyola) e relazioni (Aristotele).

In antropologia, una delle ‘teorie’ (per quanto forse di teoria vera e propria non si possa parlare) più rappresentative è senza dubbio quella di Clifford Geertz, che, in un periodo in cui ancora l’egemonia dello strutturalismo non era stata soppiantata, cercò di tenere insieme una prospettiva culturalista a un’attenzione alla psicologia dei singoli soggetti. Questi ultimi «incorporano» una cultura, nel senso che vivono in un mondo fenomenico plasmato da rappresentazioni e pratiche culturali specifiche.

Enacted and re-enacted, so far without end, the cockfight enables the Balinese, as, read and reread, Macbeth enables us, to see a dimension of his own subjectivity. (...) Yet, because (...) that subjectivity does not properly exist until it is thus organized, art forms generate and regenerate the very subjectivity they pretend only to display. [Geertz 1973, 450-451]

Per quanto questa centralità del concetto di cultura sia stata in seguito criticata [cfr. Abu-Lughod 1991], una parte significativa della nostra disciplina ha mantenuto questa posizione di massima, quella forse più vicina anche alla storia dell’antropologia stessa. «Cultura» rimane un concetto fondamentale in antropologia, ma è anche un concetto che ha subìto trasformazioni significative [cfr. Clifford, Marcus 1986; Marcus, Fischer 1986]. Soprattutto, è un concetto oggi molto meno rigido rispetto a come lo aveva immaginato Geertz, ed è immaginata in un rapporto diverso con il soggetto e la soggettività.

Culture is a variable; culture is relational, it is elsewhere, it is in passage, it is where meaning is woven and renewed often through gaps and silences, and forces beyond the conscious control of individuals, and yet the space where individual and institutional social responsibility and ethical struggle take place. [Fischer 2003, 7]

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I processi di soggettivazione, di «divenire-soggetto»21 sono inevitabilmente processi culturali, e i

soggetti stessi non sono trascendenti e disincarnati ma situati e radicati; tuttavia, la soggettività non è soltanto «risultato del controllo sociale o dell’inconscio», ma è anche terreno di riflessività, di critica e di rinnovamento [Biehl et al. 2007]. La dimensione esperienziale della soggettività è dunque fondamentale [Kleinman, Fitz-Henry 2007] tanto quanto quella culturale per rendere conto della sua variabilità.22 Ma, al di là di questa variabilità, l'ubiquità del concetto ci costringe a riflettere su che cosa

possano significare, essenzialmente, soggettività e soggetto, se esistano delle fondamenta 'universali' sotto le variabili contestuali, e in che modo possiamo operativamente utilizzare soggetto e soggettività nel riflettere sul nostro lavoro di campo.

Un'esplorazione più completa prenderebbe troppo spazio e porterebbe troppo lontano da quelli che sono i miei obiettivi – tanto in filosofia quanto nelle scienze sociali si è scritto molto, e dovremmo per completezza prendere in considerazione anche quello che psicologia e neuroscienze ci dicono su come noi ci percepiamo in quanto soggetti duraturi nel tempo. In questa sede mi posso permettere soltanto questo accenno. Tuttavia, proprio perché è un concetto onnipresente ma spesso dato per scontato, ho ritenuto utile soffermarmi molto brevemente su alcune delle direzioni che esso può prendere, e rendere conto di quella che ho personalmente preso. Come definizione «di lavoro», trovo convincente la proposta di Zigon di considerare la soggettività come uno spazio di possibilità di esserci-nel-mondo, uno spazio che è sempre relazionale e mutevole - non siamo soggetti in isolamento, e non siamo sempre lo stesso soggetto, anche se siamo in grado di percepire in una certa misura la continuità nell'immediatezza. La soggettività ha a che fare con i nostri «stati mentali», ma si definisce sempre di riflesso, attraverso il contatto con le soggettività altre. In particolare – e significativo per il mio lavoro di ricerca – la soggettività non è soltanto qualcosa di incoscio, ma è sito di riflessività e riflessione, e soprattutto può essere oggetto di lavoro trasformativo. Come vedremo, è su questa premessa che si fonda la stessa idea di riabilitazione.

21 In questa sede mi limito ad utilizzare il termine di soggettivazione nel senso stretto di processo storico che

porta all’emersione di una determinata soggettivit{, lasciando da parte le possibili sovrapposizioni con il concetto di assoggettamento.

22 Il concetto di esperienza presenta altrettante problematiche, che verranno affrontate in maniera più specifica

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