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Siamo qui perché alla fine non abbiamo nessun nascondiglio dove nasconderci da noi stessi. Fino a che un uomo non confronta sé stesso negli occhi e nei cuori dei suoi compagni, scappa. Finché non soffre abbastanza per essere costretto a condividere con loro il suo segreto non ha alcun scampo da esso. Preso dalla paura di parlare con gli altri, egli non riesce a conoscere sé

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stesso né nessun altro: sarà solo. Dove altro se non sei nostri punti comuni possiamo trovare un tale specchio? Qui, insieme, un uomo può apparire chiaramente a sé stesso non come il gigante dei suoi sogni o il nano delle sue paure, ma come un uomo, parte della comunità, con il suo ruolo da svolgere. In questo terreno possiamo mettere radici e crescere non più soli come nella morte ma vivi: un uomo tra uomini.

Superato l’ingresso, l’atrio, attraverso una doppia porta si accede alla sala comune, la ‘sala tv’. È qui che si svolge la maggior parte delle attività di gruppo, solitamente seduti, in cerchio. E sulla parete opposta alla porta, al centro, è attaccato un quadro dove sono scritte, a mano, queste parole. «La filosofia della comunità. È una cosa che don Brown ha imparato in America, e poi l’ha portata qui». Brown è un parroco di provincia, uno dei primi ad occuparsi di tossicodipendenti nella zona, sin dalla fine degli anni Settanta. Ha, in passato, gestito personalmente comunità, si è fatto promotore di vari progetti di riabilitazione, fra cui uno che avrei sentito ricordare numerose volte, il «Progetto Uomo», ed è stato fra i fondatori dell’associazione che amministra, fra le altre, la comunit{ di Lucerna. Il primo giorno in cui fui libero di muovermi autonomamente, Bret, un ragazzo della provincia di Pisa, a lungo il più giovane degli utenti della comunità, mi fermò per farmi fare una visita guidata degli spazi salienti della casa. Il primo, e più importante, era proprio la sala comune. «Io mi ci rivedo molto, nella nostra filosofia».

Ho già accennato a prospettive che moralizzano la dipendenza, che la iscrivono nel carattere dei soggetti. Narcotici Anonimi, ad esempio, che attribuisce la dipendenza ad una «incapacità di affrontare la vita così com’è», di «accettare responsabilit{ personali» [NA 2014, 15]. La comunit{ offre una rappresentazione molto simile, della quale la «filosofia» è assolutamente emblematica. Ci si arriva, in comunità, perché «non abbiamo alcun nascondiglio dove nasconderci da noi stessi», perché non abbiamo più alcun posto in cui scappare dal nostro problema fondamentale, la dipendenza. Perché non c’è altro posto in cui il dipendente è costretto a venire a patti con la propria condizione, con il proprio modo di stare al mondo, vedendoli non solo in sé ma negli altri che lo circondano.

Leggendo per la prima volta questo breve testo, mi saltò agli occhi immediatamente una significativa differenza rispetto ai gruppi di autoaiuto che stavo da qualche mese frequentando. Nella filosofia della comunità non si fa alcun riferimento esplicito alla tossicodipendenza, alle sostanze, alla riabilitazione. Non c’è niente che leghi specificamente questa filosofia al contesto del recupero dalla dipendenza. In una formulazione più succinta, si potrebbe dire che ciò che viene qui predicato è un percorso di (temporaneo) allontanamento dal mondo che dovrebbe portare a una più approfondita conoscenza di sé stessi. Sta in una comunità riabilitativa per tossicodipendenti, ma potrebbe stare in qualsiasi altro contesto riabilitativo. Forse, in qualsiasi altro contesto in cui l’obiettivo primario è quello di «lavorare su di sé». Ma è proprio per questo motivo che essa è rappresentativa della rappresentazione ‘dominante’ della dipendenza.

Se accettiamo la definizione di ‘morale’ che ci offre Jarrett Zigon [2008], per il quale essa è, fra le altre cose, il nostro modo di esserci-nel-mondo, incorporato e in una certa misura non riflessivo, allora

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la dipendenza, in questa prospettiva, fa precisamente parte dell’esistenza morale di questi soggetti, è

caratterizzante il modo in cui essi conducono la propria vita, individualmente ma ancora di più

all’interno delle proprie reti di relazioni, della propria quotidianit{ situata. Per certi versi, l’uso e l’abuso di sostanze sembrano quasi incidentali, come nelle definizioni diagnostiche del DSM-5, ma con un segno decisamente diverso: la predisposizione non è genetica, ma caratteriale. In questo senso la dipendenza si iscrive in profondità nella soggettività del dipendente, come manifestazione di un carattere, di una personalità, di una modalità (morale) di esserci-nel-mondo già presente, e della quale l’uso di sostanze finisce quasi per essere un sintomo.

Questo non significa che non sia necessario affrontare direttamente questo problema. Al contrario, l’obiettivo primario della comunit{ è proprio quello di insegnare ai tossicodipendenti come si può vivere senza usare sostanze. Tuttavia, proprio perché la dipendenza non è soltanto una patologia psichiatrica, ma coinvolge l’intera soggettivit{ dell’individuo, vivere senza sostanze è possibile soltanto attraverso un percorso di radicale trasformazione personale. Percorso che deve avere inizio dal riconoscimento che dalla dipendenza non si può tornare indietro. Che le sostanze sono sempre in agguato, e lo saranno per il resto della vita di ciascuno.

(...) è Ernest a rompere il ghiaccio. Per quanto sia il primo ad esprimere scetticismo quasi sdegnato rispetto all’esercizio di mindfulness con cui Marguerite24 ha iniziato il gruppo, è anche

il primo a parlare di sé. Il primo ad esporre le sue fragilità in quello che diventerà il tema della mattinata. E le fragilità che espone sono quelle: la rabbia, la frustrazione per la sua situazione attuale, per la sua difficoltà a trovare un lavoro, perché sente il profumo della libertà ma non vuole rischiare di finire nuovamente in mezzo alla cocaina: «non voglio rovinarmi tutto quello che ho fatto finora». In parte la comunità gli sta stretta; in parte si rende conto che è uno scudo protettivo importante per la sua attuale condizione. E, di nuovo, esprime quella paura del mondo esterno che pare caratterizzare la grande maggioranza delle persone che stanno lì dentro. Altri gli fanno eco. Albert, che sembra avere un religioso timore della libertà che uscire dalla comunità gli fornirebbe, ma che ugualmente la ritiene stretta e faticosa in una maniera che non gli si confà. Agatha, che ancora più di Ernest fatica sotto il peso della sua età e delle sue «opportunità sprecate». Jorge, che si sente abbandonato dal mondo e da Dio, e che non pensa di riuscire a fare nulla da solo. Persino Piergiorgio, che non avevo ancora sentito intervenire a condividere le sue emozioni, si è lasciato andare ad un inaspettato pessimismo, convinto che un recupero totale non sia possibile, che non potrà mai tornare alla sua precedente vita dopo quello che ha fatto. Fragilit{ è stata la parola d’ordine della mattinata, e Marguerite ha fatto scrivere a tutti la propria fragilità sulla lavagna. Tutti si sono alzati, a turno, silenziosamente. Pennarello rosso in mano, hanno scritto, ciascuno una parola. «Ricaduta», prevedibilmente. «Controllo». Ma anche «famiglia», «lavoro». Parole che sembrano collocare la loro idea di dipendenza strettamente dentro la loro quotidianità. In alcuni casi, non sembrano nemmeno

24 Consulente psicologa, che tiene, una volta a settimana, un gruppo sulla gestione della propria vita emotiva,

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avere direttamente a che fare con la dipendenza. (...) Ernest ha preso nuovamente la parola. Il dolore, il dolore e la rabbia che prova rispetto alla sua condizione, a quello che ha fatto, che ha passato e che ha fatto passare alle persone che lo amano, sono i sentimenti che lo dominano, ogni giorno. Marguerite gli ha anche fatto cacciare un urlo, per buttare fuori quella rabbia che gli si accumula nella pancia. Lui si è alzato, ha urlato, forte e a lungo, rosso in viso, e poi si è nuovamente seduto, in silenzio, e non ha più detto una parola fino alla fine del gruppo.25

Uno dei primi nuclei narrativi comuni che si sono venuti solidificando sin dall’inizio della ricerca è stato proprio questo atteggiamento timoroso, in certi casi propriamente fatalista, che gli utenti manifestavano nei confronti delle proprie possibilit{ nel ‘mondo esterno’. La comunit{ è uno spazio ‘sicuro’, in cui (almeno teoricamente) la tentazione più immediata, quella delle sostanze, è completamente assente. E dal perimetro della casa non si può uscire autonomamente (di nuovo, in teoria).26 Ma questa ‘sicurezza’ non fa che acuire, fra gli utenti stessi, la percezione della propria

fragilità, la convinzione che è soltanto grazie a questa «privazione di libertà» che essi mantengono un certo equilibrio nella propria vita.

Ciascuna delle persone nominate nel passaggio sopra citato del mio diario ha, a suo modo, raccontato l’ingresso in comunit{ come un salvagente cui si è aggrappata in un momento di assoluto smarrimento, di totale perdita di controllo.

Ernest è quello che forse maggiormente ha insistito su questa dimensione. Operaio di cinquantacinque anni, aveva gi{ passato un’esperienza con le sostanze durante l’adolescenza.27 Aveva

già fatto un percorso in comunità, nei primi anni Ottanta, proprio con don Brown. «Era una dipendenza diversa, quella da eroina. Ti distrugge il corpo ma non il cervello», raccontava spesso, in

25 Diario di campo, 5/12/2017

26 Non tutte le comunit{ riabilitative prevedono questo grado di ‘controllo’ interno: in alcuni casi, soprattutto per

comunit{ che hanno una significativa componente di reinserimento lavorativo all’interno del percorso di riabilitazione, è prevista la possibilità di muoversi e uscire autonomamente. Nel caso di Nocchi, la motivazione più immediata del controllo di entrate e uscite è la comorbidità, come già ho accennato. Essendo la struttura adibita al recupero di tossicodipendenti con ulteriori diagnosi psichiatriche, potenzialmente anche molto gravi, l’équipe ha ritenuto necessario tenere chiuso il cancello d’ingresso. Tuttavia, la presenza in comunità rimane sempre volontaria, e al di là di uscite concordate ciascuno degli utenti può formalmente abbandonare il proprio percorso in qualunque momento. Avremo in seguito modo di approfondire le contraddizioni e le tensioni che derivano da questo intrecciarsi di volontarietà e reclusione.

27 In questo caso, e così in molti altri, non ho avuto alcun modo di verificare la veridicità dei racconti degli utenti

della comunità. In alcuni casi, essi sono stati corroborati, da altri utenti o da operatori; in altri, ben più rari, ho avuto riscontro dalle famiglie o dagli psichiatri che seguivano il percorso in comunità della persona in questione; in altri ancora, ho ricevuto informazioni contrastanti o confutanti. Dove è stato possibile ho cercato di ottenere più versioni di queste narrazioni; tuttavia, non ritengo necessariamente fondamentale concentrarmi sul problema della veridicità. Consapevole del fatto che, anche nella migliore delle ipotesi, la memoria è una rielaborazione orientata verso il presente, ho ritenuto più utile cercare di comprendere il perché di questi racconti, e cosa mi potessero dire sulle soggettività in tumulto che ho incontrato nel corso della mia ricerca.

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gruppo e anche a me singolarmente. «Erano anche comunità diverse. Oltre ai farmaci, ti allontanavano proprio dal tuo ambiente. Dopo la comunità, non sono mica tornato ad abitare a casa mia». E questo gli aveva consentito di tenere nascosta questa esperienza alla ormai ex-moglie, al figlio, all’attuale compagna. «Sono rimasto sobrio per trent’anni, mi sentivo al sicuro. E poi, tutto di un botto, è arrivata la cocaina». Associava frequentemente la sua seconda tossicodipendenza a una «crisi di mezza età». «La cocaina mi faceva essere la persona che volevo essere». Ma le difficoltà si presentarono rapidamente, assieme a una escalation della frequenza del consumo. Diventava sempre più difficile mantenere il segreto, e soprattutto un equilibrio nella sua quotidianità. E soltanto quando questo equilibrio si dimostrò assolutamente irraggiungibile, soltanto dopo aver perso il lavoro, dopo essere stato scoperto dai suoi cari, Ernest si decise a rivolgersi nuovamente al suo Ser.D. di riferimento, e di accettare un nuovo periodo di permanenza in comunità, spinto anche dalla compagna e dal figlio. Piergiorgio e Albert raccontavano una parabola simile, con l’aggiunta di provvedimenti giudiziari a loro carico. Il primo arrivava in comunità direttamente dal carcere, avendo ottenuto la possibilità di una commutazione della pena in un programma riabilitativo diurno;28 il secondo, invece, era stato

denunciato dalla madre a seguito di un’aggressione ai danni di quest’ultima, effettuata sotto effetto di sostanze, ed era stato dichiarato socialmente pericoloso29. Ma in entrambi i casi significativa enfasi

veniva data alla propria incapacità di gestire i rapporti con la famiglia, le tensioni lavorative, gli impegni di una quotidianit{ ‘ordinaria’.

I casi di Agatha e Jorge seguono delle parabole differenti, ma con nuclei narrativi comuni. Entrambi con numerose esperienze di comunità alle proprie spalle, con diagnosi psichiatriche gravi, e incapaci di essere autonomi. Entrambi con un passato pluridecennale di abuso di sostanze. Ritorna, nei loro racconti, l’idea di aver perso completamente il controllo della propria vita, ma declinata in maniera diversa. Per, il cuore del problema erano gli effetti fisici che le sostanze hanno avuto sul suo corpo, ancor più che sul suo cervello. «Ce l’hanno portata direttamente dal pronto soccorso, che non era in grado di stare nemmeno in piedi», mi disse Jane dell’ingresso di Agatha. «Ha rischiato di perdere una gamba per la cocaina». «Non mi vedi? Sono vecchia, sono sfatta, non so fare niente, non posso mica vivere da sola. Il massimo a cui posso aspirare è di finire i miei giorni in una casa famiglia», lamentava spesso Agatha. «Se torno a casa mia, sono subito spade [siringhe]».

Jorge, al contrario, si preoccupava principalmente del significato spirituale della sua dipendenza. Mi raccontò di aver scoperto un profondo sentimento religioso dopo essere entrato in contatto con una

28 Ovvero, che non prevede la residenza in comunità. Per tutto il suo percorso, Piergiorgio arrivava la mattina

intorno alle 8:30, e tornava a casa intorno alle 18:00. Questo tipo di percorso gli era stato concesso perché egli si era rifiutato di svolgerne uno residenziale, ma tale scelta fu ripetutamente oggetto di contesa fra Piergiorgio stesso, la sua famiglia e l’équipe della comunit{.

29 La pericolosità sociale è una condizione legata alla presenza di patologie psichiatriche in caso di reato. Secondo

il nostro codice penale (art. 203), l’autore di reato, anche se non punibile a causa di «infermità mentale», se si ritiene «probabile che commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reati» può essere oggetto di una misura di sicurezza. Nel caso di Albert, la permanenza in comunità era subordinata alla sua condizione di «socialmente pericoloso», ma una pericolosità ritenuta comunque «attenuata», tale da non prevedere la necessità di un internamento in una REMS-D.

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comunità di testimoni di Geova, e di essersi rapidamente convertito. Ma questi lo allontanarono altrettanto rapidamente, dopo l’emersione dei suoi problemi con le sostanze, e delle sue patologie psichiatriche. L’interpretazione che Jorge dette di questo allontanamento è interamente interna al discorso religioso: l’abuso di sost Agathaanze, e le azioni fatte sotto effetto di sostanze, sono i suoi peccati, e il suo obiettivo in comunità è una riabilitazione tanto spirituale quanto fisica e mentale. Mi sono soffermato sulle narrazioni di queste persone per sottolineare come, seppur declinate variamente, esse si imperniano sempre sul momento della caduta, il «punto di non ritorno» che ha finito per determinare la cifra dell’esistenza di ciascuno. In comunit{ mi sono trovato di fronte a persone di età ed estrazione sociale variabile (la seconda, entro certi limiti), e tutti hanno restituito in qualche forma questo racconto di una caduta che li segnerà per il resto della vita. Può essere un momento, inaspettato e improvviso, come nel caso di Jorge; o un lento e apparentemente inesorabile percorso, come per Agatha o Ernest. Ma per tutti, la comunità è pensabile soltanto quando il mondo esterno, la vita precedente, sono diventati insopportabili, ingestibili. Le proprie condizioni fisiche, relazionali, materiali, non consentono più di «andare avanti». Se il ‘primo passo’ dei 12 del metodo di Narcotici Anonimi è il difficile riconoscimento della nostra impotenza di fronte alle sostanze, questo è un passo che chi arriva in comunità ha già compiuto. O meglio, è stato costretto a compiere.

Forse, fra le storie di vita che ho potuto ascoltare, quella che meglio esemplifica il timore del mondo, della caduta, la rottura dell’equilibrio della propria soggettivit{ che causa la spirale della dipendenza, è quella di Christiane.

Christiane è una donna marchigiana di quarantacinque anni. Sin dall’inizio, mi rimase impressa per le notevoli differenze, nel suo comportamento, rispetto agli altri utenti. Spesso silenziosa, solitaria, notai immediatamente un portamento e un modo di parlare estremamente misurati, impostati. L’impressione che ne ebbi fu quella di uno sforzo costante di proiettare un’immagine di controllo, di padronanza di sé, di precisione. Avrei con il tempo scoperto che questo suo atteggiamento non le attirava molte simpatie, né fra gli utenti né fra gli operatori. Ma, sul momento, mi sembrò un’interlocutrice privilegiata. E fortunatamente, anche lei la pensava allo stesso modo, e non fece resistenza a raccontarmi, all’inizio in maniera più sporadica e poi sistematicamente, la sua storia. «Ad oggi non so se il vizio troppo radicato, che si è andato radicando sempre di più, mi ha impedito di trovare continuità nello star bene. Quello che ti posso dire è che io ho sempre cercato, cercato, cercato di star bene». Con queste parole Christiane iniziò un lungo monologo, attraverso il quale ripercorse alcuni dei momenti che lei riteneva salienti della formazione del suo carattere. E uno in particolare che ha determinato in maniera drammatica la sua vita in famiglia. «Rovistavo fra vecchi giornali – lo facevo sempre, mi piaceva, come se fosse una caccia al tesoro – e mi è caduto l’occhio su un titolo. “Scandalo in via Dickens”. E io subito ho pensato, ma questa è casa mia, è la via di casa mia». Leggendo quell’articolo di giornale, Christiane scoprì che la madre era stata, anni prima, arrestata per un reato molto grave.30 «In quel momento, qualcosa dentro di me si è rotto. Ho sentito un crack, una profonda

spaccatura. E non ho potuto più amare mia madre. Mi crollarono tutte le poche sicurezze che potevo

30 Il nome della via è stato modificato per mantenere l’anonimato, e per lo stesso motivo ho deciso di non

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avere a quell’et{. E mi sono detta, devi far finta di nulla, devi dimenticare. Era una cosa talmente insopportabile, insostenibile, che non sapevo che altro fare. Mia mamma era il mio unico e assoluto punto di riferimento, e quel giorno ci fu uno strappo. Da lì mi venne una grande rabbia nei suoi confronti, che non potevo dirle, ma questa rabbia cresceva, cresceva, e quando ho potuto prendermi degli spazi per me, appena adolescente, l’ho subito fatto. Fuori trovavo la mia libert{, la mia ribellione». In questo episodio, nella rottura irreparabile del rapporto con la madre, dell’immagine che ella aveva della madre, Christiane posiziona le ragioni profonde della sua tossicodipendenza. «Era la mia fuga, la droga. Non è altro che questo, l’uso delle sostanze: una fuga da fermi». «Non è che tutto questo fosse razionale, sia chiaro. È stato solo con le comunit{ che l’ho portato a consapevolezza». E le comunità sono state numerose. Più di otto anni, in totale, distribuiti su tre diversi percorsi. A cui si aggiungono i tentativi di smettere «a secco», ovvero attraverso astinenza forzata, e tramite il supporto di metadone e altri psicofarmaci. Ma niente ha mai funzionato a lungo. «Devo imparare a stare bene fuori da qui. Perché stare bene in comunità, per me, è normale. Sennò non avrei fatto otto anni di comunità. Una persona che sta male, in comunità, non ci sta otto anni. Escluso