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5 novembre 2017. Dopo essermi accordato telefonicamente e telematicamente sia con l’amministrazione che con Jane, e aver ottenuto l’approvazione del mio progetto di ricerca, quest’ultima mi chiese di vederci, per poter discutere faccia a faccia degli ultimi dettagli della mia presenza in struttura e decidere una data ufficiale d’inizio.

Era una domenica, nel primo pomeriggio. Sapevo che la comunità era situata vicino alla chiesa di una piccola frazione di campagna, ma non conoscevo precisamente la posizione. «Vieni alle 14:45. Quando sei arrivato, chiamami che ti vengo incontro», erano le uniche istruzioni che avevo avuto da Jane. Parcheggiai la macchina di fronte alla chiesa. Erano le 14:31. Che tipo di persona dà un appuntamento alle 14:45 di domenica pomeriggio, pensai, mentre aspettavo. Nel frattempo, aveva iniziato a piovere.

Alle 14:44 chiamai Jane. Un minuto mi sembrava un anticipo più ragionevole di 14. «Vieni dietro la chiesa, ti vengo incontro». In quel momento, non sapevo cosa aspettarmi. Mi era stato comunicato che la struttura, che normalmente faceva lavoro di osservazione e diagnosi oltre che riabilitazione per doppie diagnosi, in quel momento aveva soltanto utenti in doppia diagnosi. Di nuovo, conoscevo il significato di queste parole, ma non le loro implicazioni concrete. Soprattutto, non per la mia ricerca, per la mia presenza, per la mia persona.

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Cominciai a percorrere la piccola strada dietro la chiesa. Qualche secondo dopo, vidi Jane emergere da dietro una curva. Indossava dei jeans e una felpa verde, entrambi dall’aspetto leggermente consunto. «Andiamo, prima di mezzarci completamente». La prima impressione che ebbi della comunità fu esattamente la stessa che ebbi dai vestiti di Jane: sembrava tutto consumato, forse un po’ fuori posto. La «struttura» che altro non era che una vecchia villa, in precedenza un asilo infantile gestito dalle suore locali; la «sicurezza» una catena per bicicletta, l’«ufficio» una stanza qualunque, con una scrivania troppo piccola, un computer e un armadio pieno di raccoglitori e cartelle. Devo chiudere la porta, le chiesi una volta entrati in ufficio. «No, no, non chiudere. Se chiudi, ogni cinque minuti arriverà qualcuno a bussare per chiedere qualcosa di inutile; se lasci aperto, invece, se ne fregheranno. Stai tranquillo». Alla scrivania erano poste tre sedie: una dal lato del computer, evidentemente la postazione di lavoro, e due dall’altro. Anche le sedie erano diverse, quella dalla parte del computer più grande. Senza prestare particolare attenzione a me, Jane si sedette dalla parte opposta, sulla sedia piccola più interna, posizionata in uno degli angoli della stanza. Non so per quale motivo, ma la cosa mi colse di sorpresa, come se fosse stata violata una regola implicita della nostra relazione in quello spazio. Ero io a dovermi sedere in un angolo, non lei, che non solo in quel posto lavorava, ma ne era anche la responsabile. Jane percepì la mia esitazione. «Siedi dove ti pare». Istintivamente, sedetti dalla parte opposta della scrivania, sulla sedia grande. «Preferisci fare così, quindi?», mi apostrofò Jane, con un sorriso compiaciuto. Già avevo commesso un errore.

Dopo quella che percepivo come una gaffe, una dimostrazione di insicurezza di fronte ad una persona che non mi dava l’idea di perdonare queste cose, andai momentaneamente nel pallone. «Insomma, come vuoi impostare questa ricerca?», mi chiese Jane. Farfugliai qualcosa sulle implicazioni dell’etnografia, dell’osservazione partecipante, sul perché non ricercavo delle risposte univoche e «oggettive». Jane mi interrompeva regolarmente, per sondare quale fosse la mia preparazione, quali le mie intenzioni, quali le mie aspettative. Cercai faticosamente di tenerle testa. Non ero in quel luogo per dare un giudizio di valore sul funzionamento della struttura. Sicuramente avrei mantenuto la riservatezza degli utenti e degli operatori. Avrei cercato per quanto possibile di non influenzare troppo la quotidianità della struttura. Ma, altrettanto nei limiti del possibile, avrei progressivamente voluto partecipare a quanto più della vita della comunit{. Ritengo che essere presente sia l’unico modo in cui posso veramente cercare di comprendere le dinamiche che governano questo posto, e le storie di chi lo abita, le dissi.

«Non so di preciso quali siano i tuoi obiettivi, se hai qualcosa da dimostrare». Jane mi guardava con espressione stanca. Sul momento, attribuii la cosa al fatto che fosse di turno, da sola, di domenica pomeriggio. Ma quello sguardo esistenzialmente affaticato, avrei imparato in seguito, è sotteso a tutto ciò che Jane fa all’interno della comunit{. «Ti renderai subito conto che il nostro è un lavoro difficile. Che non succede spesso di avere pienamente successo in un percorso. Al contrario», continuò, «la prima cosa che possiamo fare è quella di tenerli qui il più possibile, lontani dalle strade, dai vicoli, dalle pinete, da tutti i loro posti», e pronunciò la parola loro con disapprovazione tinta di tristezza. «Finché

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ad un certo punto se ne vanno, o i Ser.D. smettono di pagare,64 o una delle mille cose che possono

succedere. Finché stanno qui, cerchiamo di mantenerli in vita, quantomeno. Cerchiamo di dare alle loro famiglie un po’ di respiro. Spesso sono quelle che risentono maggiormente dello stile di vita dei nostri pazienti. Cerchiamo, con sforzi enormi, di insegnar loro qualcosa. Questa è la cosa più difficile in assoluto, e di solito facciamo buchi nell’acqua. Ma ci proviamo. Proviamo a tenerli qui nelle migliori condizioni che possiamo. Lo vedrai, ma fra le doppie diagnosi non è che ci siano grandi speranze di ‘guarigione’, nemmeno grandi margini di miglioramento con alcuni».

Avevo perso il senso del tempo. Feci un balzo, quando sentimmo bussare con forza alla porta, che era sempre aperta. Si affacciò un ragazzo, che al momento non mi sembrava avere più di vent’anni. Non avevo visto ancora nessuno degli utenti, e cercando di non farmi notare troppo lo squadrai. Indossava un cappello da baseball, una maglietta di una squadra di basket dell’NBA (i Chicago Bulls) e dei jeans molto ben curati. Sembrava uscito da un locale qualunque del lungomare della mia città. Troppo giovane per trovarsi in un posto del genere, pensai immediatamente.

«Posso prendere lo stereo?», chiese a Jane, ignorandomi completamente. Jane mi lanciò uno sguardo, che interpretai come un «presta attenzione». Poi si rivolse al ragazzo, che ancora non mi aveva assolutamente considerato. «Sì, certo. Però non esagerare con il volume. Stiamo parlando qui», e mi indicò, «non vogliamo farlo urlando come in discoteca». Il ragazzo mi guardò. «Sì, sì, tranquilla», rispose a Jane, e poi rimase fermo pochi ma interminabili secondi, ancora fissandomi. Piacere, mi chiamo Lorenzo, gli dissi, tendendo la mano. Esitò. «Un nostro amico, verrà a lavorare qui da noi per un po’ di tempo», intervenne Jane. «Ah, ok», rispose il ragazzo, e mi strinse la mano. «Piacere, Bret». Troppo forte.

Perse immediatamente interesse nella mia presenza. Si voltò e prese dall’armadio una piccola borsa rossa, e poi lasciò l’ufficio. Dopo un secondo tornò indietro. «La porta era aperta o chiusa?» «Aperta», gli rispose Jane, guardando me. E quando Bret se ne fu andato, mi disse con una smorfia quasi compiaciuta che quella era la normalità. «Quanto tempo è stato qui dentro? Due minuti? Meno? Ti puoi fare un’idea di quali sono le loro condizioni psichiche». Ero ancora leggermente disorientato. «Stando qui dentro, frequenterai i gruppi. E ti renderai conto che ai gruppi sono estremamente performanti. Non ti sembrerà di stare in una comunità per tossicodipendenti. Intervengono, partecipano, a volte sono quasi eloquenti. Sembrano altre persone. Per questo cerchiamo di far fare loro quante più attività reggono. Altrimenti, si perdono. Lo vedrai. Oggi, per esempio, non c’è niente da fare, la domenica non c’è mai niente da fare, e loro se ne stanno a letto. Oppure fuori a ciondolare. Se non piovesse, li vedresti seduti nel piazzale, a fumare, a fare niente. Non riescono a stare concentrati, focalizzati su di una cosa sola, se non stai loro dietro. E se si fanno prendere dalla noia è un disastro. Cominciano a scompensarsi, oppure si perdono». Dal corridoio, iniziò ad arrivare della musica hip-hop. Troppo forte.

64 Nella grande maggioranza dei casi, i servizi sanitari locali che chiedono l'ingresso di propri pazienti nelle

comunità concordano un programma di massima di una durata prestabilita, e allocano i fondi necessari per coprire le spese di tale programma. È solo attraverso tali fondi che sono possibili questi percorsi riabilitativi, perciò il problema del loro finanziamento è sempre presente, almeno implicitamente, nella negoziazione fra comunità e servizi sanitari.

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Cosa significa riabilitazione? Quali sono le possibilità materiali che una persona come Bret ha, una volta uscito di comunità, di non ricominciare a usare, non essere nuovamente riassorbito dalle sue frequentazioni criminali? Difficile dirlo. Difficile, soprattutto perché poco prima che la mia ricerca si concludesse Bret dovette tornare proprio in carcere, per l’arrivo di un cumulo di pena che non gli consentiva di rimanere in comunità. Perché già in primavera, quando si trovò di fronte a degli ostacoli nel suo programma post-Lucerna, quando si vide palesare la possibilità concreta di dover passare altro tempo in un’altra struttura, chiese lui stesso di tornare in carcere, in presenza dei genitori. E quando Jane gli chiese quale fosse la motivazione da addurre, lui non seppe dare una risposta. «Che ne so», disse, «scrivici che mi piace la droga».

Non ho precisamente idea di cosa mi aspettassi di trovare a Lucerna, quando chiesi le autorizzazioni necessarie per condurre questa ricerca. E questo vale tanto più per la delicata fine del programma, per le prospettive che gli utenti hanno fuori dalla comunità. La mia conoscenza, seppur di seconda mano, del campo della psichiatria delle dipendenze non mi lasciava molto speranzoso rispetto alle possibilità di una riabilitazione che significasse effettivamente sobrietà, oltretutto per il resto della vita di ciascuno dei riabilitanti. Quello che sicuramente non mi aspettavo era il diffuso pessimismo da parte degli operatori stessi, la scarsa convinzione rispetto a quelle possibilità materiali di recupero che dovrebbero offrire. Il tasso di ricaduta è già molto alto, in media, e tutti coloro che lavorano nelle dipendenze si aspettano quotidianamente di sentire che qualcuno che hanno conosciuto ha ricominciato a usare, o peggio.65 E in un posto come Lucerna le possibilità sono ulteriormente

compresse dalla comorbidità, che complica significativamente la situazione, non soltanto sul piano clinico ma anche su quello sociale e relazionale. L’abuso di e la dipendenza da sostanze è già, di per sé, uno stigma molto forte senza aggiungerlo a quello di un’altra patologia psichiatrica. Per questo nel colloquio preparatorio che tenni prima di iniziare a frequentare la comunità Jane fu subito sollecita nel sottolineare che quello di «insegnare a vivere» è, nella migliore delle ipotesi, il terzo obiettivo in ordine di importanza fra quelli che loro, in quanto operatori di comunità, si pongono con quelli che accolgono. Un obiettivo molto distante dai primi due, salvare (e prolungare) la vita degli utenti e lasciare qualche mese di riposo alle famiglie.

Ma non è sempre tutto così semplice, nemmeno per gli operatori stessi. Nemmeno per Jane, che sembra sempre così fortemente convinta di ciò che fa e di come lo fa, che nonostante la pesante quotidianità che vive a Lucerna, raramente lascia che siano messi in dubbio i principi su cui fonda i percorsi riabilitativi che gestisce. Anche Jane, in certe occasioni, si pone delle domande fondamentali, domande che rischiano di scuotere le stesse fondamenta della riabilitazione in comunità.

Perché è così difficile? Perché ne perdono così tanti per strada? Jane si è fatta questa domanda stasera. Ci ha fatto, forse. Ha persino tirato esplicitamente in ballo me. Da quella sera, anche in quel caso un gruppo genitori, ho cercato di non pronunciarmi troppo, di non prevaricare il mio ruolo e fare il lavoro di chi non sono. Però stavolta mi hanno trascinato. «Ho molta speranza

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nella tua ricerca», mi ha detto. Tanto per non mettere ulteriore ansia a quella che già ho, ulteriore senso del dovere e di responsabilità a quello che già grava sulla mia schiena. «Non dovrei?», ha aggiunto, a seguito della mia risata. No, forse non dovresti. Non dovresti pensare che da questo caos possa uscire qualcosa che ti aiuti a fare meglio il tuo lavoro. Se io farò bene il mio, l'unica cosa che ti potrò rispondere è e sarà sempre «è più complicato di così». Però qualcosa ho dovuto dire stasera. Perché c'è un alto tasso di recidività fra gli ex carcerati? Perché le istituzioni non riescono ad operare che in maniera lineare. Perché anche dove la volontà riabilitativa c'è, da parte di entrambe le fazioni in gioco, ci sono una serie di meccanismi che non sono facilmente scordinabili o aggirabili. Perchè l'istituzione sanitaria non riesce, forse non può, intervenire su tutti gli aspetti della vita di una persona, perché si fatica a delimitare un campo d'azione entro il quale concentrare gli sforzi. Ho cercato di portare un po’, ma non troppa, acqua al mio mulino, notando che alcune dimensioni dell'esperienza della malattia rimangono nei percorsi terapeutici molto marginali, ma contribuiscono significativamente a creare sofferenza. Non so quanto sono stato convincente. Forse sono solo sembrato presuntuoso.66

Mi stupì sentire Jane che si poneva il problema dell’efficacia della riabilitazione. Non soltanto perché mi era sempre sembrata quella più monolitica, più fortemente convinta della validità di ciò che veniva fatto a Lucerna. Soprattutto, perché non riuscivo a riconciliare quella domanda con le parole che mi aveva detto al momento del mio ingresso in comunità. Certo, è chiaro che non possiamo definire la riabilitazione come la sobrietà per il resto della vita di ciascuno; o meglio, se la definiamo in questo modo, rimangono ben poche speranze, quando cerchiamo di allungare lo sguardo a quello che succede «fuori» [cfr. Zigon 2011]. Cambiare la prospettiva che abbiamo della «riabilitazione» è fondamentale, non soltanto per trovare il modo di alleviare le sofferenze delle persone che passano da strutture come quella di Lucerna, ma anche per sopravvivere al loro interno da professionisti. Perché la consapevolezza, parola inflazionata nel discorso tanto degli operatori quanto degli utenti ma che si rivela in questo caso sorprendentemente adatta, la consapevolezza maturata con fatica delle limitate possibilit{ della riabilitazione non rende emotivamente più leggera l’esperienza dell’abbandono, della ricaduta, del ritorno, non impedisce di percepirli come un fallimento, almeno in qualche misura. Gli abbandoni di Christiane, di Jorge, le difficoltà di Ernest, di Stephen e di Chuck dopo la fine dei loro rispettivi programmi, per quanto possano essere eventi ‘previsti’ contribuiscono a creare un’atmosfera, un umore, inteso nel senso che al termine attribuisce Jason Throop, di «mezzo esistenziale attraverso il quale le nostre riflessioni prendono forma» [Throop 2014, 70], di sostanziale

incertezza. Atmosfere e umori che colorano il rapporto che abbiamo con il nostro mondo, che rivelano

«preoccupazioni in divenire» [ibidem] rispetto al nostro essere-con. Rispetto, nel caso della comunità di Lucerna e dei suoi operatori, al significato della riablitazione, al senso esistenziale del lavoro che stanno compiendo.

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Quella sera, forse per la prima volta dopo quasi un anno, sentii veramente di capire Jane. Più degli altri, di tutti gli altri, mi era rimasta imperscrutabile. La sua capacità di mantenere salde le sue convinzioni morali, i pilastri della responsabilità e della consapevolezza, della libertà e della scelta, mi era sembrata in certe occasioni eccessiva. Fui tentato, lo sono ancora in una certa misura, di pensare questa capacità come una forma di razionalizzazione, uno strumento di sopravvivenza in un contesto in cui le buone notizie sono rare e fugaci. Ma non è soltanto questo. Gli obiettivi, pur apparentemente contraddittori, riescono a coesistere senza dissonanze. Senza dissonanze cognitive, quantomeno. Forse, per le dissonanze emotive è diverso. Sapere che il successo di un percorso di riabilitazione non sta necessariamente, o non soltanto, nella sobrietà futura, non significa necessariamente non tendere in quella direzione ideale ma forse impossibile. Non significa che il fallimento dell’obiettivo della sobrietà non sia qualcosa che grava sulle spalle degli operatori. Non significa che consapevolezza e senso di colpa o di inadeguatezza non possano convivere.

Quella sera, dopo un faticoso gruppo con i familiari, e un’altrettanto faticosa discussione con gli operatori che erano rimasti per la sera, aspettai che Jane uscisse. Fa spesso la notte quando ci sono i familiari, e quando non la fa esce sempre più tardi dei suoi colleghi. Era più tardi del solito, ma non volevo lasciar cadere quella domanda in un irrisolto niente. Quindi la accompagnai alla sua macchina, e ci fermammo a parlare ancora qualche minuto. All’inizio, fui io a cercare di riallacciarmi a quello che lei aveva detto – e a quello che già avevo risposto. Mi resi rapidamente conto che non era un dialogo, non realmente: stavo dando voce ad alcuni dei miei dubbi, dubbi che mi portavo dietro ormai da mesi, e che non ero mai riuscito coerentemente a esprimere.

Il problema fondamentale, le ho detto, è che il rapporto fra operatori e utenti è un rapporto che si configura sin dall’inizio come antagonistico. Ho sempre avuto l’impressione, guardando da una certa distanza i miei genitori, che un sottofondo di antagonismo sia frequentemente presente nel rapporto medico-paziente, o se non antagonismo forse sfiducia. Che quando parli con il tuo medico pensi in termini di «cosa vuole sentirsi dire», almeno all’inizio, e progressivamente cercate entrambi di abbattere il muro, e stabilire quella fantomatica alleanza terapeutica della quale sentiamo costantemente parlare. Ma in comunità il lavoro di abbattimento del muro, di costruzione di un’alleanza, non può essere lineare, non può avvenire nelle stesse modalità in cui avviene con il medico di famiglia. Il peso della vicinanza, della condivisione della quotidianit{, fa sì che la strada verso l’alleanza sia costellata di tanti piccoli ostacoli, difficilmente evitabili forse. Ostacoli che si sommano alle incomprensioni, ai sospetti, agli obiettivi a volte confliggenti. A quel punto, Jane mi ha interrotto, per esprimere il suo disaccordo. «Vedi, questo è il problema, per esempio, di una persona come Virginia. Per lei, discende direttamente dalla sua formazione. Sai qual è la differenza fra educatori e psicologi? Che gli educatori non pensano che l’alleanza terapeutica sia necessaria. Io non cerco un’alleanza con loro. Se viene, meglio, ma se non viene non è tutto compromesso».67

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In quel momento, le sue parole mi stupirono. Come poteva pensare di non stabilire un’alleanza terapeutica con le persone che entravano in comunità per cercare di sfuggire alla tossicodipendenza e a tutte le sue drammatiche conseguenze? Dopo essermi faticosamente liberato dell’impressione che la comunità e la riabilitazione altro non fossero che un modo per «disciplinare i corpi», come sostiene Jarrett Zigon, per «insegnare i giusti sentimenti» [Zigon 2010, 2011], ecco che Jane riportava l’idea al centro della mia testa. E tutta quella comprensione che avevo sentito nei suoi confronti soltanto un’ora prima mi sfuggì di nuovo. Ma, retrospettivamente, queste parole assumono un senso diverso. Assumono un senso diverso se le leggiamo alla luce dei tre obiettivi fondamentali che Jane stessa si pone quando decide a chi dare la disponibilit{ per l’ingresso. Se la comunit{ è il primo luogo uno spazio sicuro, uno spazio in cui è nell’immediato tutelata la vita e la salute di persone che molto spesso sono arrivate a un passo dalla morte, utilizzare come discrimine la possibilit{ di stabilire un’alleanza porta in una direzione diversa. Se la parte fondamentale della riabilitazione è quella che si dispiega