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«Io non sapevo dove mi stavano portando, ma ero in fin di vita. Prima di venire qui, la mia vita era stare in una stanza piena di spazzatura a bucarmi», mi raccontò Agatha del suo ingresso a Lucerna. «Poi, un giorno, sono stata al pronto soccorso, mi hanno ricoverata e poi mi hanno portato direttamente dalla psichiatria a qui, e le cose sono cambiate, ma non perché io lo volessi, sono cambiate per forza. Questo è un posto che ti impone di vivere. Meno io ho voglia di vivere, più questo posto me lo impone».

Jane ripeteva sempre che il primo obiettivo concreto che si poneva per le persone che accoglieva in comunità era quello di salvare loro la vita, toglierle «dalla strada» per prevenire danni irreparabili, o ulteriori danni irreparabili. Ma salvare loro la vita non significa semplicemente rimuoverli da situazioni di rischio: questa è senza dubbio una condizione necessaria, ma non sufficiente. Quando Agatha parlava della comunità come un posto che «impone di vivere», non si riferiva soltanto al fatto che era in comunità che aveva lentamente recuperato le proprie facoltà fisiche e mentali, alla capacità di sopravvivere; ma soprattutto al fatto che la riabilitazione presupponeva uno sforzo di vivere

relazionalmente, di occupare uno spazio sociale, per quanto ridotto possa essere, in cui agire e

impegnarsi. È un’ulteriore conseguenza del focus sul concetto di responsabilità, che è verso sé stessi ma anche verso gli altri, anzi forse prima e più verso gli altri, perché ha un immediato riscontro e costringe ad uscire dal proprio isolamento.

Era questo che Agatha trovava particolarmente pesante della vita a Lucerna: la necessità di essere- con, di condividere con altre persone la propria quotidianità. «Io ormai mi sono annoiata di vivere, non ce la faccio più. Mi sveglio la mattina, e l’unica cosa che desidero è andare nuovamente a dormire. Non parlare con nessuno, e tirare avanti finché va».

«Tirare avanti», struggling along, è un concetto che Robert Desjarlais [1994] utilizza per criticare l’universale applicazione del concetto di esperienza. Nel corso della sua ricerca in un dormitorio per senzatetto con problemi psichiatrici, Desjarlais nota che tutte quelle caratteristiche che tipicamente associamo all’esperienza, la coerenza, l’essere legata a una soggettivit{ stabile che è quella che

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esperisce, la salienza, la profondità ermeneutica, non sono automaticamente presenti nella vita quotidiana di tutte le persone. Al contrario, i soggetti che ha incontrato vivono una vita incostante, a singhiozzi, in cui non c’è coerenza e non c’è salienza.

For most, hanging in there is good enough. People stay busy by talking, smoking cigarettes, and pacing. The goal of many of these activities is to be doing something. Time consists of concrete activities marked by expanses of silence and waiting. [ivi, 892]

Una distinzione così netta fra cosa possa considerarsi esperienza e cosa invece sia altro non rende efficacemente l’ampiezza del dibattito su questo concetto; tuttavia, l’intuizione di Desjarlais è ugualmente utile, perché ci consente di mettere a fuoco uno specifico modo di «esistere» quotidianamente. Questo «tirare avanti», questo «resistere», è una modalità che ho spesso ritrovato a Lucerna. È la modalità di esistenza alla quale Agatha anelava, senza dover mai passare al livello più strettamente ‘esperienziale’ per come lo intende Desjarlais, senza dover passare per la riflessivit{ e l’ermeneutica di sé stessi. Ma queste due dimensioni sono centrali per la comunit{, sono imposte nello stesso processo che impone di vivere. Potremmo forse sostenere, anche alla luce della riabilitazione come esercizio spirituale di cui ho parlato in precedenza, che c’è coestensivit{ fra queste due imposizioni, che nel contesto del programma riabilitativo vivere è in qualche modo essere riflessivi. Ma nel capitolo precedente ho già sottolineato come la riflessività non abbia sempre dei risultati lineari. Non li ha avuti nel caso di Agatha, che concluse il suo percorso di riflessione sul suo passato e sulle possibilità per il suo futuro convinta della necessità di «rimanere rinchiusa», di vivere il resto della sua vita all’interno di una struttura sanitaria. Tutti gli sforzi di renderla consapevole e responsabile non solo del suo passato, della sua malattia, dei suoi errori, ma anche della sua guarigione, della sua progettualità, non avevano che rafforzato il suo abbandono, il suo desiderio di cedere il controllo della sua vita a qualcun altro. Esperire, per Agatha, era troppo doloroso. L’unica soluzione è tirare avanti.

Anche dove alimenta uno slancio trasformativo, l’obbligo di vivere viene riappropriato in maniera specifica e singolare. «Mi sono cacciata in una situazione in cui per me si tratta di vivere o di morire, perché sono diventata anche sieropositiva dopo quest’ultimo fallimento, e avendolo fatto anche con la consapevolezza di poterlo diventare, mi ero fatta con una siringa di un mio amico sieropositivo, senza preoccuparmi troppo. In quel momento, per me, vivere o morire cambiava poco, anzi mi ero trovata una buona scusa per morire, un alibi, con più tranquillità. E invece guardami adesso, voglio star bene, voglio rimettermi in gioco, so che ho ancora molto da offrire. Del resto, oggi, con la sieropositività, se fai una vita regolare, ci si fa. Non è più come negli anni Ottanta, oggi prendi una pasticchina la mattina». Christiane aveva contratto l’HIV dopo la sua ultima ricaduta, prima di arrivare a Lucerna. Ed esso rappresentava, in qualche modo, la sua prospettiva sul mondo, sul suo mondo. Una condanna a morte, senza mai sapere la data dell’esecuzione. Ma anche questa malattia ha una dimensione rappresentazionale. Anche l’HIV può avere un significato diverso. «Questo virus io ormai lo chiamo Ivo,

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perché è il mio virus, l’ho voluto prendere, e mi sembra che questo Ivo sia un uomo che è entrato nella mia vita per proteggermi. Pensa un po’. Fortuna che ho una fantasia sfrenata, che ho sempre avuto e che mi ha sempre aiutata a trasformare le cose brutte e assurde in cose belle. Proteggermi da chi? Da me stessa, dal mio lasciarmi andare, dal mio buttarmi via. Adesso c’è Ivo, e Ivo, se io mi comporto male, prende il sopravvento e mi fa del male. Quindi, se vogliamo vivere in pace, bisogna che io mi comporti bene».

Anche per Christiane quella di vivere fu, all’inizio, un’imposizione, qualcosa che richiedeva uno sforzo che non voleva fare, o forse non era in grado di fare. Dopo multipli tentativi di suicidio, era arrivata al punto di non avere più la forza nemmeno per quello, per terminare consapevolmente e autonomamente la propria vita. Anche per questo aveva accolto quasi con sollievo la notizia della sua sieropositività. Ma era sopravvissuta anche a quella. «Forse, è stato un segno», mi disse. Perciò, ne aveva fatto un incoraggiamento non soltanto a tirare avanti, ma a tornare a «vivere», a riappropriarsi della sua esistenza e restituirle significato morale.

Christiane era probabilmente la persona che maggiormente aveva preso sul serio la dimensione ‘spirituale’ della riabilitazione come esercizio. Non soltanto si impegnava sempre nelle attivit{ lavorative, ma soprattutto era costantemente dedicata al «lavoro su di sé» inteso come processo di messa in dubbio delle basi esistenziali della propria vita, della propria ‘morale’ nel senso di esserci- nel-mondo. E cercava di farlo in primo luogo con lo sforzo di costruirsi una diversa abitudine, un atteggiamento non solo mentale ma anche corporeo che la aiutasse a sentirsi diversa, prima ancora di poter dire di esserlo.

Sin dall’inizio della mia ricerca, come ho gi{ ricordato, Christiane mi aveva dato l’impressione di essere la persona forse più disponibile ad accettare la prospettiva della riabilitazione come trasformazione. Ma nei mesi successivi, e in particolare fra dicembre e gennaio, portò questa prospettiva alle estreme conseguenze. Si era sempre immaginata come un ‘tramite’ fra operatori e utenti, in grado di interpretare le esigenze dei secondi e le richieste dei primi meglio di quanto non potessero farlo gli altri, e quindi di svolgere un ruolo di mediazione. Tuttavia, questo la portava spesso a entrare in rotta soprattutto con gli altri utenti, che non apprezzavano l’ambiguit{ della sua posizione. Il suo sforzo trasformativo iniziò proprio dall’allontanamento da questa prospettiva, e una maggiore concentrazione su ciò che era importante per il suo stesso benessere. Questo avrebbe significato portare sotto il proprio consapevole controllo la sua tendenza a pronunciarsi su tutto e tutti, a considerare il proprio contributo necessario in ogni conversazione. Avrebbe significato, in generale, cercare di riportare quanto più possibile della sua soggettività e del suo comportamento sotto il proprio controllo.

Il modo in cui questa acquisizione di autocontrollo di manifestò fu soprattutto corporeo. Progressivamente, Christiane iniziò a mutare portamento, a essere più attenta, precisa e misurata in tutti i suoi movimenti. Durante i gruppi, stava seduta in maniera diversa, più distesa, meno pronta a intervenire in ogni momento (e meno propensa a fare eco agli operatori, cosa che in precedenza faceva molto spesso). Smise di fumare e poi di bere caffè. Nel corso di poco più di un mese, aveva radicalmente mutato il suo modo di vivere la sua quotidianità. «Le è anche cambiata la voce»,

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commentò Jane, scettica rispetto al radicamento di questa trasformazione. «Non ho mai visto una persona cambiare così tanto così in fretta. Non so quanto possa durare, o quanto sia superficiale questo cambiamento».

Sicuramente c’era un collegamento fra la trasformazione dei suoi atteggiamenti corporei e quella della sua soggettività morale. Non solo perché erano arrivate in concomitanza, ma soprattutto perché scomparivano in concomitanza. Quando Christiane era incapace di mantenere il controllo, quando le sue precedenti abitudini tornavano in superficie e non era in grado di fermarle, non soltanto tornava a essere rigida, a muoversi e portarsi diversamente; emergeva anche un molto pronunciato accento marchigiano, quasi a segnalare un’imminente scivolamento nel suo vecchio Sé. E quando riprendeva le redini, riprendeva anche la sua ‘nuova’ voce. Lei stessa riconosceva che questo era un marcatore dell’imperfezione del suo sforzo di autocontrollo. Un marcatore che emerse sempre più frequentemente, fino al momento del suo abbandono.

All’altra estremit{ dello spettro, Lauren si trovò nella situazione di dover declinare questo obbligo nella sua dimensione relazionale e terapeutica. Al momento del suo ingresso, nel mese di aprile 2018, dava l’impressione di essere molto fragile, più della media dei nuovi utenti. Silenziosa, riservata, sempre in riga, non ebbe grosse difficoltà a inserirsi nella vita quotidiana e lavorativa della comunità. Ma era impossibile farla parlare di sé, in qualsiasi modo. La sua presentazione fu assolutamente minimale. Nome, et{, sostanza d’elezione, natura del problema. E anche quest’ultimo punto fu molto sintetico. Spiegò che aveva iniziato a fare uso di cocaina con il compagno e alcuni loro amici, in maniera assolutamente ricreazionale, nel fine settimana. Quando era rimasta incinta, aveva smesso, e anche lui aveva deciso di smettere. Lauren, però, aveva ricominciato dopo il periodo dell’allattamento, e le cose erano andate inesorabilmente peggiorando, finché i suoi genitori non l’avevano praticamente costretta a fare un percorso in comunt{. Nient’altro. Abituati ai tortuosi e lunghi racconti di persone «senza filtri», la storia di Lauren sembrava quasi inesistente.

Nei mesi successivi, non cambiò molto. Durante i gruppi con i familiari, Jane e Virginia ripetevano costantemente ai genitori di Lauren che lei era praticamente assente, che adempieva alle sue responsabilità minime ma che ancora non si era fatta conoscere praticamente da nessuno. E in effetti quando era il momento di confrontarsi, di parlare del proprio percorso, delle proprie emozioni, di elaborare il «lutto delle sostanze», rimaneva silenziosa, spesso con gli occhi bassi, quasi a scoraggiare gli altri a coinvolgerla in qualsivoglia discussione.

Le cose cambiarono forzatamente quando, verso la fine dell’estate, Jane iniziò a tenere il gruppo fotogramma, in cui era necessario parlare di sé. Ed era anche necessario partecipare. Più il tempo passava, più incontri di questo gruppo si tenevano, più si riduceva il cerchio di persone che dovevano ancora «lavorare». Finché, un giorno verso la fine di ottobre, Jane comunicò a Lauren che l’incontro successivo sarebbe stata lei la protagonista. Qualche giorno dopo, al mio arrivo Lauren mi venne incontro con una richiesta inaspettata.

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Lauren mi ha chiesto di fare una prova del suo discorso per il gruppo fotogramma, perché è molto ansiosa, non riesce a parlare mai di sé, non si sente a suo agio. E quindi sono andato giù con lei, dietro la lavanderia. Abbiamo fatto le prove, lei con il foglio degli appunti, indicandomi il significato delle diverse immagini. Le tremavano le mani, anche se era solo con me. L'ho invitata ad aprirsi un po' di più, perché lei è già abbastanza «adeguata» rispetto alla questione gestire la quotidianità. 68

Nessun altro aveva preso così profondamente sul serio il gruppo fotogramma. Forse soltanto Julio, che però sapeva già cosa voleva dire e aspettava soltanto l’occasione giusta per farlo. Per Lauren, invece, quel gruppo era radicalmente antitetico rispetto al modo in cui aveva vissuto il suo percorso riabilitativo, ovvero personalmente e privatamente. Ma per poter veramente vivere in comunità, è necessario rendersi vulnerabili, lasciare che gli altri vedano i nostri difetti, aprire la porta alle critiche e soprattutto alla presenza dell’altro nella nostra vita emotiva. L’essere-con che dovrebbe caratterizzare la quotidianità (e dovrebbe essere il punto fondamentale dell’azione terapeutica e riabilitativa della comunit{ stessa) costringe a sottoporsi al giudizio dell’altro, a rendersi osservabili [Das 2015].

Alla fine il gruppo è andato bene. In relazione, quantomeno. Nella sua storia, in quella che ha raccontato a me, la sostanza è un fantasma, un diavolo tentatore, ma compare poco o nulla, e mai per nome. Jane l'ha costretta a parlarne, l'ha messe alle strette, e alla fine ha anche risposto, prendendo un po' di fiducia in sé stessa, e meno timore del giudizio forse, ed ha anche raccontato un po' delle sue esperienze con la sostanza, anzi, della cocaina, che finalmente ha nominato.69

Lauren aveva preparato una storia molto ordinata, coerente, della propria tossicodipendenza. Non necessariamente per abdicare alle proprie responsabilità – l’insistenza sulla natura ricreazionale del suo uso, almeno nei primi tempi, restituiva una narrazione molto archetipica di una persona che rimane «invischiata» nelle sostanze per averle sottovalutate – ma soprattutto per contenere il più possibile il posto e il ruolo che la tossicodipendenza aveva nella storia della sua vita. Una vita che era cominciata e finita con l’ex compagno. Si erano conosciuti da adolescenti, ed erano rimasti insieme fino a che, più di vent’anni dopo, Lauren non aveva perso completamente il controllo del suo uso di sostanze. In alcuni punti salienti, emergeva la dipendenza, ma per il resto l’immagine che Lauren cercò di dare era di una vita felicemente «normale».

Jane la interruppe molte volte. Le chiese di essere più specifica, più precisa, di soffermarsi maggiormente su alcuni momenti della sua vita. L’incontro con la sostanza, il periodo di astinenza durante e dopo la gravidanza, la ricaduta. Di confrontarsi con i suoi compagni su quello che l’aveva

68 Diario di campo, 1/11/2018. 69 Diario di campo, 1/11/2018.

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portata in comunità. «Altrimenti, dalla tua storia, non si capisce perché dovresti stare qui. Sembra quasi che tu abbia avuto una vita perfetta».

Era una provocazione, chiaramente, e Lauren faticò, all’inizio, a rispondere. Cercava di riportare la discussione allo schema che si era preparata, ma Jane non lo permetteva. Non potè fare a meno di rispondere, di scendere più in profondità su tutto quello che meno in assoluto voleva condividere. Se per Christiane la fatica era mantenere il controllo, per Lauren era lasciar andare il controllo, accettare lo sguardo degli altri non come giudizio ma come comprensione. E lo lasciò completamente soltanto quando pronunciò ad alta voce la parola cocaina. Aveva cercato in tutti i modi di evitarla, riferendosi obliquamente a una «sostanza», in certi casi senza nemmeno usare quest’ultima parola. La fatica, anche la vergogna, erano evidenti sul suo volto mentre raccontava delle difficoltà a reperire la cocaina nei mesi precedenti al suo ingresso in comunità.

Qualche mese prima, avevo proposto a Virginia di partecipare a una delle riunioni aperte di Narcotici Anonimi, che ancora seguivo, e l’avevo invitata a pensare a due o tre utenti da portare con noi. Ero convinto che sarebbe stata un’esperienza interessante, non soltanto per me, per mettere a confronto due modi di intendere la riabilitazione dalle premesse molto simili ma l’articolazione molto diversa. Alla fine, la scelta era ricaduta su Ernest e Christiane, entrambi in un momento sufficientemente avanzato del loro percorso da non solo poter uscire più facilmente, ma essere anche più interessati a spazi come quello di NA che potessero fornir loro supporto una volta fuori dalla comunità.

Ci fu un momento in cui temetti di aver commesso un grave errore, tuttavia. All’inizio di ogni gruppo, a turno, ciascuno dei partecipanti deve presentarsi con una formula ben precisa: il proprio nome, e poi il sintagma «e sono un dipendente». Tutti i partecipanti – tranne gli eventuali professionisti – si presentano in questo modo, per ribadire che la dipendenza è qualcosa che segna la loro soggettività in eterno, anche quando si raggiunge uno stato di «sobrietà». Tanto Ernest che Christiane erano visibilmente in difficoltà. Quando arrivò il momento della loro presentazione, nonostante fossero di fronte ad altre persone che già si erano qualificate come «dipendenti», fecero molta fatica. Ernest tenne le braccia incrociate e lo sguardo basso. Christiane, che normalmente non aveva problemi a parlare di sé, si limitò a sussurrare. Nessuno dei due parlò per il resto del gruppo. Terminata la riunione aperta, offrirono le loro impressioni. Erano entrambi molto positivamente colpiti dal modo in cui si condivide all'interno dei gruppi di NA, da quanto supporto è possibile avere dagli altri membri, quanta comprensione e quanto ascolto. Ma erano anche molto affaticati. «Non è facile sentire persone che parlano dei loro problemi con le sostanze in quel modo», disse Ernest. «Sembrano molto più consapevoli di quanto non pensavo, e di quanto non mi sento io». Per Christiane, la cosa più complicata fu proprio dire «sono una dipendente». «Lo sappiamo tutti che siamo dipendenti, ma dirlo così, subito, come presentazione... mi ha messo in difficoltà. Mi sono sentita molto a disagio, anche se nessuno mi ha giudicata».

Quello stesso disagio che avevo visto sui volti di Ernest e Christiane, lo vidi nuovamente nel modo in cui Lauren si trovava costretta a rispondere alle domande di Jane. Non c'erano scorciatoie, non c'erano vie di fuga. Era là, in piedi, con tutto il resto della comunità che la stava ascoltando, e si trovò

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nella situazione di dover improvvisare riflessività, di doversi porre quegli interrogativi morali che caratterizzano i momenti di perdita della propria persona [Turner 1986]. E la risposta a questi interrogativi non fu quella che si aspettava: fu un'assunzione di responsabilità, e il ridimensionamento della 'colpa' dell'ex compagno e dei genitori. «Facevo la vittima, ma forse ho capito come si sentivano quando mi dicevano che non sapevano più dove battere il capo, lui e i miei».

Gli obblighi riflessivi non lasciano molto spazio di manovra. L'unico modo di sfuggire è quello di rifiutarli completamente. Il caso di Agatha è particolarmente emblematico, perché ella utilizzò lo stesso processo di acquisizione di riflessività e consapevolezza per rigettare ogni possibile emancipazione o ricerca di un qualche grado di indipendenza, e allo stesso tempo l'abdicazione a ogni forma di responsabilità per la propria guarigione, uno degli elementi portanti del programma riabilitativo di Lucerna. Non fu sicuramente l'unica – qualche altra persona utilizzò gli stessi strumenti