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Il tema della dipendenza non è certamente alieno alla ricerca antropologica. Ma non è nemmeno un tema con una lunga tradizione di studi. Al contrario, soltanto a partire dagli anni Settanta l‘antropologia ha iniziato a occuparsi in maniera sistematica di uso di sostanze, e all‘inizio con una prospettiva ben distante da quella della ‘dipendenza‘. Il modello interpretativo più comunemente accettato nei primi anni di ricerca antropologica ed etnografica sull‘uso di sostanze era quello cosiddetto «culturale», che sottolineava quanto il consumo, anche eccessivo, di sostanze (all‘inizio, soprattutto alcolici) storicamente non era considerato un problema, tanto nella cultura occidentale quanto altrove [Singer 2012]. Quello di cui l‘antropologia doveva occuparsi, dunque, erano i significati e le pratiche culturalmente determinate che si associavano al consumo di sostanze, e in che modo essi informano la costruzione di relazioni, rappresentazioni collettive, legami identitari o di solidarietà. All‘interno di questo filone di ricerca, rientrano anche studi sull‘uso come pratica distintiva e

subculturale, che in alcuni casi datano agli anni Sessanta e all‘incremento significativo di visibilit{

sociale di persone che fanno uso di sostanze psicotrope [cfr. ad esempio Preble, Casey 1969]. L‘obiettivo, in questo caso, era quello di fornire una descrizione densa delle pratiche e delle strategie quotidiane di questi soggetti, in parte per comprendere più approfonditamente un fenomeno in evidente crescita, in parte per contrastare la convinzione largamente diffusa che l‘uso di sostanze fosse semplicemente uno strumento per «fuggire dalla vita quotidiana».

(...) it is more fruitful to describe drug users as constituting a ‘subculture‘. (...) This calls our attention to the structured sets of calues, roles, and status allocations that exist among drug users (...). From the perspective of its members, participating in the subculture is a meaningful activity that provides desired rewards, rather than psychopathology, an ‘escape from reality‘, or an ‘illness‘. [Friedman et al 1986, 385]

Se queste prime ricerche utilizzavano l‘etnografia per complessificare la rappresentazione dell‘uso di sostanze, e sottrarre chi fa uso dalla semplice categorizzazione di «deviante», esse tendevano tuttavia a ignorare o comunque sminuire il più ampio contesto socioeconomico che favorisce l‘emergere del fenomeno, ad astrarlo dal suo macrocontesto. Proprio sui legami fra questi due livelli si

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concentra invece la prospettiva della critical medical anthropology, ancora oggi probabilmente la più diffusa nell‘ambito della antropologia della addiction. Essa tende a concentrarsi sulle dinamiche sociali di produzione della sofferenza, sui legami fra lecito e illecito nel commercio e nell‘uso di sostanze, e sull‘uso stesso come ‘palliativo‘ di questa marginalizzazione e sofferenza [Singer 2012].

Senza dubbio, fra i contributi più importanti per un‘etnografia della addiction in questa prospettiva stanno quelli di Philippe Bourgois [1995, 2003; Bourgois, Schonberg 2009]. Per sua stessa ammissione, Bourgois approda nell‘universio socioeconomico delle sostanze «contro la mia volont{», quasi per caso. Arrivato a East Harlem, in New York, con l‘intenzione di indagare le molteplici traiettorie di segregazione e discriminazione razziale che vivono nel cuore della città, si trova invece di fronte a un contesto in cui c‘è un evidente protagonista, dal quale sembra impossibile sfuggire.

I thought the drug world was going to be only one of the many themes I would explore. My original subject was the entire underground (untaxed) economy, from curbside car repairing and baby-sitting, to unlicensed off-track betting and drug dealing. I had never even heard of crack when I first arrived in the neighborhood (...). By the end of the year, however, most of my friends, neighbors, and acquaintances had been swept into the multibillion-dollar crack cyclone: selling it, smoking it, fretting over it. [Bourgois 2003, 17]

L‘abuso di sostanze, di crack in particolare, è allo stesso tempo incidentale e fondamentale all‘interno di In Search of Respect, la prima importante etnografia di Bourgois. «Questo non è un libro sulla droga, o sul crack, in sé», sostiene lo stesso autore. Nelle sue intenzioni, è un libro sulle difficoltà che i soggetti marginalizzati di East Harlem vivono quotidianamente, su come si muovono fra legalità e illegalit{, come costruiscono un‘economia sotterranea che consente loro di sopravvivere e vivere in maniera molto diversa da quello che le allora statistiche sulle condizioni di vita in quel quartiere sembravano dipingere. Ma ovunque egli vada, il crack si presenta come un‘influenza ineludibile sulla quotidianità delle persone che incontra, una determinante nel definire i confini di quell‘economia sotterranea e informale che voleva indagare. Molte di queste persone passano in confine fra legalità e illegalità costantemente, trovando occupazioni a salario minimo che però raramente riescono a divenire stabili; e ogni volta che qualcuno perde il proprio lavoro, ogni volta che qualcuno si trova senza una fonte di sostentamento economico, il commercio di strada di crack è sempre lì, insieme uno strumento di ‘resistenza‘ contro lo sfruttamento che sentono di subire ai livelli più bassi del mondo del lavoro ‘legale‘, e una manifestazione concreta dell‘apparente impossibilit{ di sopravvivere con altri mezzi, e della frustrazione che ne deriva. Allo stesso tempo, la pervasività del mondo del crack influenza relazioni interpersonali, rappresentazioni e rapporti di genere – un tema che Bourgois affronta anche altrove [1995] – e il senso di sé che hanno questi soggetti, la loro ricerca di soddisfazione personale, di dignità e rispetto nella propria vita sociale ed economica.

Una simile dinamica si presenta nella successiva etnografia di Bourgois, portata avanti con il fotografo Jeff Schonberg presso un gruppo di eroinomani senza fissa dimora a San Francisco, fra 1994 e 2005 [Bourgois, Schonberg 2009]. Ancora una volta, le intenzioni di Bourgois e Schonberg non si

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limitano alle dinamiche di uso e abuso di sostanze, ma si sforzano di collocarle all‘interno di un contesto socioeconomico più ampio, in cui forze di larga scala «producono» sofferenza e marginalizzazione su molteplici direttrici. Ma Righteous Dopefiend pone l‘uso di sostanze, in questo caso di eroina, al centro assoluto della vita dei soggetti che rappresenta.

The Edgewater homeless embrace the popular terminology of addiction and, with ambivalent pride, refer to themselves as "righteous dopefiends". They have subordinated everything in their lives – shelter, sustenance, and family – to injecting heroin. They endure the chronic pain anxiety of hunger, exposure, infectious disease, and social obstracism because of their commitment to heroin. (...) But exhilaration is also just around the corner. Virtually every day on at least two or three occasions, and sometimes up to six or seven times, depending on the success of their income-generating strategies, they are able to flood their bloodstreams and jolt their synapses with instant relief, relaxation, and pleasure. [ibidem, 6]

I temi sono simili a quelli di In Search of Respect: marginalizzazione, relazioni e rappresentazioni di genere, relazioni familiari, precarietà economica ed esistenziale nella vita quotidiana dei dopefiends di Edgewater. Ma in tutti questi temi si sente la centralità del consumo di sostanze, che da presenza ingombrante diventa vero e proprio protagonista delle narrazioni e delle argomentazioni dei due autori. E un tratto che emerge con forza ancora maggiore è l‘influenza che questa subordinazione della propria vita all‘uso di eroina ha sulle modalit{ in cui i soggetti incontrati da Bourgois e Schonberg intessono relazioni all‘interno del gruppo, diventano una comunità, con significative contraddizioni interne, divisioni e inimicizie ma anche con pratiche di condivisione – della sostanza come degli strumenti necessari per farne uso – che segnalano solidarietà reciproca. Una solidarietà che, tuttavia, non è certo totalizzante, e che viene temperata da sotterfugi e opportunismo. Fra i dopefiends c‘è un delicato equilibrio fra la necessit{ di mantenere una buona reputazione, e l‘altrettanto stringente necessità di ottenere eroina.

Forse quello che è più significativo di queste due etnografie, che al di là della loro efficacia nella rappresentazione di una realtà di marginalità e sofferenza le rende un punto di riferimento, in particolare ma non soltanto per chi si occupa di dipendenza, è la volontà di rendere conto di quante più dimensioni possibili della vita quotidiana e della storia di queste persone. Tanto in In Search of

Respect che in Righteous Dopefiend, gli autori non lasciano in ombra le parti deteriori dei soggetti che

hanno incontrato. Il passaggio sopra citato lascia intendere una dimensione di scelta, un certo grado di capacità agentiva da parte dei dopefiends di Edgewater, che sono sicuramente vittime di strutture economiche e politiche che li marginalizzano, che li discriminano, ma sono anche in grado di agire, sono in una certa misura liberi – nell‘accezione che ho esplorato nel capitolo precedente. In questa ambiguità, in questa «zona grigia» fra oppressione e libertà, si muovono i soggetti raccontati da Schonberg e Bourgois, e metterne in luce quante più facce possibili è, come avrò modo di sottolineare anche più avanti, l‘unico modo per comprendere la loro sofferenza, e allo stesso tempo riconoscerne la capacità di agire.

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Questa riflessione ci conduce direttamente all‘ultimo e più recente dei filoni di studio antropologico sulla addiction e sull‘uso di sostanze, che in qualche modo recupera l‘attenzione alle pratiche e ai significati locali del modello ‘culturale‘, ma li inserisce all‘interno di un frame interpretativo che si concentra soprattutto sulla dimensione esperienziale della dipendenza [Singer 2012]. Essa, infatti, non produrrebbe soltanto sofferenza e marginalizzazione, ma anche nuove forme di relazioni interpersonali, nuove identità, nuove soggettività. Come in Righteous Dopefiend, ma in maniera ancora più esplicita, l‘uso e la dipendenza si mostrano qui in una dimensione positiva e creativa, oltre che nel loro volto autodistruttivo e nel loro ruolo di termometro di marginalità sociale. Un contributo significativo in questo senso è quello di Angela Garcia [2010, 2014], in particolare con

The Pastoral Clinic, un‘etnografia condotta all‘interno di una clinica riabilitativa in New Mexico. Garcia

prende le mosse dalla distanza che percepisce fra l‘esperienza di dipendenza in contesto urbano – quella che la grande maggioranza della letteratura antropologica aveva in precedenza indagato – e la medesima esperienza in un contesto rurale. Temi simili, come quello dell‘isolamento, dello sradicamento, dell‘abbandono, sono declinati in maniera diversa in contesti geograficamente marginali, dove quella stridente giustapposizione esperita da Bourgois a New York e San Francisco lascia il posto a un paesaggio quasi svuotato, che per Garcia ricalca l‘esperienza interna dei dipendenti.

(...) addicts‘ narratives of heroin use were often related to mourning a lost sense of place. The presence of heroin here is closely connected to the multiple and changing ways that this land has been inhabited, labored on, "suffered for", and lost. [Garcia 2010, 7]

Ma il lavoro di Garcia non si limita a rivedere la geografia della dipendenza e dell‘abuso di sostanze; al contrario, a partire da queste riflessioni cambia nettamente il focus, e si concentra specificamente sull‘oscillazione fra individuo e relazioni nell‘esperienza della dipendenza. Da un lato, infatti, il dipendente non è mai interamente isolato, ma mantiene sempre «legami intimi e genealogici» [ivi, 9] che si rafforzano attraverso quelle stesse pratiche di condivisione e di dono che lo stesso Bourgois aveva messo in luce. C‘è una dimensione di cura, di attenzione per l‘altro, che inserisce il dipendente e le sue relazioni all‘interno di uno specifico mondo morale che plasma la sua quotidianità e la sua storia personale. Tanto fuori quanto dentro la clinica, questa cura per l‘altro è una cifra costante dell‘esperienza dei soggetti. Dall‘altro lato, molte delle esperienze routinarie per chi fa uso di sostanze – le sensazioni fisiche che esse provocano, tanto piacevoli quanto dolorose; i momenti di rischio della propria vita – sono eminentemente individuali e singolari, sono «momenti di incomprensibilità» di fronte ai quali tocchiamo i limiti della comprensione e della comunicabilità. Piuttosto che escluderli dallo sforzo della rappresentazione etnografica, Garcia ci mostra i limiti che percepiamo in questi momenti, e in questo modo ci mostra anche quanto questa dimensione intima e irripetibile della vita quotidiana del dipendente sia centrale nei processi di trasformazione della propria soggettività che accompagnano la quotidianità della dipendenza attiva.

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Da una simile prospettiva prende le mosse anche il lavoro di Jarrett Zigon, l‘ultimo che vorrei prendere brevemente in considerazione in questa sede. Non mi soffermerò molto sul frame costruito da Zigon – avrò più avanti modo di parlarne approfonditamente e ripetutamente. Qui vorrei soltanto notare la vicinanza con Garcia e con l‘approccio «esperienziale» alla dipendenza e all‘uso di sostanze. Nella sua prima importante etnografia, HIV is God‘s Blessing, Zigon resitituisce una ricerca condotta all‘interno di un centro riabilitativo per eroinomani sieropositivi, amministrato dalla Chiesa Ortodossa russa. E anche nel suo caso, la dimensione esperienziale è posta fortemente al centro della riflessione, non soltanto della quotidianità della dipendenza attiva, ma soprattutto del «lavoro su di sé» della riabilitazione, un lavoro che costringe a rimettere in esame ogni angolo della propria soggettività e cercare di ricostruirla, per tornare ad essere una «persona morale» e vivere una «vita normale». La riabilitazione, per Zigon, è come vedremo una ridefinizione degli spazi di possibilità che determinano ciò che ciascuno può fare della propria vita. Attraverso di essa, attraverso la fatica del quotidiano, torna a essere possibile per i soggetti immaginare una vita diversa.

Avrò modo, come già detto, di approfondire la prospettiva di Zigon, tanto nello specifico campo dell‘antropologia della addiction quanto in quello più generale dell‘antropologia della morale. Ma è proprio questa attenzione alla specificit{ dell‘esperienza del processo di guarigione, di riabilitazione, che ha risuonato per me molto vicina alla mia esperienza etnografica. Senza voler sminuire l‘importanza e la necessit{ di analisi che mettano al centro le strutture economiche e i contesti politici che marginalizzano chi usa sostanze, quello che è emerso come tratto più significativo nel corso della mia presenza sul campo, del tempo che ho passato in comunità, è proprio la complessa interazione fra isolamento e cura per gli altri, il fluttuante significato di «riabilitazione», la capacità dei soggetti di intervenire ad appropriarsi dei propri percorsi riabilitativi per ridefinire cosa significhi «vivere una vita normale». E, proprio prendendo Zigon come rampa di lancio, ho deciso di esplorare questi temi attraverso la riflessione dell‘antropologia della morale, all‘interno della quale gli stessi Zigon e Angela Garcia [cfr. 2014; Zigon, Throop 2014] si inseriscono. Perciò, vorrei adesso passare ad una più sistematica esplorazione di questo ‘campo‘ – sempre che di campo si possa parlare – e di alcuni degli autori più salienti che ne hanno definito problematiche e concetti.