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Ci mettiamo in cerchio. Un’ambientazione che a questo punto mi è familiare, che non posso che associare alle riunioni di NA, ma qui l’atmosfera è ovviamente ben diversa. L’attenzione è prevedibilmente concentrata su di me, in una maniera che mi mette lievemente a disagio, ma cerco di non darlo troppo a vedere. Jane mi introduce e poi mi lascia la parola. Evidentemente non mi sono preparato un discorso, ma credo di essere riuscito a trasmettere più o meno quello che intendo fare lì dentro. Quantomeno, i pazienti (pazienti? Non sono ancora sicuro di come indicare le persone che sono qui per un percorso terapeutico) paiono aver ben capito, quasi tutti. Mentre parlo, mi guardo intorno, cercando di notare quanto più è possibile notare. Faccio fatica a sottrarmi da un’osservazione frenetica, ossessiva, volta a evincere quanto più possibile dalla postura, dai gesti, dai piccoli tic, dalle irrequietezze, dagli sguardi. Difficile fare una cosa del genere senza incontrare lo sguardo di ciascuno degli astanti. E tutti mi stanno guardando, con diversi gradi di intensità, ma tutti, invariabilmente, sono fissi su di me. Nessuno si distrae. «Vedrai che durante i gruppi sono estremamente performanti», mi riecheggiano nella testa le parole di Jane. E lo sono, senza dubbio. (...) Chiudo brevemente la mia introduzione, anche se mi pare passata un’eternit{. Come in una conferenza, si aprono le domande. Quanto starai. Che farai di preciso. Cosa ti interessa. Poi magari vedi che anche gli operatori sbagliano (e a questa frase, Jane si irrigidisce leggermente. Chi l’ha detta, scoprirò in seguito, non è nuovo a posizioni ostili agli operatori). Poi, una cosa che mi stupisce. Uno degli ‘anziani’ del gruppo, Ernest, propone che, in cambio, tutti i pazienti si presentino a me. Rimango interdetto, e Jane lo stesso. Nemmeno lei prevedeva una cosa del genere. E dunque, a turno, tutti si presentano. Il ventaglio sociale è assai ampio del previsto, e forse meno stereotipato da quello che ci si potrebbe aspettare da un centro con soltanto doppie diagnosi. L’et{ media è alta. Prevedibilmente, quello che si sentono di condividere è assai variabile: alcuni semplicemente nome e problema di tossicodipendenza, altri maggiori dettagli. Bret, che avevo conosciuto domenica, racconta di essere lì per una pena alternativa. Ernest, il primo a presentarsi, racconta di passate esperienze in altre strutture e altri progetti. Piergiorgio, ex ricercatore al CNR, pare essere l’unico che poi se ne torna a casa la sera, ma anche lui sconta una pena sostitutiva. Ricordo altri nomi, altri dettagli, altri stralci di vita, ma sono piuttosto confusi. Non ho avuto modo, prevedibilmente, di annotare nulla, e sul momento l’ansia minacciava di sopraffare qualsiasi altra emozione o riflessione. Ma una cosa mi è rimasta impressa. Alla fine della propria presentazione, ciascuno dei pazienti mi ha detto «ti do il

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benvenuto». Nello stesso modo, con le stesse parole. (...) Dopo la presentazione, continuiamo a parlare un po’ della mia ricerca. Altre domande, alle quali cerco di rispondere in maniera il più possibile chiara, ma senza espormi troppo. Mi rendo immediatamente conto che anch’io sto giocando allo stesso gioco di cui Jane accusa i pazienti, anch’io sto cercando di divinare quello che loro vogliono sentirsi dire e accordarlo con quello che io vorrei dire, o ritengo sia opportuno dire. Ma devo ammettere che nel complesso l’accoglienza è stata molto positiva. In parte, perché forse mi sono posizionato a metà fra i pazienti e gli operatori, e quindi non necessariamente dalla parte ‘sbagliata’ della barricata che percepisco esistere fra i due. In parte, perché sembra seriamente che ci sia un genuino (ma chissà questa parola che cosa vuol dire) interesse da parte loro nel lavoro che sto facendo. In parte perché anche loro sperano, come Jane, che la mia ricerca possa dare indicazioni utili rispetto al processo terapeutico. In parte perché, come ha detto Paolino, uno dei più giovani fra i pazienti, «magari con una persona nuova potremmo comportarci meglio. Potrebbe essere uno stimolo per impegnarci di più». Altri hanno riecheggiato lo stesso sentimento. La presenza del mio sguardo (della mia persona) come uno stimolo a «fare meglio», qualsiasi cosa voglia dire? L’esatto contrario di guardare la cultura «dalle spalle del nativo». Ma che altro fare? Ho imparato sulla mia pelle che il principio di indeterminazione vale perfettamente anche per i fatti sociali, ed ero perfettamente consapevole che la mia presenza avrebbe scombinato la situazione. (...) Quello che sicuramente non mi aspettavo è un così esplicito riferimento alla mia presenza come ad un elemento trasformativo della vita della casa. In positivo. Non tutti ovviamente la pensano allo stesso modo. Ma soltanto uno, fra i pazienti, ha delle riserve rispetto alla mia presenza, Ernest. Il problema è che la mia presenza «rischia di compromettere quell’intimit{» che si crea fra gli abitanti della casa. Che io, non avendo nessun problema paragonabile a quelli che hanno loro, sono un corpo estraneo. A lui, questo lavoro non piace particolarmente, s’intende. O quantomeno non ci vede (solo) i potenziali risvolti positivi che gli altri hanno rilevato; al contrario, teme che io infranga un delicato equilibrio. «Qui c’è la nostra vita in quattro stanze», continua, «e non facciamo solo terapia, costruiamo amicizie, rapporti». E ovviamente io non ne faccio parte. Non c’è modo di rispondere a questa critica. Ha ragione, io intendo violare la loro intimit{ e poi metterla su carta, come sto facendo in questo momento. (...) L’ultima sorpresa arriva da quello che segue a questa critica. Non solo Jane, ma tutti gli altri pazienti arrivano in mia difesa. E non solo con il classico «dare tempo al tempo», e lasciarmi prendere confidenza con il contesto e le persone. Ma anche proprio per ribadire la loro convinzione della mia utilità là dentro. Che già altre persone sono state lì con scopi simili. Che fuori da questa casa è normale essere osservati dagli altri. Rimango senza parole, e non posso che ringraziarli, promettendo e promettendomi che rispetterò i confini che tracceranno. Ernest non pare particolarmente convinto.23

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Dopo un colloquio con la direttrice, Jane, durante il quale discutemmo dei dettagli e delle intenzioni del mio progetto di ricerca, lei mi propose di organizzare un gruppo in cui avrei potuto fare lo stesso con tutti gli utenti, per cercare di evitare quante più ambiguità possibili nella gestione della mia presenza quotidiana in comunità. «Non dirò loro niente di specifico. Ti presenterò solo come un osservatore», mi aveva detto, in fondo al colloquio. «Cercheremo, per quanto possibile, di comportarci come ci comportiamo normalmente».

I «gruppi», avrei progressivamente scoperto, sono la principale attivit{ collettiva all’interno della comunità. Quando arrivai per la prima volta nella sala TV, dove ordinariamente essi sono tenuti, ricordo di aver pensato che erano terribilmente stereotipati. Sedie poste in cerchio, affinché tutti potessero vedersi l’un l’altro. Presentazioni, anche se queste erano un caso speciale, data la mia inaspettata presenza. E al loro cuore, uno spazio per poter parlare di sé. I temi dei gruppi erano i più vari – dall’esperienza della dipendenza attiva ai problemi della convivenza e della condivisione quotidiane – ma non c’era grande rigidit{, normalmente, nel rimanere all’interno dei confini di uno specifico argomento. Il più delle volte, a determinare tema e tono erano gli utenti che decidevano di prendere parola, più che l’etichetta di ogni singolo gruppo. Tranne che nel caso dei gruppi «speciali», dedicati ad argomenti o momenti ben precisi. Come nel caso della mia presentazione.

Non mi era del tutto chiaro che cosa avrei dovuto dire. O quantomeno non mi era del tutto chiaro in che modo avrei potuto ‘spiegare’ la mia ricerca senza lasciare ambiguit{. L’obiettivo – osservare le dinamiche relazionali dei soggetti che abitavano la comunità – era abbastanza trasparente. Cosa

significasse, concretamente, «osservare» si era dimostrato di più difficile spiegazione. Stare lì, certo.

Partecipare alle attività di gruppo, alle attività lavorative. Ma cosa avrei osservato? Cosa avrei fatto? Tutte domande legittime, alle quali non avrei probabilmente saputo rispondere in maniera soddisfacente, né per me, né per i miei interlocutori. Nei giorni precedenti la mia presentazione ufficiale di fronte agli utenti, passai molte ore a cercare, senza successo, le parole ‘giuste’ per rendere conto della domanda che mi aveva portato in quel luogo.

Alla fine, avevo diretto la mia preoccupazione nella direzione sbagliata. La maggioranza degli utenti aveva gi{ fatto i conti con la presenza di ‘professionisti’ esterni all’interno della comunit{ – il più delle volte, tirocinanti neolaureati in psicologia (alcuni dei quali avrei, nei mesi successivi, conosciuto anch’io). Il problema non era, dunque, la mia presenza in sé; erano, piuttosto, quegli obiettivi che mi erano parsi così neutri e chiari quando avevo immaginato quella presentazione.

È un topos della scrittura etnografica, riflettere sull’ambiguit{ del proprio posizionamento sul campo, sulla difficolt{ di essere ‘visti’ e visibili ai soggetti che incontriamo. Lamentare la necessit{ di spiegare più volte che significhi «antropologia», «etnografia». Non è precisamente questo che mi sembra adesso significativo delle reazioni alla mia presentazione. C’era una qualche incertezza su cosa ci potesse fare un antropologo in una comunità per doppie diagnosi, sicuramente, ma quello che immediatamente si impose era il tentativo di stabilire che tipo di relazione avrei costruito con utenti e operatori. A chi avrei offerto la mia alleanza. Sarei stato un supporto al percorso terapeutico, un invito a fare più e meglio proprio perché arrivato senza alcuna esperienza concreta di riabilitazione dalla tossicodipendenza? Sarei stato una potenziale autorit{ ‘sovversiva’ rispetto al discorso invece

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‘dominante’ degli operatori, degli psichiatri, degli psicologi? Oppure, più semplicemente, sarei stato soltanto un ospite indesiderato, che ficca il naso dove persone stanno vivendo un momento drammatico delle loro vite?

Quest’ultima posizione mi sembra particolarmente interessante, soprattutto nelle modalità in cui essa è formulata. Per Ernest, il problema presentato dalla mia presenza non era semplicemente legato ad una ‘invasione della privacy’, di quella confidenzialit{ medico-paziente che effettivamente il mio lavoro di ricerca minacciava di violare. Piuttosto, era da un lato la mia incapacità di comprendere, perché estraneo a quell’esperienza; dall’altro, il fatto che la mia irruzione fosse non tanto e non primariamente in uno spazio terapeutico, quanto in uno spazio intimo, di amicizie, di relazioni. Un’irruzione in un percorso riabilitativo che sembra sostanzialmente coestensivo con la stessa

esistenza dei soggetti che abitano la comunità. Se la vita degli utenti della comunità è compressa in

quelle «quattro stanze», la loro intera vita, allora la presenza di un osservatore dalle nebulose intenzioni è doppiamente problematica; la scoperta dell’esperienza della tossicodipendenza non preoccupa per il suo dato clinico, ma per il suo significato emotivo, morale. Per Ernest, avrei scoperto in seguito, mettere in questione la sua esperienza di tossicodipendente significava mettere in questione ciò che lui sentiva, forse ancora sente, come il nucleo della propria soggettività.

Di fronte a me, la comunità si presentò immediatamente nei termini di quello che Steven Parish [2014] chiama «lo spazio tra le persone»: uno spazio, fisico e simbolico, in cui la soggettività incontra e si scontra con l’intersoggettivit{; uno spazio in cui i soggetti non soltanto stanno insieme, ma stanno

insieme, tesi l’uno verso l’altro, nel tentativo di essere-per, di esserci per l’altro. Ed è questo che della

critica di Ernest sembra particolarmente significativo: non soltanto aver definito dipendenza e riabilitazione in termini morali, ma averle definite primariamente in termini relazionali. Se la comunità è uno spazio di ricostruzione della propria soggettività, lo è proprio perché crea, o meglio forse costringe a creare, quello spazio di condivisione della propria esperienza riabilitativa, di confronto e di riconoscimento reciproco, che altro non è che lo «spazio tra le persone» di Parish.

Evidentemente, questo spazio si fonda in primo luogo su di una forma di riconoscimento di una sorta di ‘equivalenza esperienziale’: le storie dei singoli utenti sono sicuramente varie, ma ciò che hanno in comune è immaginato come sostanziale. Qualsiasi sia la forma in cui essa si presenti, la dipendenza segna i soggetti nella stessa maniera, e questo rende possibile la il riconoscimento e quindi la condivisione. La prima cosa che è necessario indagare, dunque, è proprio questa rappresentazione (e narrazione) della dipendenza, e quali siano questi tratti ‘sostanziali’ che essa presenta.