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15 dicembre 2017. Dopo poco più di un mese di ricerca, mi ero dovuto assentare per partecipare ad un workshop all'Università di Cambridge. «Dovuto», perché avevo, mesi prima, fatto domanda; ma a dirla tutta sentivo di aver bisogno di qualche giorno di respiro. Il primo mese di presenza in comunità era andato sorprendentemente bene: non solo ero stato in larga parte accettato tanto dagli operatori quanto dagli utenti, ma stavo 'integrandomi' nel lavoro quotidiano, cosa che, molto più che seguire i gruppi o le altre attività collettive, mi aveva fatto guadagnare un certo capitale sociale, soprattutto presso gli utenti. Ma sul piano emotivo l'impegno si era rivelato significativamente più consistente. Quella stessa attenzione a sé e agli altri che era richiesta agli utenti da parte degli operatori, la sentivo richiesta a me da parte degli utenti. Una richiesta di empatia, o forse ancora di più di ascolto, che stava ben al di fuori della mia preparazione teorica e metodologica. E in questo campo l'improvvisazione era sempre costosa.

Per questo motivo, abbandonare per qualche giorno la comunità era un'idea che non mi dispiaceva per niente. Pensarci il meno possibile, parlare di altro, anche in un'altra lingua. Tutti modi per allontanarmi, emotivamente oltre che fisicamente, da quel luogo. La cosa non mi preoccupava troppo – ero convinto che lo avrei ritrovato così come lo avevo lasciato. Non ho impiegato molto a sentire quella dilatazione e ripetizione del tempo di cui tutti, utenti e operatori, mi parlavano incessantemente. Al mio rientro, tuttavia, la comunità che mi sono trovato di fronte non era più quella che avevo lasciato. Certo, le persone erano le stesse – se escludiamo l'ingresso di Charles, che intuii subito aver già passato del tempo a Lucerna. Ad essere diversa, radicalmente diversa, era l'atmosfera. All'inizio, non mi sembrò niente di catastrofico. Arrivai a metà mattina, per la merenda, senza perciò assistere al primo gruppo, che mi avrebbe invece spiegato quale fosse il conflitto in atto. Gli utenti erano molto nervosi, tutti, senza eccezione, ma in sé ciò poteva non essere straordinario. Il nervosismo era un po' troppo diffuso, ma decisi di aspettare a chiedere chiarimenti. Non volevo rievocare eventuali momenti spiacevoli, né dare stimolo a lamentele che potessero implicare un mio qualche coinvolgimento. Ancora non mi sentivo particolarmente 'saldo' nella mia posizione. E, d'altra parte, la mattinata si rivelò concitata, con molto lavoro da fare, da un'estremità all'altra della casa. Qualunque investigazione si rivelasse necessaria, poteva aspettare.

Il primo segnale che qualcosa di importante non andava arrivò a pranzo. Al tavolo degli uomini – nella sala da pranzo erano presenti due tavoli, ed era anche in vigore una separazione di genere, anche se non molto rigida – c'era l'abitudine di fare una scommessa, quando veniva servito il secondo: quanto tempo sarebbe passato prima che arrivassimo al caffè. Una buona parte degli uomini partecipava regolarmente, anche perché queste scommesse di rado avevano un prezzo materiale; nella

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maggioranza dei casi erano fatte per puro divertimento, per passare il tempo. Anche per questo motivo, erano tranquillamente tollerate dagli operatori, e fatte senza alcun tentativo di sotterfugio. Ma quel giorno nessuno si azzardò a scommettere niente. Pensai che fosse perché Jane era in turno, e tutti si comportavano con maggiore cautela quando Jane era in turno. Il motivo si rivelò più semplice: alla fine del pranzo, il caffè non fu servito a nessuno.

Seguii immediatamente Jane in ufficio. Il termos con il caffè era al suo posto, nel piccolo armadio a muro che conteneva anche le scatole con gli effetti personali degli utenti. Ero impaziente di scoprire cosa fosse accaduto, ma continuai a trattenermi. Avrei potuto scoprirlo autonomamente, o chiederlo a qualcuno che non fosse Jane. Ancora mi intimoriva interagire con lei – avevo sempre l’impressione di essere a un passo dal fare qualche imprevedibile e imponderabile errore. Si avvicinò all’armadio e prese il termos. Poi si rivolse verso di me, porgendomi un bicchierino di plastica. «Vuoi un caffè?», mi chiese. Annuii. «Ti starai chiedendo cosa è successo», continuò, mentre mi versava il caffè. Annuii nuovamente. «Per il momento, ti basti sapere che sono tutti sotto provvedimento. Tutti, senza esclusione. Fino a data da stabilirsi. Poi, se ti vorranno dire che cosa è successo, lo faranno loro». Non era molto, ma almeno spiegava per quale motivo a nessuno fosse stato servito il caffè. L’evento alla base di questo provvedimento generalizzato lo scoprii poco dopo, durante l’ora di pausa fra il pranzo e il gruppo del pomeriggio. Avevo ormai l’abitudine di concludere ogni mio giro della casa con la stanza fumo – c’era sempre qualcuno che fumava nei momenti liberi, ma pochi erano disposti ad affrontare il freddo invernale per una sigaretta, quando avevano a disposizione una stanza dedicata. Oltretutto, la stanza fumo era, come ho già detto, una sorta di anti-ufficio, l’unico posto veramente

privato che gli utenti avevano al di fuori delle loro stanze. Il posto migliore per indagare le cause del

provvedimento generalizzato era sicuramente quello.

Trovai ancora una volta Albert, Ernest, Agatha e Goliarda. Mi guardarono con sospetto. Provai a iniziare con i soliti convenevoli, ma non ottenni che domande di rito sul mio soggiorno inglese. Dove sei andato, faceva freddo, come si mangia, come sono le persone. Stavo già cercando le parole giuste per chiedere esplicitamente cosa fosse successo, quando Albert mi lanciò uno sguardo glaciale. «L’hai preso il caffè in ufficio?», mi chiese, con una malcelata espressione di disprezzo. Mentii. «Come hai visto, noi non possiamo. Ti hanno spiegato perché?», continuò. So che siete tutti sotto provvedimento, ma non so per quale motivo. In questo caso, non era necessario mentire. «Ieri pomeriggio, qualcuno,

qualcuno», stavolta senza nemmeno tentare di celare il disprezzo nella sua voce, «ha rotto il muro di

cartongesso di fronte all’infermeria. Nessuno si è fatto avanti, nessuno ha visto niente, nessuno dice niente. Quindi Jane ha deciso per un provvedimento a tempo indeterminato».

Nei giorni successivi avrei ricostruito la sequenza di eventi per intero, in parte da altri utenti, in parte dagli operatori stessi. All’inizio della settimana, erano stati fatti lavori di riparazione di alcune pareti del seminterrato, fra cui anche quella di fronte all’infermeria. Il giorno successivo alla fine di questi lavori, al momento della somministrazione pomeridiana, quando l’operatore in turno era sceso in infermeria aveva trovato il muro rotto, con un buco una decina di centimetri più in alto della base della parete. «L’altezza giusta per un calcio», era stato il commento di Gabriel, un altro membro dell'équipe degli operatori di Lucerna. Tutti avevano qualche sospetto, ma nessuno aveva confessato,

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nessuno aveva fatto delazioni, nessuno sembrava sapere niente. La soluzione di Jane, perciò, fu molto semplice. Finché non fosse emerso il colpevole, l’intera comunit{ sarebbe rimasta sotto provvedimento. «Per il momento, niente caffè per nessuno. Se la cosa continua, vedremo». L’allusione alle sigarette era evidente per tutti.

Perciò, dalla met{ di dicembre, e per oltre un mese e mezzo, l’intera comunit{ rimase senza caffè. A sottolineare la natura punitiva e non semplicemente disciplinare di questo provvedimento, i due ingressi che ebbero luogo in questo periodo, Magda ed Eleonora, erano autorizzate a bere caffè a colazione e dopo pranzo, gli orari ordinari, ma per farlo dovevano andare in ufficio. Una separazione fisica, spaziale, che non faceva che enfatizzare l’attribuzione di colpa a tutti gli utenti, non solo a chi aveva compiuto il misfatto ma anche, forse soprattutto, a chi sicuramente sapeva qualcosa e non voleva dire niente. Dopo qualche giorno, il provvedimento iniziò a divenire la nuova normalità. Il caffè era soltanto una delle rinunce che gli utenti erano costretti a fare all’interno della comunit{, nel contesto del loro percorso riabilitativo. Si aggiungeva a tutte le altre, l’ennesima dimostrazione della perdita della propria autonomia individuale. Ma, ovviamente, non fu dimenticato. E periodicamente tornava in superficie, a colazione, a pranzo, o più spesso durante qualche gruppo. Jane, in particolare, insisteva nel definire «omert{» l’atteggiamento di silenzio che aveva circondato la ricerca del colpevole. Omertà e «rifiuto di assumersi le proprie responsabilit{». Dall’altra parte, più il tempo passava, più il provvedimento sembrava draconiano agli utenti, insensato e semplicemente punitivo. Era divenuto ben presto molto chiaro a tutti che il colpevole non si sarebbe mai fatto avanti spontaneamente. Perciò, il caffè era finito al centro di un braccio di ferro fra utenti e operatori, in cui nessuno aveva intenzione di fare passi indietro o concessioni all’avversario.

Gli effetti, anche se non sempre evidenti, furono sicuramente sentiti da tutti. Il silenzio aveva rapidamente creato un clima di tensione e di sospetto, con accuse più o meno velate fatte sia agli operatori in privato che durante i gruppi, conflitti e piccole rappresaglie (in genere, danni a oggetti personali). Per tre volte Jorge scappò dalla comunità per andare in cerca di un caffè in paese, per poi tornare sommessamente. Altri contemplavano l’abbandono se l’aria non fosse cambiata. Mi resi rapidamente conto che se il colpevole del danno alla parete non era ancora stato scoperto, non era perché gli utenti fossero reciprocamente solidali e cercassero di «proteggersi». Al contrario, erano spesso in rotta, il dito puntato gli uni contro gli altri. Ma il provvedimento aveva creato un forte senso di rivalsa nei confronti degli operatori, per i quali difficilmente qualcuno avrebbe rinunciato al proprio capitale sociale con gli altri utenti.

È stato Ernest a concludere. Ha preso la parola quando ormai tutti speravano di staccare e andare a preparare la merenda mattutina, e ha iniziato una cordiale ma ferma filippica contro gli operatori e «l’atmosfera di tensione che voi avete creato». A quanto pare, stamani Patricia ha notato una macchia di vernice spray in uno degli armadi del laboratorio, una macchia che a quanto pare preesisteva (onestamente, anche io mi ricordo di averla già vista, ma chissà), ed ha minacciato ulteriori provvedimenti. Ernest si è lamentato di questo clima di terrore, che ha

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creato un ambiente in cui gli utenti sono sistematicamente tesi, e trattati male rispetto a quello che loro fanno (o non fanno). «Noi siamo un gruppo tranquillo. Con quelli di prima, che facevano sempre casino, non succedeva nulla, perché avevate paura che spaccassero tutto. Con noi invece c’è il pugno di ferro». Parole grosse da parte di Ernest, ma che hanno dato coraggio anche agli altri, e Piergiorgio e Elsa si sono espressi in favore di una fine del provvedimento, e di un allentamento delle redini. Ma non si sono semplicemente espressi, né d’altra parte lo ha fatto Ernest. Hanno anche minacciato. Sia Ernest che Elsa hanno minacciato «ribellioni», se la situazione continua così. Virginia era in visibile difficoltà, forse per evitare di rispondere con eccessiva fermezza, o forse perché lei non risponde mai con eccessiva fermezza. Mentre la vedevo faticare per trovare le parole giuste, non ho potuto che ripensare al gruppo sostegno fatto da Jane, in cui lei ha preso di petto questo discorso e lo ha rivolto contro proprio a Ernest, senza colpo ferire. Virginia ha un po’ incespicato, cercando di mantenere un equilibrio accettabile fra diplomazia e freddezza, e poi ha preso nota nel verbale delle lamentele di Ernest. Ennesime lamentele, ovviamente. Non è certo la prima volta. Ma credo che a questo punto il provvedimento verrà a breve interrotto, senza che emerga effettivamente il colpevole. Sono tutti stanchi e l’assenza di caffè ha creato sufficienti problemi da non avere più senso né sul piano disciplinare né su quello punitivo. Non che abbia mai avuto particolarmente senso come strumento punitivo, a mio avviso. Quello che mi ha stupito, oggi, è stata la velocità da colpo di frusta con cui Ernest ha cambiato atteggiamento. Durante il gruppo, minacce di «ribellioni», qualsiasi cosa questa parola possa significare. Immediatamente dopo, sommesso, a chiedere di poter telefonare fuori orario alla compagna. Jane ha sempre insistito sulla differenza di performance dentro e fuori dai gruppi, e indubbiamente è una cosa che percepisco spesso.51

L’argomento del gruppo di oggi era più o meno questo. Il cambiamento. Che significa

cambiamento? Cosa ha spinto tutti i presenti a decidere di cambiare la propria vita? Posta

questa domanda, le risposte che Jane ha ottenuto sono quelle che uno si aspetterebbe da un qualunque gruppo di autoaiuto. Non ce la facevo più. La mia vita era ingestibile. Stavo allontanando tutti quelli che avevo intorno. Avevo compromesso la mia salute. Avevo perso il lavoro. Avevo paura di morire. Forse quest’ultima no, ma sicuramente aleggiava sopra tutte le altre. Ma Ernest ha aggiunto, dopo che tutti hanno detto la propria, che non basta dirle queste cose, «bisognerebbe capire quanto ci si crede, e quanto si fanno». Almeno in superficie, Ernest mostra una forte consapevolezza delle difficoltà della riabilitazione. Il suo tentennante reinserimento gli ha insegnato quanto il mondo sia indifferente al tuo passato e ai tuoi problemi. «Ti vuole solo usare e consumare». Lui pensava di essere ben agganciato. Di avere contatti. Di avere persone che gli avrebbero dato un lavoro, o almeno il tempo di rimettersi in piedi. Ma niente. Al dunque, si è trovato solo, e con il culo per terra. E cadere con il culo per terra fa assai male.

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Ovviamente, un discorso del genere non può che incontrare il favore di Jane, che è la prima a rallentare i bollenti spiriti di chi si sente già pronto a lanciarsi fuori dalla comunità. Ma Jane non discrimina. Spegne gli spiriti di tutti. E in risposta a Ernest, Jane ha nuovamente tirato fuori il discorso del muro e delle palline da biliardino.52 «Anche questa è responsabilità».

Quello che non sapeva, è che Ernest aveva già tirato autonomamente fuori il discorso del provvedimento, lunedì, con Virginia, e che ne ha di cose da dire al riguardo. E infatti ha ripetuto quello che aveva detto lunedì: che il provvedimento è eccessivo, che loro sono un buon gruppo, che quando c’erano gli altri facevano cose ben peggiori. Non ha minacciato rivolte, in questo caso, non in maniera esplicita come con Virginia: anche lui è consapevole di chi sia il suo interlocutore. Non abbastanza, però. E Jane non si è lasciata intimidire, e non ha mosso un passo indietro. «Primo, non giudichiamo questo gruppo per come erano gli altri gruppi. Giudichiamolo per le sue caratteristiche. E questo è un gruppo che non si prende le responsabilit{ di quello che fa. Cosa potrebbe pensare l’ultimo arrivato? Cosa pensa Magda?» E Magda, sentendosi chiamata in causa, ha rincarato la dose. «Ernest, io le mie cose in camera mia le metto in modo tale che se qualcuno le tocca, me ne accorgo. Ti pare normale che mi devo preoccupare di questa cosa?» A questo punto, è iniziata una discussione fondamentalmente a tre, fra Ernest, Jane e Magda. Ernest ha cercato di ribattere che questa è una responsabilità individuale, che non devono né possono pagare in 12 per quello che ha fatto una persona sola, o due, se teniamo di conto anche le famose palline. Ha insistito molto su questo. «Sarà questa persona che non si potrà gestire una volta fuori di qui. Non è colpa di tutti». Magda e Jane non la pensano in questo stesso modo. La responsabilità è in certa misura collettiva, perché il gruppo lavora in maniera collettiva, lo spazio è gestito in maniera collettiva, le cose si fanno insieme. E sicuramente a fare danni è stata una persona sola. Ma a creare l’atmosfera di sospetto no.53

In queste due occasioni, come in molte altre, emersero malcontenti per la durata indefinita del provvedimento, per il fatto che aveva agito «a tappeto», senza fare differenza fra colpevole (o colpevoli) e innocenti. Perché, si chiese Ernest, coinvolgere l’intera comunit{ per gli errori di una sola persona? Perché «creare un clima di tensione e di sospetto» a persone che stanno già soffrendo, sono già in un momento molto difficile e delicato delle loro vite? Il riferimento al «precedente gruppo« che Ernest fece a Virginia è in questo senso particolarmente significativo. Fra 2016 e 2017, la comunità aveva ospitato un gruppo di utenti che mi sono stati descritti eufemisticamente come «difficili». Non

52 Nel seminterrato era presente un vecchio tavolo da calcio balilla, rimesso in funzione e liberamente accessibile

a tutti gli utenti, e che era rapidamente diventato uno strumento di saldatura di relazioni, oltre che di intrattenimento. All’inizio del mese di gennaio, tuttavia, due delle tre palline disponibili erano scomparse. Per quanto questa sparizione non avesse comportato alcun provvedimento ulteriore, il fatto che fosse avvenuta a breve distanza di tempo dall’incidente della parete dell’infermeria, e che ancora una volta non si fosse manifestato alcun colpevole, aveva contribuito a rafforzare le tensioni fra gli utenti.

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soltanto erano più numerosi,54 ma erano molto frequenti conflitti, litigi, persino risse. Gli operatori si

sentivano (probabilmente, erano) decisamente più a rischio. Il gruppo che ho incontrato io, al contrario, era sotto quell’aspetto molto meno problematico da «gestire», anche semplicemente nella banale quotidianità. Conflitti e litigi erano presenti, ma di breve durata, e comunque mai sfociati in violenza. Da qui, l’argomentazione di Ernest era lineare: un provvedimento generale e a tempo indeterminato non sarebbe mai stato assegnato al gruppo precedente, perché dopo pochi giorni qualcuno avrebbe alzato le mani. L’équipe, e Jane in particolare, faceva la voce grossa soltanto con chi non avrebbe risposto. Non c’era alcun significato o valore terapeutico in un provvedimento generale, perché colpiva chi anche non aveva agito in maniera scorretta. Nelle parole di Ernest, esso appariva quasi come uno sfogo, un capriccio degli operatori che si volevano vendicare di un danno fatto alla struttura, senza preoccuparsi di capire chi effettivamente lo avesse causato.

Ma, dal punto di vista degli operatori, queste lamentele non sono che una dimostrazione concreta di quel «comportamento tossico» che caratterizza tutti i dipendenti. Il prolungato silenzio, come se niente fosse accaduto; le reciproche accuse; i litigi e le rappresaglie; l’incapacit{ di convincere il colpevole a farsi avanti; il rappresentarsi come «vittime» di un sopruso. Sono tutte caratteristiche del «comportamento tossico» di chi non vuole assumersi la responsabilità delle proprie azioni. In questa prospettiva, la decisione di mettere l’intera comunit{ sotto provvedimento assume un suo senso sul piano terapeutico, o meglio ancora sul piano del «lavoro su di sé», quello che ho ripetutamente chiamato esercizio. Perché gli operatori hanno delle responsabilità terapeutiche (e legali) nei confronti degli utenti, ma nella filosofia della comunità non sono loro a fare la parte del leone nel lavoro riabilitativo: sono gli utenti stessi, gli uni nei confronti degli altri. Se davvero è «la comunità che cura», la responsabilità di costruire una comunità che sia in grado di curare è in gran parte nelle mani degli utenti. Sono loro che devono accogliersi, aiutarsi, confrontarsi reciprocamente. Sono loro che dettano il clima, l’atmosfera. Sono loro che determinano i margini di azione terapeutica, nelle relazioni che stabiliscono gli uni con gli altri. È questo, infine, l’ultimo significato di «essere responsabili» nei confronti di chi ci sta accanto. La comunità è in grado di curare soltanto se gli utenti fanno comunità, in un senso vicino a quello della communitas di Victor Turner [1979]: un gruppo unito, di pari, che condividono pratiche e valori. In questo caso, un gruppo che condivide un obiettivo specifico, che può essere raggiunto soltanto attraverso questa condivisione. Mettere a fuoco questa problematica è il motivo per cui Jane coinvolse Magda nella discussione con Ernest che ho riportato sopra. Lo sguardo, e