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«Non ti piacerà quello che c'è scritto là dentro», commentò Virginia, mentre sfogliavo il raccoglitore che conteneva le relazioni sui gruppi 'speciali'. Qualche settimana prima, a seguito di preoccupanti dichiarazioni di Charlotte, e la conclamata scoperta di una coppia, Lauren e Albert, quest'ultimo

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costretto a trasferirsi in un'altra comunità per questo motivo, aveva deciso di tenere un gruppo sulla «dipendenza affettiva», chiedendomi di partecipare. L'iniziativa ebbe vita breve, tuttavia – dopo tre incontri Virginia decise di concludere. «Pare più un'occasione per giustificare gli abusi che hanno subìto, invece che un modo per parlare di come vivono le relazioni sentimentali». Aveva ragione: quelle relazioni mi hanno causato soltanto tristezza, insieme ad un pervasivo senso di impotenza. Ma non mi sarei dovuto stupire – questa serie di gruppi era iniziata sotto pessimi auspici.

21 settembre 2018, il primo appuntamento con questa discussione sulla dipendenza affettiva. Virginia era arrivata preparata: aveva un filmato da mostrare, insieme a una presentazione PowerPoint. Mi misi a preparare proiettore e computer in sala TV, aspettando che ella finisse di passarsi le consegne con Dacia, che aveva fatto il precedente turno di notte. Mentre gli utenti sistemavano le sedie, Agatha si avvicinò a me, sussurrando. «Ma guardiamo qualcosa?», mi chiese. Annuii, consapevole di cosa quella domanda significava. Significava che, molto probabilmente, il filmato e la presentazione avrebbero consentito a chi non intendenva partecipare attivamente di rimanere in disparte. Avevo trovato l'idea di un gruppo dedicato alla dipendenza affettiva molto interessante – il concetto di «dipendenza» è assolutamente chiave tanto per patologizzare l'uso di sostanze quanto per moralizzarlo, ma è un concetto molto vasto, che si può facilmente applicare a contesti radicalmente diversi. Ero molto curioso di capire come sarebbe stato declinato in questo: che significa essere dipendenti dagli «affetti»? Come si può in questo ambito tracciare un confine netto fra «dipendenza» e, ad esempio, «affiatamento» o anche molto più semplicemente «amore»? Queste e altre domande mi ronzavano nella testa, e la domanda di Agatha ebbe un effetto immediatamente deprimente. Le mie aspettative erano state ridimensionate da poche parole e uno sguardo speranzoso. Il filmato che Virginia aveva preparato era la sequenza di un qualche film, nella quale una giovane donna raccontava, a mo' di intervista, le sue sfortunate vicende sentimentali. Passaggi da un uomo all'altro, senza sentirsi mai veramente desiderata, o anche solo considerata. Ad un certo punto, descrive uno di questi uomini come «gentile» soltanto perché, dopo un rapporto sessuale, «mi ha prestato un fazzoletto [mentre piangeva], ma poi se n'è andato». Una parte che ha colpito molti degli utenti. «Quanto può aver subito una donna, per considerare una cosa del genere come 'gentile'? Cosa può aver passato?», commentò Emily. L'obiettivo era chiaro. Mostrare una persona che evidentemente cerca negli altri, e in particolare nelle relazioni amorose, il significato della propria esistenza, una ragione di essere, un modo per colmare un vuoto emotivo che altrimenti è insopportabile. In questa prospettiva, l'obiettivo è stato senza dubbio raggiunto. «Chi si rivede in questa scena?», chiese Virginia alla fine del filmato. Numerose mani si alzarono. Agatha, Emily, Elsa, Magda, Charlotte, Sylvia. Anche Philip, l'unico degli uomini a sentirsi vicino alla protagonista della scena che avevamo appena visto. «Che cosa significa secondo voi?», continuò Virginia. Che non sa stare sola, fu la risposta più frequente. «Ma d'altra parte chi ci sa stare sola?» domandò Magda, più a sé stessa che al resto degli astanti. «Io non ci so stare di sicuro», rispose Charlotte, «non ci sono mai stata e non ci voglio stare». «Io mi sono sposata con il primo uomo che mi ha detto 'ti amo' e mi ci ha fatto credere. Ma non capivo niente di cosa fosse la vita di coppia», aggiunse Agatha. Sylvia, Magda e di nuovo Charlotte si dissero d'accordo. «Chissà perché lo facciamo», si chiese Magda. «Nel mio caso, penso che sia soprattutto

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perché voglio trovare quell'affetto e quella considerazione che non mi hanno mai dato i miei genitori. Forse il vuoto di cui parlava quella ragazza è questo, o qualcosa di simile a questo». Ma non accettava che a un tale desiderio fosse data l'etichetta di «dipendenza» – il concetto è in sé negativo, e amare qualcuno non può essere negativo. «Che vita sarebbe senza amore?», concluse, con un tono che in quel momento mi sembrò fortemente auto-persuasivo.

Era proprio a questo punto che Virginia voleva arrivare. Iniziò a proiettare il PowerPoint che aveva preparato, che si apriva proprio con una serie di definizioni di «dipendenza affettiva», a partire dal testo che ha popolarizzato il concetto – Donne che amano troppo, di Robin Norwood, pubblicato nel 1985. Un concetto fortemente connotato al femminile: a partire dal titolo, ma il testo caratterizza la dipendenza affettiva come una forma di attaccamento patologico che molte donne manifestano nei confronti di uomini «violenti», psicologicamente quanto fisicamente. Non solo, quello di dipendenza affettiva è un concetto anche moralmente connotato, è ciò si manifesta in particolare nel fatto che il testo di Norwood si presenta come una serie di riflessioni indirizzate all’«auto-aiuto», mettendo al centro della sua argomentazione la responsabilità delle «donne che amano troppo», e che quindi si prestano a interpretare il ruolo della donna definita dalla propria relazione (eterosessuale). Sotto molti aspetti, è una rappresentazione che si avvicina molto a quella che ho definito «moralizzante» della tossicodipendenza, e presenta gli stessi paradossi nel rappresentare un soggetto che è allo stesso tempo libero e in trappola, che sembra scegliere la sua stessa gabbia. Anche nel caso della dipendenza affettiva, come nel caso dei 12 passi di Narcotici Anonimi, riconoscere la propria impotenza è il requisito per poter intervenire su sé stessi [cfr. Schrager 1993].57

Il concetto è di dipendenza affettiva è già di per sé, dunque, problematico, quantomeno per la sua connotazione di genere. Philip, durante il gruppo, provò a metterla in discussione, sostenendo che «in realtà sono gli uomini ad essere più dipendenti dalle donne che il contrario. Quando una donna ti lascia, è definitivo». Una considerazione altrettanto generalizzante, ma che almeno va contro la generalizzazione dominante, pensai. Ma il suo tentativo di partecipare non ebbe grande seguito. Si trovò schiacciato dai racconti delle donne che avevano parlato in precedenza, e che non si limitarono a parlare di dipendenza affettiva. Sylvia fu la prima. Sapevo, dagli operatori, che aveva subìto abusi da parte del marito, anche molto gravi, e che faceva lo sforzo costante di non menzionarli mai. E anche in questo caso, non disse niente di specifico. Soltanto che il marito la picchiava, e che lei nonostante questo non era mai riuscita ad andarsene. Per questa cosa, si sentiva profondamente in colpa. «Ne ho colpa io perché lui me le dava, ma io me le facevo dare. Stavo lì e me le prendevo. Certo, lui ha colpa perché mi picchiava, ma anche io mi sento responsabile. Un 50-50». Una rappresentazione molto

57 Particolarmente interessante è il fatto che nel testo originale, ciò che è stato tradotto in italiano come

«dipendenza affettiva» sia relationship addiction, fatto che sembra enfatizzare la dimensione di definizione di sé attraverso l’altro più che la specificit{ amorosa della relazione; tuttavia, nel testo gli esempi che sono portati hanno sempre a che fare con relazioni amorose eterosessuali, e non relazioni in generale. Perciò, la traduzione «dipendenza affettiva», per quanto non fedele alla lettera del testo inglese, sembra aderente al significato concreto che tale concetto acquisisce nei racconti riportati.

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efficace di quel meccanismo che il concetto di dipendenza affettiva cerca di spiegare: la necessità di non stare soli, di non compromettere una relazione nemmeno in una condizione di abuso, è tale da spingere alla sopportazione. E la sopportazione, percepita come una scelta, provoca senso di colpa. Ma sin da questo intervento di Sylvia, aveva iniziato a manifestarsi un sottotesto nella discussione, in qualche modo implicito nello stesso concetto di dipendenza affettiva ma progressivamente portato a vero e proprio testo: una giustificazione degli abusi e di chi li commette.

La prima a esprimersi in questo senso fu Magda. Anch’ella raccontò di aver subìto abusi durante alcune sue relazioni passate, ma con un tono molto diverso da quello di Sylvia. «Quando il mio ragazzo me le dava», disse, «io spesso stavo zitta, perché in quel momento pensavo che forse me le meritavo, che avevo fatto qualcosa di sbagliato». Si spinse anche oltre. «Pensavo sempre, forse anche ora, che in fondo se mi picchiava voleva dire che teneva a me. Che voleva che io non facessi cose sbagliate. Pensavo che fosse un segno che gli interessavo, che ero importante». Una contrapposizione fra abuso e apatia in cui il primo segnala una presenza emotiva nella relazione. Forse ancora di più, un prendersi-

cura della relazione. Se l’atteggiamento che Sylvia aveva mostrato nella sua narrazione dell’abuso era

ambiguo, di reciproca colpevolezza, Magda apriva alla possibilit{ che l’abuso stesso segnalasse qualcosa di positivo all’interno della relazione. Una possibilit{ nella quale non sembrava credere del tutto, ma che rimaneva lì, al centro della discussione, in attesa che qualcuno la prendesse sul serio. Fu Charlotte a prenderla sul serio. A un gruppo genitori, la madre di Charlotte aveva spiegato la situazione relazionale della figlia: era scappata di casa e si era sposata con uno degli spacciatori dai quali comprava cocaina. Data la disapprovazione della famiglia, Charlotte si era a lungo rifiutata di tornare a casa, e aveva vissuto con il marito per qualche mese, passando da edificio abbandonato a edificio abbandonato. E ogni volta che la madre o il fratello la vedevano, mostrava segni di aver subìto violenza. Soltanto quando il marito fu arrestato Charlotte si convinse a tornare a casa, e poi a iniziare il percorso riabilitativo in comunità – ma sempre con l’obiettivo di tornare insieme al marito. Mi aspettavo, perciò, una posizione di ambiguità o anche di esplicito rifiuto di rappresentare la propria relazione attraverso il frame della dipendenza affettiva. Sin dall’inizio della sua permanenza in comunità, Charlotte aveva, pur riconoscendo le colpe del marito, comunque considerato «perdonabili» gli abusi, perché provenienti da una posizione di interesse e preoccupazione nei suoi confronti. E queste aspettative si realizzarono, sin da subito. «Io non ci sto a chiamare ‘dipendenza’ il rapporto con mio marito. La fa sembrare una cosa brutta, e non lo era». Sembrava sentire le stesse premesse del gruppo come un attacco a sé e al suo matrimonio. «Non capisco perché state dicendo che dipendere dall’amore è una cosa brutta. Secondo me è una cosa bella».

Ma rapidamente si lanciò in una difesa del marito, ponendosi in una posa apertamente empatica nei suoi confronti. «C’è la droga di mezzo, quando c’è la droga le persone si trasformano. Lui non è così, non le farebbe mai queste cose se non fosse fatto». Questa dimensione rimase centrale nel suo discorso. Sotto effetto di sostanze il marito non si controlla, perché nessuno si controlla quando è sotto effetto di sostanze; ma non sarebbe corretto giudicare una persona da come si comporta nei suoi momenti peggiori. E, d’altra parte, anche lei non si sentiva innocente. «Per esempio, se sono ubriaca e siamo fuori, e io vado a parlare con uno, e mio marito viene da me, mi strattona, mi tira uno schiaffo, io

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gli chiedo scusa, perché ha ragione lui, sono io che sbaglio, sono di fuori. E lui mi ferma perché ci tiene a me». E volle dare un’altra dimostrazione di quanto il marito tenesse a lei. «Quando mi ha dato questa coltellata – e si alzò una manica per mostrare una cicatrice che aveva sul braccio sinistro – si è subito reso conto che aveva fatto una cazzata, mi ha dato una mano a pulirla e a medicarla, mi ha chiesto scusa un sacco di volte. Mi ha anche consigliato di non andare all’ospedale, come la spiegavamo una cosa del genere? Si vede che è una coltellata, non può essere un incidente. Abbiamo risolto da noi. Mi ha aiutata».

Mi aspettavo di sentire una difesa del marito. Mi aspettavo, e così anche Virginia, di sentire un rifiuto del frame della dipendenza affettiva. Ma non mi aspettavo, forse nessuno se lo aspettava, di sentire argomentazioni così esplicitamente apologetiche nei confronti di atti di violenza che ritenevo assolutamente inaccettabili. Rivolsi lo sguardo verso Virginia. Aveva la mia stessa espressione basita. Charlotte concluse il suo intervento riformulando la prospettiva di Magda. «Ogni tanto, in un rapporto, uno schiaffo ci vuole. Sennò non è un rapporto, vuol dire che non c’è interesse». Una chiusa che diede adito ad altri interventi, che cercavano di ribadire lo stesso concetto. Raymond, che fino a quel momento non aveva parlato, sostenne che «alle donne piacciono soltanto quelli che gli (sic) danno le mestolate». Agatha ricordò che il suo più grande amore era quello con il quale c’era stata la più sistematica violenza reciproca. «Ci siamo picchiati, accoltellati, ci siamo fatti di tutto. Ma ci amavamo anche molto». Magda prese nuovamente la parola, per dire che «le botte non vanno bene, sono d’accordo, ma non potrei mai stare con un uomo senza palle», con l’implicito che «avere le palle» significa necessariamente in qualche misura aggressività e violenza.

In numerose occasioni, Virginia cercò di riportare la discussione sulla dipendenza affettiva. Di ridurre lo spazio di questa sistematica giustificazione della violenza subita. Ma con scarso successo: ogni volta che cercava di tornare alla definizione del concetto e a una discussione della sua applicabilità nelle storie degli utenti, la violenza riaffiorava, senza eccezioni. Progressivamente, iniziò a emergere un altro nucleo narrativo che sembrava essere condiviso: quello della violenza reciproca. Agatha ne aveva parlato, e ci tornò sopra più volte. Aveva subìto numerosi abusi, ma non erano mai stati in una sola direzione. Aveva sempre risposto, con altrettanta aggressività se necessario. Anche Charlotte affermò che la violenza «insita in ogni rapporto» doveva venire da entrambe le parti. «Se io trovo mio marito con un’altra, non mi controllo, lo meno, lo ammazzo», disse, con tono assolutamente serio. E infine, di nuovo Magda, che confessò di aver imparato una lezione dalla prima relazione nella quale aveva subìto violenza, la necessità di una risposta. Di «farsi rispettare». «Per essere tossici», disse, rivolta verso Virginia, «bisogna essere anche un po’ uomini».

Alla fine del gruppo, Virginia e io rientrammo in ufficio. Nessuno dei due aveva particolarmente idea di cosa dire. Dacia non se n’era ancora andata, e chiese cosa fosse successo. Mentre Virginia scriveva la sua relazione, cercai di riferire quanto più neutralmente possibile cosa fosse emerso dalla discussione. Non ci riuscii, ovviamente. A restituire l’andamento della discussione senza intervenire con giudizi morali. In quel momento, non potevo immaginare di rappresentarmi in maniera diversa quelle narrazioni.

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Il giorno dopo, cercai di venire a capo dell’accaduto, lasciando per quanto possibile da parte quegli stessi giudizi.

In questo caso, forse, potrei azzardarmi a dire che questa dipendenza [la dipendenza affettiva] opera come una morale: è praticata, quotidianamente, senza che ci sia un processo di autoriflessione che la porta a coscienza e a problematizzazione. Ha l’aspetto di una disposizione

incorporata. Non ho avuto l’impressione che fosse un tema particolarmente vicino a nessuno

dei partecipanti, nel senso che non era mai stato propriamente tematizzato come qualcosa del quale preoccuparsi. Come hanno detto Charlotte e Agatha, «le relazioni sono così»: una prospettiva assolutamente naturalizzata, che mai una volta ha dato l’impressione di essere costruita, o appresa. In generale, tutto ciò che ha a che fare con le relazioni pare essere profondamente naturalizzato: anche il discorso di «cercarsi qualcuno che ci ami» (frase presente in una delle slides del PowerPoint di Virginia) ha creato un piccolo scandalo perché non si «cerca» qualcuno che ci ami, né si «impara» ad amare qualcuno, è una cosa che semplicemente accade. Questa non è certamente una rappresentazione esclusiva dei miei interlocutori: l’immagine dell’amore come qualcosa che scende dal cielo gi{ formato è talmente comune che non vale nemmeno la pena stare a perdere tempo a decostruirla. Semmai, la peculiarità è che parte integrante di questo amore «sceso dal cielo» sia la risoluzione violenta dei conflitti. Ancora più significativo, però, è quello che è successo quando nel contesto del gruppo, e in relazione a quello che ha detto Virginia, si è creata una situazione in cui i presenti sono stati «costretti» ad introdurre un elemento di riflessività nella risposta alla domanda «come dovrei vivere?», e nella fattispecie, «come dovrei comportarmi nelle mie relazioni amorose?», ad entrare nello spazio dell’etica per come lo definisce Zigon. In questo momento, in questa situazione, i soggetti coinvolti si sono sentiti costretti a «giustificare» la propria morale, a prenderla in esame e darne una risposta in senso strettamente valutativo: è giusto quello che sto facendo? Quello che mi stanno facendo? Ed è chiaro che il passaggio dalla morale all’etica, dall’incorporazione alla riflessivit{, è un passaggio «traumatico», che richiede una messa in discussione dei fondamenti della nostra esistenza, del nostro esserci-nel-mondo, e in questo caso soprattutto del nostro essere-con. E da questo terremoto, non possono che emergere delle soggettività trasformate, in parte, seppure piccola, seppure minima ed insignificante, almeno dallo stesso fatto di aver portato a riflessività una pratica seppellita profondamente nella propria quotidianità. «(…) this moment of ethics is a creative moment, for by performing ethics, persons create, even if ever so slightly, new moral selves and enact new moral worlds», scrive Zigon [2008]. Magda la pulce nell’orecchio se l’è fatta mettere, da quello che ha detto Virginia. Il suo sguardo sembrava quello di una persona che per quanto lo sforzo di autodifesa della propria morale possa essere energico non è riuscita a rimanere indifferente alle parole che ha sentito. Strategicamente, in questi contesti non si può che iniziare piantando un piccolo cuneo di dubbio nella costruzione ideologica del nostro interlocutore, interrompendo gli automatismi della morale portandone gli assunti in superficie. Forse, in

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alcuni casi, può davvero essere efficace come metodo di aggancio, non certo sufficiente per intervenire in maniera radicale sulla soggettività altrui ma necessario per creare un punto d’ingresso. Questo, chiaramente, presuppone che la trasformazione guidata della soggettività altrui sia un obiettivo legittimo, cosa sulla quale in questo momento sospendo il giudizio. Dall’altra parte, il rischio è quello di incontrare una resistenza come quella di Charlotte, che pur di salvare le implicazioni quotidiane della propria pratica morale rafforza, attraverso la riflessività, i confini del suo Sé e del suo mondo. Portare a consapevolezza, nel suo caso, ha significato cercare strategie retoriche per rendere (o rendersi?) accettabile la situazione che ha vissuto e che sta vivendo, almeno nella misura del codice negoziato: se non può dirti che la dipendenza affettiva è una cosa positiva, proverà a dirti che nel suo caso gli elementi di disturbo non sono essenziali ma contingenti, legati unicamente all’uso di sostanze e non ad una dinamica relazionale patologica, dalla parte sua o dalla parte del marito. Non è impossibile che incontrare il frame della dipendenza affettiva abbia spinto Charlotte a rinchiudersi nel processo di naturalizzazione e normalizzazione della sua relazione, ancora di più di quanto non facesse già prima.58

Da un certo punto di vista, sarebbe facile, quasi rassicurante, attribuire le narrazioni che avevo udito durante quel gruppo ad una qualche forma di «falsa coscienza». Sicuramente, una dimensione di incorporazione, di naturalizzazione di quel tipo di rapporto è presente. In questo senso, è forse