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Condizioni di punibilità e di procedibilità a confronto

Nel documento Le condizioni obiettive di punibilità (pagine 165-175)

CONDIZIONI DI PUNIBILITÀ ED ELEMENTI ESSENZIALI DEL REATO

6. Condizioni di punibilità e di procedibilità a confronto

L’aver affermato l’estraneità delle condizioni di punibilità rispetto al fatto di reato e l’aver concluso a favore del perfezionamento di quest’ultimo a prescindere da esse, se, da un lato, rende più evidente la distinzione dagli elementi essenziali del reato, dall’altro, ha come conseguenza la loro progressiva attrazione nell’orbita delle condizioni di procedibilità, elementi, la cui disciplina è contenuta prevalentemente nel codice di procedura penale ed al cui verificarsi è subordinato l’esercizio dell’azione penale237. Malgrado la diversità di sedes materiae e le

condizioni obiettive di punibilità, in St. Iuris, 1997, p. 593. In questa direzione si orienta il pensiero di T. PADOVANI per il quale «l’art. 44 c.p. disciplina solo un caso di imputazione obiettiva e non di responsabilità obiettiva, perché l’evento condizionale, non attenendo al piano degli elementi costitutivi dell’offesa, e quindi del fatto, non può concorrere a costituire l’oggetto del dolo»: così T. PADOVANI, Diritto penale cit., p. 362 ss.

237 Conformemente a quanto espresso dalla loro denominazione, le condizioni di procedibilità

trovano la loro sede nel codice di procedura penale, in cui viene loro riservato un apposito titolo (artt. 336- 346), dopo la disciplina della notitia criminis. Il legislatore dopo aver definito i diversi tipi di condizioni (querela, istanza di procedimento, richiesta di procedimento e richiesta di autorizzazione a procedere) ne detta un’articolata disciplina, sia in relazione agli effetti sul procedimento determinati dalla loro mancanza, sia in relazione al regime degli atti compiuti in caso di loro carenza. Il carattere così minuzioso della suddetta regolamentazione consente già di rinvenire i profili di differenziazione tra le due tipologie condizionali che, almeno in una prospettiva ontologica, non sono sovrapponibili, come vorrebbe una parte della dottrina. Per una costruzione prettamente processuale delle c.o.p. cfr., per tutti, U. GIULIANI- BALESTRINO, Le condizioni di punibilità sono istituti sostanziali o processuali?, in Arch. Pen., 1986, p. 3 ss.; sulla necessità della

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conseguenza a cui esse danno vita, i rapporti tra condizioni di punibilità e procedibilità sono, ad oggi, al centro di un fittissimo dibattito dottrinale, articolato in una pluralità di posizioni ed orientamenti: a fronte di autori che, ammettendo l’esistenza delle sole condizioni di punibilità intrinseche, ritengono assorbite alla dimensione processualistica quelle estrinseche, si pongono coloro i quali, sulla base di rilievi “topografici” e soprattutto funzionali, ne affermano la piena autonomia categoriale238. Vero è che la pretesa rilevanza – che si è cercato di sostenere nelle pagine precedenti – delle condizioni estrinseche dovrebbe condurre a sostenerne l’autonomia ontologica e dogmatica, ma, ancora una volta, per evitare apriorismi e presuntuose prese di posizione è al dato positivo che si deve guardare per cogliere, se ve ne sono, gli elementi differenziali tra le categorie in esame.

Dal momento che anche l’origine delle condizioni di procedibilità finisce per perdersi tra le sabbie del tempo, opportuno appare iniziarne l’analisi dalla disciplina attuale che ne forniscono i codici – valutandone così gli effetti che producono sulla vicenda processuale – per poi giungere con un processo di risalimento sino alle loro origini e alla loro ragion d’essere239. Punto di partenza della riflessione può

distinzione tra c.o.p. intrinseche ed estrinseche e una necessaria qualificazione in chiave processuale di queste ultime soltanto, cfr. F. BRICOLA, op. cit., p. 600.

238 Nella precedente nota si è accennato alle posizioni che sostengono l’assimilabilità tra condizioni

di punibilità, quelle estrinseche, e condizioni di procedibilità. Ampia parte della dottrina, tuttavia, è dell’avviso opposto, seppur sulla base di argomentazioni diverse: taluni valorizzano il profilo di differenziazione qualitativo, per cui si ravviserebbero nelle c.o.p. “fatti” giuridici e non “atti” come le condizioni di procedibilità. Cfr. G. NEPPI-MODONA, op. cit., p. 9, M. ZANOTTI, op. cit., p. 544. Argomentazioni di carattere prevalentemente “topografico” vengono fornite da chi mette in evidenza la diversa collocazione, cui segue la diversità di disciplina applicabile tra i due tipi condizionali: cfr., per tutti, ANGIONI, op. cit., p. 1474. Articolata e approfondita, sia sotto il profilo storico, sia sotto quello funzionale, è l’analisi svolta da P. VIOLANTE, op. cit., p. 583 ss.

239 Un esaustivo studio sulle origini storiche delle condizioni di procedibilità e loro apparizione nel

sistema penalistico italiano è stata condotta da P. VIOLANTE, op. cit., p. 593 ss. L’A. precisa che «sotto il vigore dei codici del 1865 e del 1913 esse erano designate sotto la terminologia di “presupposti processuali” mentre la formula “condizioni di procedibilità” entra nel lessico giuridico solo con la codificazione del 1930». La dottrina successiva ha poi chiarito che i presupposti attengono alla legale costituzione del processo, mentre le condizioni di procedibilità riguardano la corretta celebrazione del processo legalmente incardinato; diversi sono gli effetti per cui «se la mancanza di una condizione del procedere determina la nullità assoluta ovvero l’inutilizzabilità degli atti eventualmente compiuti, la presenza di un limite alla iurisdictio ne determina l’inesistenza, così

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individuarsi in una norma di procedura, l’art. 346 c.p.p., che appare significativa nella misura in cui disciplina le conseguenze, in termini sostanziali e processuali, della pronuncia giudiziale che ne accerti la mancanza. Mentre l’eventuale carenza della condizione di punibilità, nella sua fase di pendenza, determina una pronuncia sul merito con un effetto preclusivo della proposizione di una nuova azione, l’assenza della condizione di procedibilità comporta un esito meramente processuale, con la conseguente riproponibilità dell’azione come dispone l’art. 345 c.p.p.240.

La tesi della diversità della natura dei due istituti – rispettivamente sostanziale per le condizioni di punibilità e processuale per le condizioni di procedibilità – può dirsi

A. GAITO, voce Procedibilità (condizioni di) (diritto processuale penale), Caratteri generali, in Enc. Dir., Agg. II, Milano, 1988, p. 745 e M. MONTAGNA, Autorizzazione a procedere e autorizzazione ad acta, Padova, 1999, p. 4 ss. Come si preciserà in seguito, le condizioni processuali, solitamente, si riconducono ad una doppia esigenza di deflazione del contenzioso, per decongestionare i ruoli delle udienza, troppo corposi, e soprattutto di delimitazione del potere del p.m. (verosimilmente quest’ultima funzione è la prima ad essere storicamente sorta, secondo la rappresentazione del magistrato come semplice bouche de loi).

240 L’attuale art. 129 c.p.p. statuisce l’obbligo della immediata declaratoria di determinate cause di

non punibilità. La dottrina si è a lungo chiesta quale fosse l’effetto determinato dall’accertamento del mancato avveramento della c.o.p. e, se non vi è dubbio che esso vada acclarato con una sentenza di merito, idonea a dar vita al giudicato sostanziale e l’effetto preclusivo del ne bis in idem, incerta è la formula con cui la carenza vada dichiarata. La dottrina maggioritaria, in applicazione di una concezione della punibilità come elemento esterno alla struttura del reato, conclude in senso contrario alla correttezza della formula il fatto non costituisce reato, ritenendo più idonea la formula, contenuta nell’art. 530 c.p.p., della non punibilità per altra ragione. Una simile soluzione è stata di recente avallata dalla Cass, Sez. Un., 28 ottobre 2008, n. 40049, in Guida al dir., 2008, n. 48, p. 70. Questa osservazione riveste una particolare importanza, dal momento che consente di supportare la tesi volta ad attribuire alle c.o.p. natura sostanziale, come si evince dalla sentenza di merito a cui danno vita, a fronte della loro estraneità al fatto di reato, per cui esse non costituirebbero elementi essenziali, bensì elementi “estranei” al reato. Guardando, invece, all’art. 345 c.p.p., esso dispone che «il provvedimento di archiviazione e la sentenza di proscioglimento o il provvedimento di archiviazione e la sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere, anche se non più soggetta a impugnazione, con i quali è stata dichiarata la mancanza della querela, della istanza, della richiesta o dell'autorizzazione a procedere, non impediscono l'esercizio dell'azione penale per il medesimo fatto e contro la medesima persona se è in seguito proposta la querela, l'istanza, la richiesta o è concessa l'autorizzazione ovvero se è venuta meno la condizione personale che rendeva necessaria l'autorizzazione. La stessa disposizione si applica quando il giudice accerta la mancanza di una condizione di procedibilità diversa da quelle indicate nel comma 1». Fra l’altro tale disposizione, frutto delle numerose modifiche e interpolazioni subite dal codice di procedura penale nel tempo, riproduce inalterato il contenuto dell’art. 17 c.p.p. del 1930 che, già allora, consentiva la l’avvio di un nuovo procedimento per il medesimo fatto ove la condizione intervenga, in ciò differenziandosi dal contenuto dell’art. 435 c.p.p. (nell’originaria formulazione del 1930) corrispondente all’attuale 129 c.p.p.

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corroborata anche dal riferimento ad un’altra norma, questa volta “sostanziale” e collocata nel codice penale, individuabile nell’art. 158 c.p. in tema di prescrizione241.

Nel disciplinare il fenomeno della prescrizione, il legislatore stabilisce che il termine di decorrenza prescrizionale varia a seconda che si tratti di un reato condizionato o procedibile a querela di parte: nel primo caso il dies a quo s’identifica con il momento di avveramento della condizione, nel secondo invece con il giorno di commissione del reato. Invero, non possono celarsi le incertezze interpretative che quest’ultimo rilievo ha generato, con soluzioni di segno antitetico, talvolta orientate ad attribuire carattere processuale alle c.o.p. estrinseche, talaltra di attrarre la querela alla dimensione sostanziale; malgrado ciò, risulta preferibile qualificare il riferimento normativo dell’art. 158 c.p. come un indizio ulteriore a favore della diversità ontologica tra i due istituti242.

Anzitutto bisogna rilevare che, se vi fosse stata identità tra la condizione di punibilità e la condizione di procedibilità, il legislatore non avrebbe avvertito l’esigenza di introdurre una duplice disposizione di contenuto analogo; occorre poi guardare al contenuto del citato articolo. La ragione fondante del diverso termine è di carattere sostanziale e, più semplicemente, può rinvenirsi nella constatazione logica che «il sistema ricollega il decorrere della causa estintiva della punibilità al

241 All’art. 158 c.p. si è già fatto riferimento al momento di argomentare il carattere conseguente

della condizione rispetto alla condotta di reato e in seguito si ritornerà per analizzare la problematica del tempus commissi delicti, dal momento essa è utile a dimostrare la diversa natura delle condizioni in esame, da ricondurre a momenti e sfere di incidenza attinenti l’una il profilo sostanziale, ante- procedimentale, l’altra l’effettivo esercizio dell’azione penale, dunque pienamente inserita nella prospettiva della corretta celebrazione del processo penale e che, pertanto, giustifica il regresso, quanto a decorrenza della prescrizione, al momento sostanziale del verificarsi del fatto di reato.

242 Accanto a quell’orientamento che propone un inquadramento processuale delle c.o.p., non si può

tacere dell’opposta tendenza di ravvisare nella querela, espressamente prevista dal legislatore quale condizione di procedibilità, ex art. 336 c.p.p. un elemento di carattere sostanziale. Ancor più incerta risulta la qualificazione delle condizioni previste agli artt. 9 e 10 c.p. relativamente alla presenza del reo nel territorio dello Stato.

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verificarsi di un elemento che è a questa pertinente, mentre ritorni al momento del fatto per i reati procedibili a querela, perché questa non ha nulla a che vedere con il tema della punibilità e con le cause che la estinguono»243.

Poiché, tuttavia, non sono le conseguenze a decidere della natura di un elemento, ma il contrario, è a questo punto utile cogliere quali siano le effettive peculiarità delle categorie. In entrambi i casi, per espressa previsione legislativa, si è di fronte a “condizioni” distanti non solo per natura, momento d’incidenza, ma soprattutto per il diverso modo di operare.

Il primo elemento di diversità, di natura prettamente formale, si ravvisa nella differente essenza dell’istituto disciplinato dall’art. 44 c.p., qualificabile come un semplice “fatto giuridico”, rispetto agli elementi previsti dall’art. 336 e ss. c.p.p. qualificabili come veri e propri “atti giuridici”244. Quanto alla collocazione strutturale, il criterio letterale, poi, conduce a “sistemare” le prime al momento della punibilità, della conseguenza del reato, mentre le seconde nella fase procedimentale, indifferenti tanto rispetto al piano del disvalore, quanto a quello delle conseguenze sanzionatorie. Prendendo ancora una volta in prestito denominazioni “privatistiche”, si avrà che le condizioni di procedibilità si presentano come condizioni potestative, azionabili sulla base della semplice

243 Così M. ZANOTTI, op. cit., p. 544.

244 «Fatti giuridici in senso stretto non sono solo i fatti della natura, ma anche i fatti dell’uomo, ai

quali l’ordinamento riconosce rilevanza a prescindere dalla volontarietà o meno del comportamento del soggetto rispetto al loro verificarsi. […] La qualifica di atto processuale penale spetta, dunque, a tutte quelle attività umane, sorrette da un impulso volontaristico e produttive di uno specifico effetto nella dinamica procedurale, che siano state poste in essere all’interno del procedimento penale»: così G. DEAN, Gli atti, in Procedura penale (AA. VV.), Torino, 2010, p. 159. La distinzione in esame, se risulta utile a chiarire talune fattispecie dubbie (tra tutte, si faccia attenzione alla sentenza dichiarativa del fallimento nei reati di bancarotta e la sentenza di annullamento del matrimonio nell’ipotesi di reato prevista dall’art. 558 c.p.), trova però dei limiti, rappresentati dalla previsione di casi in cui la legge subordina l’instaurazione del processo al verificarsi di fatti (quali es. le ipotesi sospensive dell’iniziativa processuale collegate al decorso di un dato termine, cfr. art. 3 l. 24 dicembre 1979, n. 650 in materia di tutela delle acqua dall’inquinamento) e dalla presenza di casi “dubbi” quale, per tutti, la configurazione della presenza del reo sul territorio dello Stato, ex artt. 9 e 10 c.p.

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volontà del soggetto legittimato (la persona offesa nel caso della querela o dell’istanza di procedimento e il p.m. negli altri casi), a differenza delle condizioni di punibilità, in linea di massima, estranee al dominio fisico e psichico dell’agente. Corollario della evidenziata natura potestativa delle condizioni di procedibilità si ravvisa nella concessione, da parte dell’ordinamento, della facoltà di rinuncia e remissione della querela, non previste nel caso delle c.o.p., soggette ad un regime di carattere oggettivo.

Se la bontà del criterio enunciato si rivela con riguardo a talune ipotesi quali la fattispecie di cui all’art. 558 c.p., in cui la sentenza di annullamento del matrimonio chiaramente rileva come fatto giuridico, che è condizione di punibilità, è innegabile che il ricorso allo stesso incontra grossi limiti. Ne è esempio l’incertezza sussistente ancora oggi circa la definizione della condizione della presenza del reo sul territorio dello Stato, richiesta dagli artt. 9 e 10 c.p.245. Per dare una soluzione ai casi in

questione, data l’insufficienza del criterio meramente formale, che porterebbe ad affermarne la natura di condizione di punibilità, dovendosi rinvenire nella presenza

245 L’art. 9 c.p. al primo comma dispone che il cittadino, che, fuori dei casi indicati nei due articoli

precedenti, commette in territorio estero un delitto per il quale la legge italiana stabilisce la pena di morte (ormai non più prevista) o l’ergastolo, o la reclusione non inferiore nel minimo a tre anni, è punito secondo la legge medesima, sempre che si trovi nel territorio dello Stato e in modo analogo l’art. 10 c.p., con riguardo al delitto commesso all’estero dallo straniero: «lo straniero, che, fuori dei casi indicati negli articoli 7 e 8, commette in territorio estero, a danno dello Stato o di un cittadino, un delitto per il quale la legge italiana stabilisce la pena di morte (ormai non più prevista) o l’ergastolo, o la reclusione non inferiore nel minimo a un anno, è punito secondo la legge medesima, sempre che si trovi nel territorio dello Stato e vi sia richiesta del Ministro della giustizia, ovvero istanza o querela della persona offesa». Nelle fattispecie appena ricordate il legislatore, accanto alle “tipiche” querela ed istanza, prevede la presenza del reo sul territorio dello Stato ai fini della punibilità. Circa la natura del requisito della presenza nel territorio permangono molteplici dubbi. La prevalente dottrina ritiene che dovrebbe concludersi a favore della loro natura di condizione di punibilità sul presupposto che si tratterebbe di un «fatto giuridico, compiutamente tipicizzato, tale che, una volta accertato, non è suscettibile di alcuna valutazione discrezionale, ma fa scattare l’obbligo di esercitare l’azione penale». Cfr., per tutti, G. NEPPI- MODONA, op. cit., p. 9. Contra, G. de VERO, op. cit., p. 333. L’A. sostiene che «la condizione in parola è totalmente estranea non solo agli interessi coinvolti in chiave offensiva dalla figura criminosa (e non può quindi configurarsi come condizione di punibilità intrinseca), ma altresì ad ogni profilo sostanziale di opportunità politico criminale che possa sconsigliare di dar seguito alla punibilità per il fatto commesso in caso di sua assenza», pertanto si tratterebbe di condizioni di procedibilità.

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del reo semplicemente un fatto giuridico, ancora una volta dirimente appare il riferimento ad un indice “assiologico”. Il meccanismo fondamentale che sta alla base del funzionamento delle condizioni di punibilità, tanto estrinseche quanto intrinseche, si è osservato, è ravvisabile in un giudizio di bilanciamento tra diversi piani di interesse, in modo da raggiungere un loro equilibrio “selettivo”, funzionale a conformare anche il sistema penale alla geometria variabile con cui si compongono i valori nell’ordinamento.

Diverso è invece il modo di atteggiarsi nel caso delle condizioni di procedibilità, per le quali si è parlato di un «contro-bilanciamento degli interessi per contrapposizione» rispetto alla repressione penale246. In tal senso, la presenza del reo sul territorio dello Stato, inserita in fattispecie che presuppongono reati già perfetti in tutti i loro elementi e già “selezionati” - trattandosi di delitti dotati di una particolare carica di disvalore tale da giustificare, prima della sua “anticostituzionalità”, la pena di morte - non sembra lasciare spazio a dubbi circa l’opportunità di attivare la risposta sanzionatoria. Detta condizione, piuttosto, evidenzia la perplessità di intraprendere un procedimento che, data la contumacia del reo, non si celebrerà con un contraddittorio effettivo e, anzi, verosimilmente avrà costi molto più elevati dei benefici prodotti. A supporto della soluzione qui proposta, potrebbero riportarsi due altre osservazioni: l’una di carattere oggettivo, l’altra soggettivo.

246 Così P. VIOLANTE, op. cit., p. 603. Nel citato passo, l’A. rinviene l’elemento di differenziazione

tra c.o.p. e condizioni di procedibilità nel diverso modus operandi della teoria del contro- bilanciamento; questa, infatti, si fonderebbe su un ragionamento per contrapposizione nel caso delle condizioni di procedibilità, dando così rilievo ad interessi potenzialmente in conflitto con l’esigenza di repressione penale. Le condizioni di punibilità, invece, opererebbero per specificare, selezionando nell’ambito di una molteplicità di beni giuridici (tutti potenzialmente compatibili tra loro) quelli meritevoli di tutela penale.

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Iniziando da quest’ultima, si può notare che, a seconda che si tratti di c.o.p. o condizioni di procedibilità, ad essere differente è anzitutto la titolarità del contro- bilanciamento: laddove non sussista il potere-dovere di procedere d’ufficio, legittimati ad attivare il meccanismo processuale risultano soggetti pienamente coinvolti nella vicenda procedimentale come la persona offesa dal reato o il pubblico ministero247. Tale Diversità di disponibilità non sarebbe compatibile con il meccanismo di funzionamento delle condizioni di punibilità in cui, tutt’al più, chiamato ad esplicitare e dar concretezza all’esito del più volte menzionato contemperamento di interessi è il giudice. Pertanto, non sembra azzardato poter definire il rapporto tra condizioni di punibilità e condizioni di procedibilità in termini di rigidità della materia nel primo caso, rispetto alla “geometria variabile” della seconda. Come conseguenza diretta di questa differente azionabilità degli istituti in esame interviene il secondo ordine di motivi, di tipo oggettivo, consistente nel diverso criterio che fonda il giudizio di bilanciamento nei due casi. Condivisa da gran parte della dottrina si rivela l’osservazione che la tecnica legislativa adottata dal legislatore per costruire le fattispecie sottoposte a condizione di punibilità ovvero procedibilità risulta riconducibile al rapporto tra tipicità-atipicità, in base al diverso modo in cui risultano “cristallizzati” i piani d’interesse nelle ipotesi

247 Il ricorso alla rilevanza del criterio di tipo soggettivo, cioè inerente la titolarità dell’attivazione

bilanciamento degli interessi sottesi alle condizioni, acquista significato se letto opportunamente in chiave di disponibilità/indisponibilità della tecnica di contemperamento in questione. Mentre le condizioni previste dall’art. 44 c.p., pur non incidendo propriamente sulla sfera dell’offensività, implicano una valutazione sull’opportunità della risposta punitiva, i requisiti di procedibilità intervengono ex post, a valutazione già effettuata, potendo incidere solo sulla scelta di innescare la macchina processuale. Pertanto si ha che tale decisione può non essere definitiva, come dimostrano la facoltà di rinuncia e remissione della querela, ed in ogni caso si rivela “relativa”. La relatività dipende da due diverse motivazioni identificabili, anzitutto, nella mancanza di effetto preclusivo della pronuncia della carenza di tali elementi, con conseguente riproponibilità dell’azione, inoltre, da continui checks and balances previsti dal sistema. Manifestazione più eclatante di questi

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