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Il principio di colpevolezza e la sua evoluzione concettuale

Nel documento Le condizioni obiettive di punibilità (pagine 116-123)

CONDIZIONI DI PUNIBILITÀ ED ELEMENTI ESSENZIALI DEL REATO

1. Il principio di colpevolezza e la sua evoluzione concettuale

Dopo aver messo in evidenza le implicazioni con i principi di legalità ed offensività, occorre approfondire il delicatissimo profilo dell’imputazione soggettiva delle condizioni obiettive di punibilità dal momento che la principale obiezione mossa alla permanenza dell’istituto condizionale nell’attuale sistema penale va ravvisata nella difficile coesistenza con i nuovi approdi ermeneutici raggiunti in tema di responsabilità personale.

Spesso etichettate come un retaggio della responsabilità oggettiva, le condizioni di punibilità pagano inevitabilmente il fio della loro attribuzione “anche se non volute”, come recita l’art. 44 c.p.157.

La piena comprensione della relazione tra l’evento condizionale ed il dominio psichico dell’agente non può prescindere dalla preliminare riflessione sul canone della colpevolezza alla luce della consacrazione ormai fattane dalla Carta

157 Lo studio delle implicazioni tra c.o.p. e principio di colpevolezza si rivela imprescindibile per un

duplice ordine di ragioni: anzitutto esso consente di verificare la rispondenza dell’istituto in esame ai canoni costituzionali che regolano l’imputazione penale in considerazione della necessità che l’agente risponda solo di un fatto di cui abbia avuto il dominio psichico. Inoltre, dal momento che, accedendo alla prevalente teoria tripartita, la colpevolezza concorre, insieme a tipicità e antigiuridicità a delineare la struttura del reato, l’analisi del rapporto con le condizioni di punibilità consente di precisare la loro collocazione nella struttura dell’illecito, nonché la loro funzione. Infatti, come sostenuto da autorevole dottrina, la differenza tra eventi costitutivi ed eventi condizionali si apprezza sul piano della colpevolezza e dell’antigiuridicità: ponendo le condizioni di punibilità in una dimensione esterna all’area della colpevolezza e dell’antigiuridicità si avrebbe la «demistificazione dello pseudo-problema della responsabilità per l’evento condizionale»: Così G. MUSOTTO, Le condizioni cit., p. 128 ss.

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Costituzionale, all’art. 27 Cost., e tenuto conto dell’evoluzione interpretativa condotta dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità.

Tracciate le coordinate della colpevolezza risulterà più agevole comprendere se, ed eventualmente in quale misura, le condizioni obiettive di punibilità risultino ascrivibili al genus della responsabilità obiettiva, rendendo necessario un correttivo ermeneutico che le riconduca all’alveo della colpevolezza. O, se le stesse prescindano dal governo dell’agente e sottratte alla logica dell’imputazione intervengano solo “accidentalmente” sulla fase della punibilità.

L’analisi del regime di operatività dell’istituto condizionale, del resto, non può emanciparsi dalla determinazione della loro ragion d’essere158.

Nell’evoluzione concettuale della colpevolezza, definita oggi come la complessiva condizione di rimproverabilità dell’agente per la condotta posta in essere, possono individuarsi due momenti fondamentali, coincidenti con l’introduzione della previsione di cui all’art. 27 comma 3 della Costituzione e con la pronuncia dell’ormai “storica” sentenza n. 364 del 1988 della Corte Costituzionale. Sebbene il primo si riferisca direttamente alla pena prevedendone il finalismo rieducativo, mentre l’altra sia stata pronunciata in materia di (ine)scusabilità dell’errore ex art. 5 c.p., loro comune denominatore si rinviene nella imprescindibilità dell’indagine sull’imputazione colpevole dell’illecito.

Per comprendere la reale portata del principio di colpevolezza potrebbe rivelarsi utile adottare la soluzione, elaborata da autorevole dottrina, che rinviene nella

158 Così F. RAMACCI, Condizioni di punibilità, cit., p. 112 ss. Occorre però precisare che tale

riferimento va integrato alla luce delle successive evoluzioni ermeneutiche e giurisprudenziali della colpevolezza, prima fra tutte la sentenza della Corte Costituzionale del 23 marzo 1988, n. 364, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 5 c.p. nella misura in cui non esclude la scusabilità dell’errore (ignoranza) inevitabile. «Ciò implica il riconoscimento di una dimensione costituzionale della colpevolezza che include tra i requisiti minimi dell’imputazione soggettiva anche la conoscibilità dell’illiceità del comportamento dell’agente», così D. PULITANO’, Una sentenza storica che restaura il principio di colpevolezza, in Riv. it. dir. proc. pen., 1988, p. 686 ss.

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colpevolezza il momento più alto del principio di personalità della responsabilità159. Quest’ultimo verrebbe ad articolarsi su tre differenti livelli desumibili dai commi dell’art. 27 Cost.: il divieto di responsabilità per fatto altrui, il divieto di responsabilità oggettiva ed in ultimo la colpevolezza stricto sensu. In altri termini, perché un fatto illecito possa dirsi effettivamente personale, risulta anzitutto necessario assicurarsi che l’agente non risponda per un fatto posto in essere da altri soggetti e sulla base del semplice nesso di derivazione materiale. Questi primi

159 Per una puntuale analisi del principio di personalità e delle sue differenti articolazioni si veda G.

de VERO, op. cit., p. 160 ss. L’Autore evidenzia l’impossibilità di identificare il principio di personalità con il semplice divieto di responsabilità per fatto altrui, come suggerirebbe il dato formale del primo comma dell’art. 27 Cost., a norma del quale la responsabilità penale è personale. Piuttosto, dovendosi interpretare lo stesso «come necessaria coincidenza tra soggetto che ha commesso il fatto e soggetto che ne sopporta le conseguenze sanzionatorie», occorre approfondire la questione della riferibilità della condotta all’agente, precisando quando possa ritenersi “propria” scongiurando il pericolo di incorrere in forme di responsabilità oggettiva. Il significato “positivo” del principio di personalità implica «l’effettivo impegno di una volontà consapevole nella realizzazione esteriore; o in una estensione più limitata, il mancato impegno di una volontà diretta ad evitare quella medesima realizzazione, in quanto prevedibile ed evitabile da parte del soggetto agente». E tuttavia neppure l’enunciazione del divieto di responsabilità oggettiva e la contestuale attribuzione della condotta a titolo di dolo o colpa riescono ad esplicare la piena portata concettuale del principio costituzionale in esame, dal momento che esso trova la sua più alta consacrazione nel principio di colpevolezza che, stando sempre alla ricostruzione fornitane dall’Autore da ultimo citato, si sostanzia nel giudizio di «rimproverabilità della condotta del reo, ai fini della sua assoggettabilità alla pena». Il breve excursus appena condotto sul principio di colpevolezza (recte: personalità) risulta indispensabile per procedere ad una (ri)lettura di un istituto tanto risalente e problematico quale le condizioni di punibilità, che tenga conto delle recenti e acquisizioni della dottrina penalistica. Basti pensare alla “copertura” costituzionale fornita al principio in esame e rinvenuta nell’art. 27 comma 3 Cost., che sancisce il finalismo rieducativo della pena. In particolare, il riferimento alla colpevolezza come forma più compiuta del principio di personalità può risultare assai utile nella ricostruzione della ratio e funzione delle c.o.p. e nella comprensione dello “spazio” che l’ordinamento può ancora riservare ad esse. Sul principio di colpevolezza v., in letteratura, gli approfondimenti di F. ANGIONI, Condizioni obiettive cit., p. 1440 ss.; G. FIANDACA, Principio di colpevolezza e ignoranza scusabile della legge penale, in Foro it., 1988, p. 1385 ss.; M. ZANOTTI, Condizioni di punibilità e responsabilità oggettiva, in AA. VV. Responsabilità oggettiva e giudizio di colpevolezza, Napoli, 1989, p. 343 ss.; A. ALESSANDRI, Commentario della Costituzione. Rapporti civili, Artt. 27-28, a cura di G. Branca, Bologna-Roma, 1991, p. 1 ss.; G. DE FRANCESCO, Il principio della personalità della responsabilità penale nel quadro delle scelte di criminalizzazione, in Riv. it. dir. proc. pen.,1996, p. 21 ss.; S. CANESTRARI, voce Responsabilità oggettiva, in Dig. disc. pen., vo. XII, 1997, p. 107 ss.; G. de VERO, Compartecipazione criminosa e personalità della responsabilità penale, in ST. Juris, 1998, p. 253 ss.; S. MOCCIA, Il problema della responsabilità oggettiva tra principio di tipicità e principio di colpevolezza, in AA. VV. (a cura di Giostra ed Insolera), Costituzione, diritto e processo penale. I quarant’anni della Corte Costituzionale, Milano, 1998, p. 11 ss.; E. DOLCINI, Responsabilità oggettiva e principio di colpevolezza. Qualche indicazione per l’interprete in attesa di un nuovo codice penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2000, p. 863 ss.; P. VENEZIANI, Motivi e Colpevolezza, Torino, 2000, p. 23; R. BARTOLI, Colpevolezza: tra personalismo e prevenzione Torino, 2005, p. 13 ss.; C. F. GROSSO, Principio di colpevolezza e personalità della responsabilità penale in AA. VV. Diritto penale e giurisprudenza costituzionale (a cura di G. Vassalli), Napoli, 2006, p. 3 ss.

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accertamenti, sicuramente indispensabili, non risultano ancora sufficienti a garantire una solida “personalizzazione” dell’illecito dovendosi ascendere ad un livello più elevato di riferibilità soggettiva, rappresentato appunto dal principio di colpevolezza. Essa rappresenta il complesso dei presupposti che assicurano l’effettiva appartenenza soggettiva della condotta, dovendosi verificare che l’atteggiamento psichico dell’agente sia riconducibile al paradigma del dolo o della colpa, che egli risulti in grado di intendere e volere la portata della propria azione (c.d. imputabilità) e possieda la conoscenza o la conoscibilità del precetto, soprattutto in relazione ai reati c.d. di creazione legislativa160. Solo la coesistenza dei predetti requisiti rende «legittimo ed utile» l’assoggettamento del reo alla sanzione criminale161.

La “positivizzazione” del giudizio di rimproverabilità del reo costituisce un’acquisizione recente della dottrina penalistica, a differenza delle condizioni di punibilità che, seppur non disciplinate con una disposizione di parte generale, si rinvenivano già nel Codice Zanardelli162.

160 Sull’effettiva afferenza del dolo e della colpa alla dimensione della colpevolezza si registrano

diversi orientamenti: da un lato chi, pur riconoscendo una concezione normativa, continua ad affermarne l’appartenenza, dall’altro chi ne predica l’estraneità sul presupposto della loro collocazione sul piano della tipicità. Per il primo orientamento v. G. FIANDACA- E. MUSCO, Diritto penale cit., p. 321 ss.; F. MANTOVANI, Diritto penale cit., p. 286 ss.; E. MARINUCCI- G. DOLCINI, Manuale cit., p. 243 ss. per il secondo; v. G. de VERO, Corso cit., p. 175 ss. Per una sintesi tra i diversi orientamenti, v. G. FORNASARI, voce Colpevolezza, in Dizionario di diritto pubblico (diretto da S. Cassese), vol. II, Milano, 2006, p. 968 ss.

161 Così G. De Vero, Corso cit., p. 175.

162 Si vedano le note 14 ss. § 1, cap. 1. Al codice Zanardelli si deve riconoscere il pregio di avere

previsto la centralità dell’elemento psicologico ai fini dell’accertamento della colpevolezza, secondo l’acquisizione ormai comune «che la sola esecuzione materiale del fatto non possa ritenersi sufficiente per dichiarare l'autore medesimo colpevole di un reato ed assoggettarlo alla sanzione penale corrispondente». Così si legge nella Relazione della Commissione della Camera dei Deputati sul progetto del codice penale, LXIV, Torino, 1888. Naturalmente si era ancora agli esordi della costruzione della teoria sulla colpevolezza e la codificazione del tempo risulta priva di sistematicità ed assai “confusionaria”: basti pensare che nel titolo dedicato all'imputabilità si affastellavano disposizioni in tema di dolo, di errore, di cause di giustificazione e di circostanze, mentre nessuna disposizione specifica era prevista in tema di condizioni di punibilità.

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Nonostante la sua mancanza di organicità, la codificazione del 1887, che demandava la distinzione tra elementi costitutivi ed accidentali all’attività interpretativa di dottrina e giurisprudenza, conteneva già le fondamenta per la costruzione di un diritto penale del fatto, in cui il reato fosse effettivamente espressione della volontà dell’agente: se, infatti, l'uomo fosse privo di ogni libertà di scelta e non avesse la possibilità di agire altrimenti, nessun rimprovero potrebbe essergli mosso allorché violi la legge, esulerebbe dalla sua azione ogni colpa morale e l'inflizione di un castigo per il reato commesso sarebbe priva di senso163.

Valorizzando il legame intercorrente tra condotta illecita e reazione sanzionatoria, si cercava di ridurre il più possibile i casi di responsabilità oggettiva e di privilegiando «la libertà dei propri atti», tanto che persino le circostanze del reato erano soggette ad un regime d’imputazione soggettivo164.

Il Codice Rocco, emanato in sostituzione del previgente Codice Zanardelli, non poteva rimanere indifferente rispetto ai condizionamenti del periodo storico in cui venne ad esistenza ed in particolare alle acquisizioni “volontaristiche” dell’ormai consolidata dottrina liberale165. Tuttavia, il legislatore fascista, pur continuando a

163 Il legislatore del 1889 individuava il cardine dell'imputabilità nella volontarietà del fatto,

espressione di un diritto penale fondato sulla responsabilità morale del soggetto e di una concezione etico-retributiva della pena. Si individuavano taluni casi in cui «nell'azione od omissione stessa, sebbene sia opera di un uomo, ed anche fuori dell'ipotesi dell'errore di fatto, poteva non concorrere la volontà», come si leggeva nella Relazione Ministeriale sul libro primo del progetto di codice penale, ed in relazione a queste si prevedevano forme di graduazione della colpevolezza dell’autore del fatto. Non a caso, nel Codice Zanardelli venne tipizzato per la prima volta l’istituto delle circostanze del reato, in relazione alle quali si riteneva occorresse applicare i principi dettati in tema di elemento soggettivo del reato dall’art. 45 c.p.i., prevedendo, diversamente da quanto avverrà nel Codice Rocco, la loro soggezione alle regole dell’imputazione soggettiva, rispettosa del principio di personalità. Naturalmente, con l’entrata in vigore della Costituzione si è assistito al progressivo superamento di una simile prospettiva moraleggiante del diritto criminale, al marcato rifiuto delle teorie general-preventive in favore del finalismo rieducativo della pena ed alla conseguente valorizzazione delle articolazioni interne al principio di colpevolezza (imputabilità e conoscenza/conoscibilità della legge penale).

164 Recitava l'art. 47 del Codice Zanardelli che «non è punibile colui che, al momento in cui ha

commesso il fatto, era in tale stato di deficienza o di morbosa alterazione di mente da togliergli la coscienza dei propri atti o la possibilità di operare altrimenti».

165 Nel 1925 il ministro Rocco presentò un disegno di legge che delegasse al governo la facoltà di

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ravvisare il fondamento dell’imputabilità penale nel coinvolgimento psichico dell’agente, si mostrava spesso incline a sacrificare il valore della colpevolezza (rectius: personalità) sull’altare dell’esigenza «della giustizia e della certezza del diritto» ed in nome di una concezione general-preventiva della pena166. Da qui la frequente compressione realizzata dalla normativa appena citata del principio di personalità nella sua espressione più diretta stante la molteplicità di ipotesi di responsabilità oggettiva inserite, e tuttora presenti, nel vigente codice penale: basti pensare alla disciplina dell’inescusabilità dell’errore su legge penale prevista dall’art. 5 c.p.167.

Senza voler ulteriormente approfondire l’evoluzione storico dottrinale del concetto di colpevolezza, non vi è dubbio che il variabile quadro normativo delineato finisce per condizionare profondamente il dibattito sulle c.o.p. Nel panorama normativo del ‘30 l’istituto condizionale presenterebbe una portata pressoché illimitata,

Relazione che accompagnava lo stesso disegno di legge: di fronte all'aumento della criminalità negli anni del dopoguerra, da ricondursi ai «...profondi rivolgimenti prodottisi nella psicologia e nella morale degli individui e della collettività, e nelle condizioni della vita economica e sociale», la legislazione penale risultava lacunosa ed inefficace. L'esperienza aveva messo in luce l’insufficienza nella lotta contro il delitto dei «... i mezzi puramente repressivi e penali e l'assoluta inidoneità delle pene a combattere i gravi e preoccupanti fenomeni della delinquenza abituale, della delinquenza minorile, degli infermi di mente pericolosi». Era necessario, dunque, predisporre, accanto a tradizionali misure di repressione, «nuovi e più adeguati mezzi di prevenzione della criminalità»: una dettagliata rassegna dei lavori preparatori del codice penale e di procedura penale si rinviene in G. VASSALLI, Codice penale, in Enciclopedia del diritto, vol. III, Milano, 1960, p. 271.

166 G. DELITALA, Le dottrine generali del reato nel progetto Rocco, in Osservazioni intorno al

"Progetto preliminare di un nuovo codice penale", Milano, 1927, p. 61 e ss. Con specifico riferimento alle condizioni di punibilità, esse hanno trovato la loro esplicita affermazione in una norma di parte generale, l’art. 44 c.p., e sono state spesso definite ‹‹correttivo dell’abolizione dell’amplissima discrezionalità che informava l’ancien regime […], avrebbero avuto la funzione di incorporare motivi tipici di opportunità di dar corso all’azione penale»: così M. ZANOTTI, op. cit., p. 551.

167 Il riferimento è alle ipotesi in cui l’evento è “altrimenti” posto a carico dell’agente, ex art. 42 c.p.

comma 3, cui risultano riconducibili il reato preterintenzionale disciplinato dall’art. 43 c.p., i reati aggravata dall'evento, le ipotesi di aberratio declicti ed aberratio ictus, previsti nella “parte generale” del codice. In tema di errore su norma penale si rammenti l’intervento della Corte Costituzionale, più volte citato.

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indefinita nella sua funzione e irrilevante quanto al criterio di imputazione, atteggiandosi a disposizione «tappa- buchi»168.

Il mutato contesto sociale e le rinnovate istanze garantistiche dell’ordinamento costituzionale rendono simili conclusioni inaccettabili e, pertanto, oggi più che mai, si manifesta la necessità di affrontare il tema delle condizioni di punibilità con il proposito di definirne l’esatta funzione, profilo solitamente trascurato a vantaggio del più evidente e dibattuto regime obiettivo, con la consapevolezza dei nuovi fini e confini del diritto penale169.

La delimitazione dell’estensione dell’art. 44 c.p. non può prescindere dalle coordinate ermeneutiche fissate in ordine alla nuova concezione della colpevolezza, alla luce della quale dovranno valutarsi l’ammissibilità e l’utilità della permanenza nel sistema della bipartizione tra condizioni obiettive di punibilità intrinseche ed estrinseche.

168 Nei suddetti termini si esprime T. DELOGU, Il reato condizionale, in Studi economico-giuridici

della Università di Cagliari, Cagliari, 1933, p. 98 ss. Nel contesto giuridico e sociale in cui i principi fondanti il diritto penale potevano facilmente derogarsi non si avvertiva alcun’esigenza di specificazione della funzione delle c.o.p., dal momento che esse potevano ben assolvere ad una funzione “essenziale” o meramente “accidentale” per via dell’ammissibilità assiologia di un regime obiettivo anche per gli elementi costitutivi del reato. Tuttavia, come sottolineato da attenta dottrina, «altra cosa è, naturalmente, l’attuale valutazione ex post, quando, a quarant’anni di distanza, è mutato il contesto sociale e politico di riferimento, e quando i principi costituzionali hanno espresso la nuova ideologia del sistema punitivo»: così F. RAMACCI, op. cit., p. 111.

169 Le difficoltà nell’individuare la funzione dell’istituto condizionale si legano alla risalente

bipartizione tra condizioni estrinseche ed intrinseche finalizzate, rispettivamente, ad attualizzare il meccanismo sanzionatorio ovvero ad approfondire il disvalore della condotta di reato contribuendo così a tracciare il disvalore della fattispecie. Per comprendere la ragion d’essere della doppia categoria probabilmente può essere utile il richiamo alla relazione di accompagnamento al codice Rocco, in cui compare l’espresso riferimento alla distinzione tra condizione di esistenza e condizione di punibilità del reato, che, oggetto di un fitto dibattito, è stata poi abbandonata perché ritenuta inutile atteso il carattere onnicomprensivo della formula della non punibilità, in cui il legislatore «ha inteso di far rientrare, fra le altre ipotesi, anche l'esclusione del reato».

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