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La tipicità nei reati condizionali: c.o.p., fatto e fattispecie

Nel documento Le condizioni obiettive di punibilità (pagine 35-44)

La fattispecie penale, al pari di ogni altra norma giuridica, si costruisce sul modello della proposizione condizionale: al verificarsi del fatto descritto della protasi (fatto tipico), consegue la produzione degli effetti previsti nell’apodosi. A differenza delle disposizioni appartenenti alle altre branche del diritto, la norma penale presenta talune peculiarità, ravvisabili anzitutto nel tipo di effetti giuridici prodotti, consistenti nella comminazione di una sanzione, la pena, per definizione in grado di incidere sulla libertà personale del reo. In effetti, nella potenziale restrizione della libertà personale si ravvisa la vera essenza dell’illecito penale (rectius: del reato). Questo carattere spiccatamente “sanzionatorio” della norma penale reca con sé l’ulteriore segno distintivo della disposizione penale, che richiede una rigorosa e chiara predeterminazione degli elementi di fattispecie ed in particolare degli

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elementi del fatto. Per il diritto penale non tutti i fatti rilevano allo stesso modo, ma solo in tanto in quanto essi rispecchino il modello legale predeterminato, il c.d. tipo criminoso, che costituendo una garanzia per il cittadino contro eventuali abusi perpetrati dallo Stato nell’esercizio della pretesa punitiva, implica la necessaria previsione di tutti gli elementi afferenti il reato, seppure con un livello di determinatezza proporzionata al diverso ruolo rivestito dagli elementi all’interno della fattispecie. L’esigenza di tassatività viene avvertita con maggiore forza in relazione alle componenti del nucleo del reato, il fatto appunto, attenuandosi in relazione alle ulteriori componenti della fattispecie che non attengono alla dimensione offensiva. Fra l’altro il riferimento talvolta al fatto, talaltra alla fattispecie non risulta casuale, dal momento che sebbene le nozioni vengano impiegate in modo sinonimico, la differenza di significato che intercorre tra le due è stato a lungo oggetto di riflessione da parte della dottrina, anche alla luce delle conseguenze discendenti dalla loro diversa natura: di regola, solo per gli elementi appartenenti al fatto si richiede la stretta osservanza del principio di personalità dell’illecito. Tale diversità di regime si giustifica per via dell’appartenenza al fatto di tutti e solo quegli elementi portatori di disvalore ed offensività. Di contro, ben più ampio può risultare il novero delle componenti della fattispecie che non appartengano anche al fatto: si può dunque concludere che se è vero che tutte le componenti del fatto appartengono alla fattispecie, non vale il reciproco55. In tal

55 Il rapporto tra fattispecie e fatto è stato oggetto di analisi da parte di eminente dottrina, che in

proposito è pervenuta a molteplici ricostruzioni. Anzitutto si è soliti distinguere tra nozione del fatto in senso ampio ed in senso stretto: mentre la prima definisce il fatto come «punto di imputazione della sanzione», la seconda presenta una molteplicità di sotto-orientamenti, alcuni dei quali di chiara influenza tedesca. Quanto alla nozione di reato in senso stretto, si distingue una nozione di tipo processuale, presto superata, secondo la quale in qualità di fatto rilevano quei fatti obiettivi con valenza probatoria, ed una qualificazione in chiave sostanziale. A quest’ultimo alveo risultano riconducibili quelle ricostruzioni del fatto di reato come complesso degli elementi descrittivi e non valutativi ovvero come l’insieme degli aspetti dell’accadimento in presenza dei quali può dirsi integrata la fattispecie: entrambe le tesi fortemente criticate e superate a favore di una sovrapposizione tra nozione di fatto di reato e tipicità, per cui il fatto si atteggia a correlativo del

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modo si potrebbe affermare che la fattispecie, in senso ampio, abbraccia il complesso degli elementi di reato tanto quelli che «concorrono a segnare il discrimine tra il lecito e l’illecito, quanto quelli che non danno espressione al disvalore tipico, ancorché incidenti sull’an della punibilità», ma con una profonda differenza: solo i primi vanno ricompresi nel nucleo duro del fatto. Quanto alla nozione di fatto, tentare di delinearne con esattezza i contorni risulta particolarmente complesso, anche alla luce delle numerose teorie che sono state elaborate a riguardo: concentrando l’attenzione sulle ricostruzioni “sostanzialiste”, si distinguono diversi orientamenti.

Ampiamente diffusa si è rivelata la tesi che lega il fatto alla tipicità, secondo la quale va ricondotto al fatto di reato il complesso di elementi che consentono la riconducibilità di una determinata condotta ad un dato paradigma astratto. Oggetto di valutazione autonoma, invece, risultano il momento dell’antigiuridicità, della colpevolezza nonché le condizioni obiettive di punibilità, che, in accordo a tale tesi, si porrebbero fuori dal fatto in senso stretto56. Malgrado la soluzione cui si giunge, tale tesi non può certamente dirsi sufficiente a dimostrare la natura “estrinseca” delle c.o.p. per via dei numerosi limiti che la connotano: fondandosi sulla distinzione tra momento descrittivo e momento valutativo, tale ricostruzione assume una connotazione politica più che giuridica e finisce per frustrare quell’esigenza individualizzante che anima la stessa nozione di tipicità. Tipizzare

tipo di reato secondo una relazione di conformità al tipo astrattamente previsto. In questi termini A. PAGLIARO, Il diritto penale tra norma e società: scritti 1956-2008, Milano, 2009, p. 224 ss. ed Autori ivi citati. L’A., tuttavia, prendendo le distanze dall’accostamento tra tipicità e fatto di reato, giunge alla conclusione che mentre «gli elementi soltanto strutturali vanno trattati nella teoria del fatto, le caratteristiche che esprimono la illiceità possono trovare la loro corretta sistemazione dogmatica solo nella teoria del reato». L’A. conclude affermando che fatto e reato rappresentano i due volti dell’illecito: il fatto rappresenta l’illecito spogliato della propina veste teleologica e dal momento che le condizioni obiettive di punibilità risultano indispensabili ai fini della produzione della conseguenza giuridica, esse rappresentano parte integrante l’illecito.

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significa valorizzare quelle peculiarità della singola fattispecie che ne permettono la differenziazione rispetto alle altre: in questa prospettiva, anche la presenza di una condizione obiettiva di punibilità potrebbe arrivare a connotare il fatto di reato, differenziandolo rispetto ad altri tipi di reato. A dimostrazione di tale assunto potrebbe invocarsi l’elaborazione del modello di reato condizionato da parte di illustre dottrina57. In accordo a tale ricostruzione, le condizioni obiettive di punibilità lungi dal rappresentare un elemento accidentale rispetto alla fattispecie, contribuirebbero a connotarne uno specifico tipo di reato, quello condizionato, e svolgendo una funzione costitutiva all’interno di essa, soggiacerebbero per ciò stesso a tutte le ordinare regole sull’accertamento del nesso causale e del criterio d’imputazione58.

A conclusioni parimenti insoddisfacenti si perverrebbe adottando altri e diversi modelli definitori del fatto, costruito talvolta in termini di antigiuridicità c.d. obiettiva, valorizzandone il contenuto di disvalore, talaltra come oggetto della colpevolezza per poi ritornare alla prospettiva strutturale, per cui il fatto va a selezionare il complesso degli elementi materiali del reato59. Qualunque nozione di fatto di reato si prenda in considerazione, l’esatta individuazione dei rapporti tra condizione obiettive di punibilità, fatto e fattispecie dipende dalla risposta che si

57 V. P. VENEZIANI, Spunti per una teoria del reato condizionato, cit. p. 10 ss. Si veda, in modo

più approfondito, sub nota 63.

58 I sostenitori del reato condizionato come autonomo tipo criminoso risolvono le difficoltà connesse

all’accertamento del nesso di causalità ricorrendo anche alla figura della causalità mediata. Come evidenziato nella trattazione, accanto alle ipotesi, in vero residuali, in cui è possibile individuare una diretta connessione tra condotta ed evento, si rinvengono casi in cui l’evento condizionale consiste nella condotta di un terzo ovvero in evento totalmente estraneo al dominio dell’agente. Nei casi appena descritti, si fa notare come la struttura del reato condizionato non risulta affatto scalfita dalla distanza tra condizione e condotta, sussistendo una causalità c.d. mediata, la stessa che connota i reati di agevolazione colposa o di omesso impedimento. In questo senso P. VENEZIANI, op. ult. cit., p. 24 ss; L. STORTONI, Agevolazione colposa e concorso di persone nel reato, Pavia, 1981; F. ALBEGGIANI, I reati di agevolazione colposa, Milano, 1984, p. 127 ss.; M. SPASARI, voce Agevolazione colposa, in Enc. dir., vol. I, Milano, 1958, p. 896 ss.

59 Sul complesso concetto di antigiuridicità obiettiva, v. T. PADOVANI, Diritto penale cit., 145 e

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fornisce all’interrogativo sulla natura delle stesse ed ancora una volta si corre il rischio di andare incontro ad apriorismi. Ammettendo che le c.o.p. risultino idonee ad incidere solo sulla punibilità e che non possano concorrere a tracciare il disvalore della fattispecie, non essendo elementi significativi, se ne potrà predicare l’appartenenza alla fattispecie ma non al fatto di reato in senso stretto, con conseguente esclusione della soggezione al principio di colpevolezza. Di contro, annoverando le stesse tra gli essentialia delicti in grado di contribuire alla misura del disvalore dell’illecito si perverrebbe alla duplice conseguenza della loro riconducibilità alla dimensione del fatto e della loro ascrizione secondo il canone della personalità. Le conclusioni risulterebbero ulteriormente differenti laddove si accedesse alla ricostruzione del reato condizionale come autonomo tipo criminoso, cui si faceva riferimento in precedenza.

La necessità di una precisa delimitazione del concetto di fatto risponde sicuramente a numerosi interessi pratici, come dimostrano i molteplici sforzi interpretativi compiuti in tal senso, ma probabilmente può essere attenuata con talune considerazioni. La corrispondenza biunivoca tra appartenenza al fatto in senso stretto ed esigenza di un coefficiente psicologico non può ritenersi valida, dal momento che, in accordo ai recenti approdi in tema di colpevolezza, la necessità dell’imputazione di un nesso psicologico si avverte per tutti quegli elementi significativi: prescindendo dalla collocazione strutturale, quindi, la soggezione al criterio della colpevolezza discende dalla partecipazione al disvalore della fattispecie. In quest’ottica si giustifica la riforma delle circostanze aggravanti, che da un regime obiettivo, sono state ricondotte nell’alveo della colpevolezza attraverso la previsione di un’imputazione solo se conosciute ovvero ignorate per

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colpa o ritenute inesistenti per errore determinato da colpa60. Non l’appartenenza al fatto, ma la relazione rispetto al disvalore finisce per dettare il regime d’imputazione di un elemento, così come non la formale qualificazione di fatto in senso stretto risulta dirimente per stabilire l’eventuale concorso tra due o più disposizioni, essendo necessario un effettivo raffronto strutturale tra le disposizioni61. Rapportando quanto detto al fenomeno condizionale, se ne ricava che, a prescindere dall’appartenenza formale al fatto, il vero punto nodale riguarda il regime di operatività, se vada conformato al principio di colpevolezza, ovvero risulti ad esso insensibile per via della ontologica estraneità delle condizioni di punibilità a qualsivoglia disvalore dell’illecito, principale ovvero secondario62. In definitiva, ogni dibattito circa l’appartenenza o meno delle condizioni di punibilità al fatto in senso stretto non può che rappresentare un posterius rispetto alla individuazione dell’esatta natura delle stesse. Torna dunque il dilemma circa la qualificazione delle c.o.p., componenti del disvalore ovvero meccanismi incidenti

60 La necessità di eliminare il criterio della imputazione oggettiva delle circostanze aggravanti per

ricondurne la disciplina all’alveo del principio di colpevolezza è stato il riflesso dell’avvenuta costituzionalizzazione del principio di colpevolezza, come dimostra, fra le altre, la sentenza n. 364 del 1988 della Corte costituzionale in tema di scusabilità dell’ignoranza della legge penale. Già prima della citata sentenza, attenta dottrina aveva evidenziato come «da un punto di vista teorico noi riteniamo che il dolo si riporti non solo al fatto delittuoso essenziale, ma anche alle circostanze aggravatrici del reato». Così G. DELITALA, Le dottrine generali del reato nel progetto Rocco, in Diritto penale. Raccolta degli scritti, I, Milano, 1976, 306; F. RAMACCI, Alcune riflessioni sulla riforma in materia di circostanze, in S. Iuris, 1993, 147 ss.; A. MELCHIONDA, Le circostanze del reato. Origine, sviluppo prospettive di una controversa categoria giuridica, Padova, 2000, p. 799.

61 L’eventuale delimitazione del fatto di reato viene in rilievo anche ai fini del concorso di norme e

reati, come si desume dalla lettura degli artt. 15 c.p. ed 81 c.p., per il rispetto del principio del ne bis in idem nonché per l’applicazione di istituti sovranazionali, quale il MAE ovvero per l’armonizzazione delle decisioni a livello comunitario, secondo il principio del divieto della doppia punibilità in concreto, vigente nell’area Schengen di libero scambio. Sul tema, più diffusamente cfr. il capitolo IV.

62 Critico nei confronti della distinzione tra disvalore principale e secondario P. VENEZIANI, Spunti

per una ricostruzione cit., p. 13. L’A. argomenta la necessità di configurare il reato condizionato come autonomo tipo di illecito sulla scorta dell’impossibilità di creare una tripartizione tra elementi costitutivi, condizioni di punibilità intrinseche e condizioni estrinseche. La differenza, chiara sulla carta, risulterebbe di difficile attuazione, per via della indistinguibilità tra il disvalore primario tipico degli essentialia delicti ed il disvalore secondario di cui sarebbero portatrici le condizioni intrinseche. Da qui si giunge ad affermare che, stante l’assimilabilità delle condizioni estrinseche alle condizioni di procedibilità, potrebbero trovar spazio all’interno del sistema solo le condizioni intrinseche che si atteggerebbero ad elementi costitutivi, non accidentali, del reato condizionato.

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sull’esercizio del magistero punitivo, in linea con la qualificazione formale dell’istituto. Nel qual caso, del resto, si porrebbe un ulteriore interrogativo, legato al rapporto tra punibilità e reato: in particolare si dibatte se prima dell’avveramento della condizione, risultando sospesa la punibilità, il reato possa dirsi integrato o meno. Due gli orientamenti che si fronteggiano, a seconda che si affermi l’indipendenza dell’illecito penale dall’irrogazione della pena ovvero che, sulla scorta del principio di correlazione tra fatto e conseguenza, si affermi la necessità della risposta sanzionatoria ai fini dell’esistenza del reato63. Numerose le

argomentazioni a sostegno dell’una e dell’altra tesi, consistenti anzitutto nella qualificazione formale del reato. Da un lato si pone chi ritiene che la previsione della pena rappresenti l’elemento caratterizzante il reato rispetto alle altre categorie

63 Il tema della punibilità è stato al centro di un fitto e risalente dibattito volto ad indagarne i rapporti

con il reato. A favore della sostanziale estraneità della punibilità rispetto al piano del reato, v. F. CARRARA, Programma di diritto criminale, Firenze, 1924, § 41, n. 2, secondo il quale «la punibilità effettiva del fatto nessuno la pone come elemento della definizione del reato»; nella stessa direzione A. ROCCO, Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, IV, Roma, 1929, p. 151 ss. L’A. da ultimo citato sosteneva l’estraneità della punibilità alla struttura del fatto sulla scorta dell’argomento per cui la punibilità costituirebbe sostanzialmente la «conseguenza giuridica» del reato e pertanto non si può «definire la causa di un fenomeno mediante il fenomeno stesso che ne costituisce l'effetto». Una rottura rispetto a tale posizione si è avuta con il pensieri di G. BATTAGLINI Diritto penale, parte generale, Bologna, 1949, p. 164. Con l’A. citato la punibilità, elevata a dignità di concetto sistematico, viene annoverata nell'ampia categoria degli elementi costitutivi del reato, inaugurando un orientamento che verrà seguito a lungo. Vedi nello stesso senso B. PETROCELLI, Principi di diritto penale: Introduzione, La norma penale, Il fatto, Napoli, 1955, p. 30, secondo il quale il reato risulta per definizione qualificato sulla scorta della particolare natura della sanzione, la pena, in grado di differenziare l’illecito penale da ogni altro. Analoghe argomentazioni vengono sostenute da F. BRICOLA, Punibilità cit., p. 591 ss: in tale opera si evidenzia come l’irrogazione della sanzione costituisca il tratto tipico del reato attesa l’inscindibilità del binomio reato – fatto punibile. A sostegno della ricostruzione quadripartita del reato, in qualità di autonomo elemento del reato, v. G. MARINUCCI - E. DOLCINI, Manuale di diritto penale, parte generale, Milano, 2012, p. 177 ss. Di recente, invece, si è assistito ad una scissione tra il momento dell’illecito da quello della punibilità, come evidenziano le posizioni di F. ANTOLISEI e M. ROMANO, di seguito illustrate. Il primo quale evidenzia come la punibilità rappresenti una conseguenza dell’illecito e, pertanto, trattandosi di un posterius essa non può fungere da elemento costitutivo del reato. Sulla stessa scia il secondo autore, il quale distingue il momento del disvalore dell’illecito rispetto a quello dell’irrogazione della sanzione, improntato a ragioni di convenienza ed opportunità. Così F. ANTOLISEI, Manuale cit., p. 753 e M. ROMANO, “Meritevolezza di pena”, “bisogno di pena” cit., p. 39 ss. Per una panoramica completa sull’evoluzione del concetto di punibilità, cfr. C. RUGGIERO, in Enc. dir., vol. XXXVII, 1988, p. 1123, nonché G. DE FRANCESCO, Punibilità cit., p. 2 ss. A ricomporre i contrasti tra le due posizioni, Ruggiero evidenzia come la punibilità rappresenta un elemento insopprimibile della disposizione normativa, che però potrebbe mancare nel solo momento applicativo senza compromettere la nozione stessa di reato.

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di illecito (civile ed amministrativo) e pertanto, la mancata attivazione del momento sanzionatorio precluderebbe la possibilità ontologica di esistenza del reato per via dell’inscindibilità del binomio fatto punibile - reato. Precisamente, dal momento che l’illecito penale risulta teleologicamente orientato all’irrogazione della sanzione, che pertanto costituisce la conseguenza giuridica fisiologica del reato, non risulterebbe pensabile scindere la dimensione del fatto illecito, come portatore di disvalore, da quello della sanzione: il concetto di reato va colto nella sua dimensione olistica di fatto illecito perché punibile. Di contro, non manca chi affermi la sostanziale autonomia del momento del disvalore, principale connotato del reato, dal semplice innesco della punibilità, che non rappresenta un elemento essenziale dell’illecito, quanto la conseguenza della lesione innestata nella fattispecie. Seguendo tale impostazione, un fatto risulta punibile in quanto integra gli estremi di reato e non viceversa, ovvero che dalla punibilità discende la particolare natura dell’illecito. A favore dell’esistenza del reato prima ed a prescindere dalla punibilità militano diversi argomenti anche di carattere testuale, tratti direttamente da talune norme del codice penale, che sembrano valorizzare l’autonomia dei concetti di reato e punibilità. In tale direzione vanno intese le disposizioni che dettano la disciplina delle cause estinzione del reato tenendole distinte dalle cause di estinzione della pena. Le citate previsioni, pur occupandosi di istituti molto distanti, sembrano incoraggiare la scindibilità del concetto di reato, come entità di (dis)valore, da quella della punibilità, che pur essendo sempre prevista a livello di enunciazione, può non essere applicata in concreto in presenza di taluni interessi particolari e predeterminati. Un meccanismo non dissimile potrebbe rinvenirsi in relazione alle cause di non punibilità in senso stretto, le quali lasciano permanere l’illecito sotto il profilo dell’antigiuridicità e della

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colpevolezza, paralizzando esclusivamente il meccanismo di irrogazione della sanzione. Del resto, indagando i più recenti approdi in tema di teoria del reato, quest’ultimo viene definito come un fatto umano che offende un bene giuridico ritenuto particolarmente significativo dalla collettività (c.d. disvalore oggettivo d’evento) adottando modalità particolarmente aggressive (c.d. disvalore oggettivo d’azione) e connotato da un atteggiamento da parte dell’autore dell’illecito di ostilità ai valori lesi (c.d. disvalore soggettivo d’azione)64.

Ricapitolando, tra fatto e fattispecie intercorre un rapporto tra concreto ed astratto dal momento che la fattispecie rappresenta il complesso del significato degli elementi giuridici della disposizione linguistica; in essa vanno distinti gli elementi che contribuiscono a tracciare la fisionomia del disvalore dell’illecito, in termini di offensività, ed elementi che intervengono sul piano concreto sul funzionamento della conseguenza sanzionatoria, la pena, senza alterare il giudizio di riprovevolezza che connota la condotta base. Per comprendere la diversità tra fattispecie e reato, invece, occorre aver riguardo alla diversità di piani in cui essi trovano collocazione: la prima attiene al piano strutturale, mentre il secondo attiene alla dimensione assiologica dell’illecito, implicando un preciso giudizio di disistima nei confronti del comportamento tenuto dal reo. Le condizioni obiettive di punibilità pur estranee al fatto, potrebbero appartenere alla fattispecie e non precludere la realizzazione del reato; invero, a voler ipotizzare la loro stretta relazione con il momento dell’irrogazione della sanzione, nella fase di pendenza, il reato potrebbe già considerarsi perfetto nelle sue componenti e dotato di disvalore, in linea con le considerazioni svolte nel precedente paragrafo e alle quali si rinvia.

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