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Condizioni di punibilità: ratio, funzione ed effett

Nel documento Le condizioni obiettive di punibilità (pagine 175-184)

CONDIZIONI DI PUNIBILITÀ ED ELEMENTI ESSENZIALI DEL REATO

5. Condizioni di punibilità: ratio, funzione ed effett

Si è più volte detto che, pur essendo già presenti nella tradizione giuridica italiana, le condizioni di punibilità sono state formalmente introdotte in una disposizione di parte generale solo nel codice Rocco, risultando particolarmente complessa l’indagine circa la loro origine nel tempo e soprattutto, la ragion d’essere della loro presenza251.

Detta operazione, volta alla piena comprensione del fenomeno condizionale nel suo complesso, ha imposto la necessità di ragionare nella duplice prospettiva diacronica - relativa all’evoluzione del fenomeno condizionale nel tempo - e sincronica - risultante dalla configurazione “attuale” di un diritto penale fondato sulla responsabilità colpevole - per giungere ad una ricostruzione in chiave attuale dell’istituto. In questo excursus “storico-giuridico” particolare attenzione hanno meritato i concetti di punibilità e di reato, inteso non più nel senso di “fatto punibile”, piuttosto come fatto antigiuridico in sé252.

251 Finora ci si è limitati ad affrontare il tema delle condizioni di punibilità semplicemente da una

prospettiva formale, relativa, cioè, all’analisi del regime d’ imputazione/attribuzione e all’eventuale nesso di derivazione causale rispetto alla condotta, tralasciando ogni riferimento alla funzione da esse svolta nel contesto dell’attuale sistema penale. Costruire un’interdipendenza tra il profilo sostanziale e quello formale consente di dare fondamento e legittimità al regime di obiettività delle condizioni all’interno del sistema giuridico attuale, giustificando l’assenza di un’imputazione in chiave soggettiva e, allo stesso tempo, permette di inquadrare la funzione “estrinseca” del fenomeno condizionale nell’ottica deflattiva perseguita dal legislatore contemporaneo. La tesi qui sostenuta, definita come “conclusione necessitata”, vede nelle condizioni di punibilità uno strumento di bilanciamento tra assetti diversi d’interesse, veicolo per la rilevanza di “sopravvenienze” della realtà esterna al reato.

252 Nel precedente capitolo, si è cercato di dare una definizione della punibilità: originariamente

concepito come diritto soggettivo all’obbedienza, di titolarità dello Stato nei rapporti con i cittadini, lo ius puniendi ha assunto poi contorni meno netti, degradando a semplice potestà per poi – conformemente a quanto evidenziato nella sentenza storica della Corte Costituzionale sulla scusabilità dell’errore inevitabile – essere ricondotta ad un rapporto di tendenziale reciprocità di obblighi tra cittadini e Stato. Come si legge nella sentenza da ultimo menzionata, «a fronte

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Buona parte della dottrina fa coincidere la nascita del fenomeno condizionale con l’affermazione dei principi di legalità e obbligatorietà dell’azione penale, di matrice squisitamente illuminista, attribuendovi il precipuo scopo di arginare l’arbitrio e la discrezionalità del p.m. all’atto di decidere l’eventuale rinvio a giudizio dell’imputato253. Si badi che il tema dell’evoluzione storica dell’istituto in esame

non può ritenersi semplice curiosità dottrinale dal momento che presenta rilevanti ripercussioni sul profilo funzionale delle stesse. Ed effettivamente, leggere le condizioni di punibilità come ipotesi espressamente tipizzate dei motivi di convenienza sulla base dei quali la pubblica accusa s’indurrebbe ad attivare la macchina processuale condurrebbe ad attribuire alle stesse la funzione di “sterilizzare” da ogni discrezionalità il processo penale254.

dell’obbligo statale di introdurre fattispecie non numerose, eccessive rispetto ai fini di tutela, chiaramente formulate, dirette alla tutela di valori almeno di rilievo Costituzionale […] effettivamente vigenti nell’ambiente sociale nel quale le norme penali sono destinate ad operare (c.d. principio di riconoscibilità)» si contrappone l’obbligo dei cittadini di adempiere a strumentali, specifici doveri di diligenza; ciò, dunque, vale a riequilibrare i rapporti tra Stato e cittadini, alla luce della funzione rieducativa della pena (art. 27 Cost. comma terzo). Sul punto si veda quanto scritto da H. KELSEN, Reine Rechtslehre. Einleitung in die rechtswissenschaftliche Problematik, Wien, 1934; trad. it. Lineamenti di dottrina pura del diritto, a cura di R. Treves, Torino, 1967, p. 189.

253 Osserva a proposito G. NEPPI- MODONA, op. cit., p. 1 «l’origine storica e la funzione che le

condizioni obiettive di punibilità svolgono nella struttura del reato va appunto ricercata in questo apparentemente contrastante punto di incontro tra le esigenze di opportunità politica e di buon senso che hanno sempre condizionato e continueranno sempre a condizionare la punizione di determinati illeciti e di postulati garantistici che si sono sviluppati in tutta la loro ampiezza». Per una trattazione più recente del problema, sempre in termini di rapporti con l’obbligatorietà dell’azione penale, cfr. V. ZAGREBELSKY, Obbligatorietà dell’azione penale e ruolo del pubblico ministero, in Pubblico ministero e accusa penale, Bologna, 1979, p. 7. Nella suddetta opera l’A. pone in evidenza che «è frequentissima l’impressione che certi procedimenti, con tutto il loro impegno di mezzi e di persone, con il conseguente non lieve costo per la comunità e per gli individui, vengano portati avanti esclusivamente perché l’azione penale è obbligatoria ed il giudice non può rifiutare di verificarne la fondatezza; l’irrilevanza del fatto, gli avvenimenti successivi ad esso o altre considerazioni rendono spesso persino imbarazzante per i giudici e il pubblico ministero l’adempimento del loro dovere».

254 Critico riguardo tale ricostruzione è M. ZANOTTI, op. cit., p. 551; quest’ultimo riconosce il

carattere suggestivo della tesi sopra esposta, ma ne rigetta il contenuto argomentando che la fondazione scientifica della categoria condizionale, priva di tradizione giuridica e di conio dottrinale recente, avviene molto tempo dopo l’avvento delle grandi codificazioni penali post-napoleoniche e del principio di obbligatorietà. Con tale riflessione, l’A. citato, si pone come continuatore dell’orientamento mostrato precedentemente da F. ANGIONI a parere del quale la grande distanza cronologica tra avvento del principio di obbligatorietà e riconoscimento giuridico della figura delle condizioni toglie forza all’ipotesi intellettualistica del nesso di causa effetto tra l’una e l’altra. Contra, F. BRICOLA, per il quale «fino alla Rivoluzione francese e alla proclamazione dell’obbligatorietà dell’azione penale e al grande moto di codificazione che ne seguì, scarso [era] l’interesse per quel tipo di condizione»: così F. BRICOLA, op. cit., p. 601.

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A seguire una simile tesi, ne conseguirebbe un inquadramento delle condizioni di punibilità di una natura prevalentemente processuale, desumibile dal mero riferimento alle regole processuali del rinvio a giudizio ed esercizio dell’azione penale, obliterandone la dimensione sostanziale e trascurando la problematica dell’esistenza o meno del reato in pendenza di condizione, tema che invece costituisce il punto d’avvio della presente trattazione.

Tuttavia, non possono tacersi le perplessità destate da questa ricostruzione anzitutto per via dei suoi profili di contraddizione rispetto al funzionamento del sistema processuale previsto dal legislatore del primo codice di procedura penale, in cui era presente un filtro processuale, quale l’archiviazione, che, nel sistema previgente, sanciva l’interruzione del procedimento penale solo in caso di notizie manifestamente false. Inoltre, anche sotto il profilo storico, risulta particolarmente convincente la tesi dell’anteriorità delle condizioni di punibilità rispetto al principio di obbligatorietà dell’azione penale255.

Di contro, aderendo ad una ricostruzione sostanziale dell’istituto, che in luogo della connessione con l’obbligatorietà dell’azione penale valorizzi la relazione delle condizioni di punibilità con la pena e la sua funzione, si perverrebbe ad esiti differenti256.

255 La connessione dell’istituto condizionale all’obbligatorietà dell’azione penale appare poco

convincente per due motivi: anzitutto risulterebbe pressoché contraddittorio con una tendenza del legislatore a prevedere un filtro processuale, quale la precedente archiviazione, che sanciva l’interruzione del procedimento penale solo in caso di notizie manifestamente false. E ciò è profondamente diverso dal modello di archiviazione attualmente previsto nel nostro ordinamento in cui si dispone l’archiviazione già in caso di insostenibilità dell’accusa in giudizio (art. 125 disp. Att. e art. 405 c.p.p.). Per certi aspetti, interessanti sono anche i rilievi avanzati da M. ZANOTTI, op. cit., p. 551. L’A. pone l’attenzione sul dato storico dell’anteriorità delle c.o.p. rispetto al principio di obbligatorietà dell’azione penale e, inoltre, mette in evidenza che anche in quegli ordinamenti fondati sulla discrezionalità dell’iniziativa processuale è possibile ravvisare forme analoghe a quelle processuali. Ulteriori approfondimenti sul tema si sono svolte nel precedente paragraf dedicato allo specifico rapporto tra condizioni di procedibilità e punibilità. Ed in effetti, a scoraggiare una lettura “processuale” dell’istituto in esame concorre l’elaborazione delle condizioni c.d. intrinseche che, di certo, non possono definirsi attinenti il momento puramente procedimentale.

256 «Si cominciò da quello che più duramente per secoli aveva schiacciato il diritto umano, cioè

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Non può sicuramente sfuggire che, l’illuminismo giuridico, pur rappresentando un’età rivoluzionaria dal punto di vista delle garanzie giuridiche, era ancora incentrato su una configurazione non matura della punibilità: quest’ultima, espressione del magistero punitivo dello Stato, integrava un autentico diritto soggettivo rispetto ai consociati, destinatari passivi del precetto e vincolati all’obbligo dell’obbedienza. Dalla centralità della risposta sanzionatoria discendeva che l’essenza stessa del reato s’individuava nella pena, a cui non ci si poteva sottrarre e a cui lo Stato non poteva abdicare. La previsione di reati non punibili o punibili con una sanzione diversa da quella astrattamente prevista costituisce un inaccettabile ritorno a gli odiati privilegi di quell’Ancient regime che la rivoluzione aveva tentato di scardinare. A seguito del diffondersi delle teorie contrattualistiche, il cittadino rinunciava alla sua innata libertà a favore dell’ordinamento, ma, in compenso quest’ultimo era chiamato a garantire sicurezza e tranquillità vigilando sui trasgressori assicurandone la punizione257. In tale contesto iniziava a farsi strada

questo attacco la guerra al passato perché legislatori e giudici e poteri sociali costituiti appunto per conservare intatta l’autorità loro, avevano accresciuto ed inasprito sempre più la persecuzione del libero pensiero avviato come il nemico, ed avevano immolato le più eminenti intelligenze, ribelli dell’autorità civile, o all’autorità ecclesiastica, o ad entrambe, invocando il nome di Dio e della giustizia sociale», così E. PESSINA, Il diritto penale in Italia da Beccaria sino alla promulgazione del codice penale vigente (1764 – 1890), in Enciclopedia del diritto penale italiano, vol. II, (E. Noseda a cura), Milano, 1906, p. 542.

257 Il riferimento è senz’altro da intendersi nei confronti di J. J. ROUSSEAU, Il contratto sociale,

traduzione di Valentino Gerratana, Roma, 1945, p. 1 ss. Si legge nel testo «ma l’ordine sociale è un diritto sacro, fondamento di tutti gli altri. Tuttavia questo diritto non è fondato nella natura; è dunque fondato su convenzioni. […]. Trovare una forma d’associazione che difenda e protegga con tutta la forza comune la persona e i beni di ciascun associato, e per la quale ciascuno, unendosi a tutti, tuttavia non obbedisca che a se stesso, rimanendo così libero come prima. Questo è il problema fondamentale di cui il contratto sociale offre la soluzione». Più maturo si rivela il pensiero di C. BECCARIA, Dei delitti e delle pene, (Franco Venturi a cura di), Milano, 2008, p. 12. Collocandosi tra i massimi esponenti dell’Illuminismo giuridico, Beccaria pose la pena al centro delle sue riflessioni rinvenendo il fondamento della stessa nella necessità di difendere il deposito della salute pubblica dalle usurpazioni particolari ed affermando che «tanto più giuste sono le pene, quanto più sacra ed inviolabile è la sicurezza, e maggiore la libertà che il sovrano conserva ai sudditi». Particolarmente significativa è la posizione espressa dall’A. sul tema della “dosimetria” della pena, in modo che risulti proporzionata all’illecito commesso «vi volevano dei motivi sensibili che bastassero a distogliere il dispotico animo di ciascun uomo dal risommergere nell’antico caos le leggi della società […] questi motivi sensibili sono proprio le pene stabilite contro agl’infrattori delle leggi».

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un inquadramento in chiave general-preventiva della sanzione penale, che svolgeva il ruolo precipuo di deterrente psicologico, sostanziandosi nel fine di impedire alla generalità dei consociati la commissione dei reati, o di ridurne il numero258.

Va comunque evidenziato che tutte le riflessioni elaborate attorno la sanzione penale, siano esse assolute che relative, hanno come comun denominatore proprio l’esigenza di predisporre meccanismi di adattamento al caso concreto. Da qui l’affermazione che quanto la pena si mostra più pronta e vicina al delitto commesso, ella sarà tanto più giusta e più utile con la conseguente elaborazione del principio di proporzione della pena, destinato a diventare un autentico capo-saldo dell’intero sistema penale futuro, funzionale a perseguimento del finalismo rieducativo sancito dal terzo comma dell’art. 27 Cost 259. Quest’ultima rappresenta l’approdo di un

lungo cammino dottrinale, le cui tappe fondamentali possono individuarsi nella teoria della retribuzione e nella successiva prevenzione speciale, passando per la prevenzione generale di cui si è già accennato. Se la concezione retributiva si fonda sulla convinzione della necessità della pena per ripristinare l’ordine violato dalla condotta del singolo e pertanto il reato è ontologicamente il fatto che merita la pena, quest’ultima, in accordo alla teoria della prevenzione speciale, non può essere

258 A testimonianza della finalità general-preventiva della pena è possibile richiamare i decreti

dell’8-9 ottobre 1789 e del 16-29 settembre 1791, che introdussero come obbligatoria la pubblicità delle udienze, volte a fungere da cassa di risonanza della giustizia praticata all’interno dei tribunali rivoluzionari. In tal senso, F. FURET, Critica della Rivoluzione francese, Bari, 2004, p. 62. All’interno dell’orientamento general-preventivo, in particolare, si distinguono due sviluppi: quello della prevenzione generale negativa e positiva. Quanto al primo, viene in rilievo la paura della pena che viene minacciata dalla previsione normativa dell’illecito funge da deterrente per i consociati dalla commissione dei reati. Inoltre, positivamente, la previsione sanzionatoria mira ad instillare nei cittadini la consapevolezza e la necessità di una disapprovazione delle condotte incriminate, che dunque diventano moralmente riprovevoli.

259 Così C. BECCARIA, op. cit., p. 204; l’A. nel descrivere il fine del diritto penale afferma che «è

meglio prevenire i delitti che punirgli; questo è il fine principale di ogni buona legislazione, che è l’arte di condurre alla massima felicità o al minimo dell’infelicità possibile».

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soltanto una mera retribuzione, atteggiandosi a strumento giuridico di neutralizzazione del singolo delinquente260.

Evidenti i limiti comuni alle suesposte teorie, che non riuscivano a guardare alla conseguenza sanzionatoria in modo unitario, congiungendo i tre momenti del ciclo della pena, rispettivamente della comminatoria legale, della commisurazione e dell’esecuzione; e soprattutto irriducibile si rivelava la saldatura della pena al precetto, per cui il primo esiste in tanto in quanto si è in presenza di un fatto punibile261.

La rassegna delle diverse teorie sulla funzione della pena ha evidenziato come, malgrado le tante diversità contenutistiche, sussisteva una ricorrente attenzione al principio di proporzione che lega la risposta sanzionatoria all’esigenza di aderenza alla realtà d’interessi sottesa all’incriminazione262. In effetti, una simile ottica si

260 La teoria della retribuzione si fonda essenzialmente sull’idea, ben espressa dal brocardo latino,

del malum actionis propter malum passionis, cioè di una pena che deve servire a compensare la colpa per il male commesso, facendo leva sulla valorizzazione del libero arbitrio presente in ciascun individuo. Come sostenuto da illustre dottrina, il fine della pena non è quello né che la giustizia sia fatta, né che l’offesa sia vendicata; né che sia risarcito il danno da lui patito; né che si atterriscano i cittadini; né che il delinquente espii il suo reato, né che si ottenga la sua emenda. Il fine primario della pena è il ristabilimento dell’ordine esterno nella Società. In tal senso, F. CARRARA, Programma del corso di diritto criminale. Parte generale, Lucca, 1871, pp. 614-615. Secondo la teoria della prevenzione speciale, invece, la pena, rivolgendosi al singolo autore del reato, è chiamata a svolgere molteplici funzioni: dall’intimidazione – e minaccia legale – alla neutralizzazione del reo – garantendo che i delinquenti vengano messi nella condizione di non nuocere. Essa riposa «su un’idea molto bella e nobile […], secondo cui si deve respingere ogni concezione che porta a giustificare la pena inumana, la pena fonte di barbarie ed ingiustizie […] l’aspetto attraente della teoria dell’emenda consiste nel fatto che essa porta al limite estremo l’ida cardine propria delle concezioni penali relative […] secondo cui la pena deve tendere ad un bene futuro»: così M. CATTANEO, Pena, diritto e dignità umana. Saggio sulla filosofia del diritto penale, Torino, 1998, p 56.

261 Particolarmente accreditata era la teoria, di matrice tedesca, in base alla quale il precetto (norma

primaria) atterrebbe ad un ramo particolare del diritto pubblico, mentre il diritto penale si comporrebbe solo di precetti secondari – le sanzioni – e si occuperebbe, quindi, delle sole conseguenze giuridiche dei comportamenti vietati o comandati dalle norme ha avvio quel processo che sancisce l’indissolubilità del reato alla pena, per cui il primo esiste in tanto in quanto si è in presenza di un fatto punibile. Cfr. K. BINDING, Die Normen und ihre Ubertretung, Engelmann, 1916. Figlio di questa concezione sarebbe stato anche il Codice Rocco, in cui la sanzione ha funzione qualificante il sistema stesso e la gravità del reato viene desunta dalla pena edittale.

262 L’idea di graduazione della pena era già diffusa nella dottrina di fine ottocento, che prevedeva

«cause di modificare il castigo che derivano puramente dalle condizioni e dal fine della pena. Cosicché questa teoria presuppone che possa rimanere nel caso speciale inalterata la quantità del delitto e niente degradata la sua individualità [intensità del dolo o grado della colpa], e debba ciò non ostante alterarsi la misura ordinaria del male destinato per regola a quella specie. Presuppone o

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ritrova e viene rafforzata dall’entrata in vigore della Carta costituzionale del ’48, in cui, accanto ai principi fondamentali, ormai ampiamente consolidati nel nostro ordinamento, si rinvengono puntuali disposizioni che attengono alla pena ed al finalismo “rieducativo”, da mettersi in relazione ad una mutata concezione del reato, che testimonia l’avvio di un nuovo modo d’intendere la punibilità, alla luce di un corso diverso di rapporti tra Stato e cittadino.

All’interno di questo “rinnovato” contesto del diritto penale si rende, dunque, opportuna una lettura delle condizioni di punibilità per verificarne l’effettiva portata e la funzione ad esse attribuibile.

Partendo dall’attuale formulazione dell’art. 27 Cost. comma terzo, essa consacra il finalismo rieducativo della pena che, coinvolgendo le diverse fasi del “ciclo della pena” (dalla comminatoria all’esecuzione) si sostanzia in una riacquisizione della consapevolezza del disvalore dell’illecito compiuto dal condannato, richiedendo, anzitutto, un costante dialogo tra lo Stato e il cittadino in termini di “reciproci obblighi informativi” riguardo la portata dei precetti penali263.

almeno lo ammette, che il fatto criminoso esaurisca in sé tutti i momenti morali e fisici per meritare la pena ordinaria; ma pure sorgano cause che impongano di modificare la pena ordinaria benché non siano modificati i caratteri della delinquenza né materiali, né psicologici»; in questi termini si esprime F. CARRARA, Programma, cit., vol. VIII, §700. Nella letteratura moderna, tale espressione è ampiamente utilizzata da M. DONINI, Le tecniche di degradazione tra sussidiarietà e non punibilità, in Alla ricerca di un disegno, Padova, 2003, p. 397. Viene così sempre maggiormente consolidandosi la configurazione della c.d. “negozialità” del diritto penale.

263 L’art. 27 comma terzo recita che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. Si è

già messo in evidenza l’importanza, specie in seguito alla pronuncia della Corte Costituzionale sulla scusabilità dell’errore, del suddetto comma quale compiuta espressione del grado più elevato del principio di personalità della responsabilità penale, costituito appunto dalla colpevolezza. In tale sentenza, la Corte afferma «la necessaria rimproverabilità della personale violazione normativa›› e ‹‹l’illegittimità costituzionale della punizione di fatti che non risultino espressione di consapevole, rimproverabile contrasto con i valori della convivenza, espressi nella norma penale»; in tal modo si prendono le distanze dalla funzione di prevenzione generale in chiave di pura deterrenza, che peraltro non può considerarsi legittimante utilizzabile per ascrivere una responsabilità penale, posto che ciò determinerebbe una strumentalizzazione della persona umana per contingenti motivi di politica criminale, contrastante con il principio personalistico affermato nell’art. 2 Cost. Così Corte Cost., sentenza del 24 luglio 2007, n. 322, in Dir. proc. pen., 2007, p. 1461, con commento di L. RISICATO, L’errore sull’età tra error facti ed error iuris; una decisione timida o storica della Corte Costituzionale?, ivi, p. 33. La Corte Costituzionale in varie pronunce ha tentato di dare una definizione unitaria della “rieducazione”, offrendone diverse letture: da reinserimento nell’ordine sociale (Corte Cost., sent. 1972, n. 168) a riadattamento alla vita sociale (1974, n. 204) sino a

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Dal momento che una condotta, per definirsi colpevole, dovrà essere compiuta

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