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Dal consenso all’alleanza

Il servizio sanitario assume, fa le altre, precise responsabilità etiche e morali dal momento di presa in carico del cittadino, fino al sostegno alla sua famiglia durante l’eventuale trattamento e lungo tutto il decorso della malattia. La prestazione deve essere accompagnata da un’adeguata attività di relazioni, dalla predisposizione all’ascolto, dalla realizzazione di materiale informativo, dall’assistenza globale basata su una versione

olistica della persona.

Si sta affermando l’idea secondo la quale l’assistenza sanitaria è un’attività che deve iscriversi nell’esperienza di malattia e vi deve far fronte. Basti pensare alla medicina palliativa, l’OMS nel 1990, definiva le cure palliative come “l’assistenza globale attiva ai

pazienti affetti da malattia non guaribile. L’obiettivo fondamentale è il controllo del dolore, dei sintomi e dei problemi psicologici, spirituali e sociali”. La nuova concezione di

assistenza sanitaria si estende pertanto dalla prevenzione alle cure palliative. La qualità della vita è un concetto del tutto soggettivo, quindi il vero protagonista deve sempre essere il malato, o comunque il titolare del bene salute; la sua volontà deve essere rispettata più di chiunque altro, familiari compresi. Ci sono persone che preferiscono vivere senza sapere tutto, si parla ad esempio di etica di un right not to know, di un diritto a non conoscere dati sanitari personali, perché una persona potrebbe ritenere che per vivere la sua vita non solo non è importante, ma additirittura disturbante, in certi casi, gestire certe conoscenze. Ogni persona ha dunque un modo peculiare di comporre le proprie intenzioni di vivere, di sapere e di curarsi; in ciascun essere umano esiste una combinazione di questi tre elementi e le modalità in cui si compongono costituisce lo stile di quel determinato soggetto. Poiché l’esperienza della malattia di un determinato paziente è unica, miglior cura è quella di prestare attenzione alle motivazioni, ai valori ai desideri della persona, ai suoi pensieri ai suoi sentimenti, alle sue emozioni e al modo in cui vive la sua malattia. Conoscere che tipo di persona è il paziente affetto da una determinata malattia, è altrettanto importante conoscere la malattia stessa.

A differenza di quello che si pensava una volta, vale a dire che il buon clinico è un buon clinico solo se è un buon tecnico, oggi si sa molto chiaramente che un clinico non è un buon clinico se non sa introdursi nel mondo psicologico e morale del suo malato, per siglare con lui quell’alleanza a partire dalla quale è possibile compiere una vera scelta clinica. Questo invece è quanto al momento attuale viene richiesto a chi esercita la

professione sanitaria: non si deve occupare solo di provette, libri, carte, ma di passioni, attese, frustrazioni, dolori, speranze ed anche gioie, emozioni. Gli operatori spesso non hanno molte risorse per fornire al paziente le risposte di senso per la sua vita, esse vanno maturate soprattutto dal malato, ed anche grazie al clinico, mediante la capacità che possiede di consentirgli di approfondire le sue domande, di aiutarlo a trovare le ragioni. Il malato ha interesse e diritto a trovare dall’altra parte non solo un tecnico, ma soprattutto un buon clinico, capace di aiutare a vedere con maggiore chiarezza e con minore disorientamento i pro e i contro anche valoriali, morali delle scelte che si operano.

Curarsi non è necessariamente per la persona la cosa più importante: l’ingresso nell’angoscioso territorio della malattia può avvenire solo attraverso un alleato e nessun contratto può essere siglato se non a partire da un’alleanza, da un patto. Le persone hanno bisogno di fidarsi degli operatori sanitari, quindi o c’è uno scambio reciproco di promesse che dura fra gli alleati nel corso del loro incontro; ma se non c’è uno scambio di promesse relativo alla fiducia, all’impegno del professionista, alla sua dedizione, alla sua capacità di aggiornarsi, per quale ragione il cittadino dovrebbe avere fiducia? Perché dovrebbe firmare il consenso al trattamento? Per il tipo di relazione instaurata la disparità è tale che il paziente ha sempre ragione di temere: il tecnico non rispetta il profano non solo sotto- informandolo ma anche sovra-informandolo. Quando un sanitario che si comporta solo da tecnico vuole disorientare qualcuno, lo inonda di informazioni. L’alleanza sta al contratto, al “consenso informato” come la comunicazione sta all’informazione, la comunicazione è molto di più dell’informazione, perché esige una relazione.

L’informazione può essere fornita attraverso un foglio in modo impersonale, nosograficamente chiaro, oggettivo, ripetitivo, può essere fotocopiata: la comunicazione al contrario non può essere ripetuta allo stesso modo, comunicare vuol dire parlare a “altri” livelli rispetto a quelli semplicemente cognitivi. Nella comunicazione si può dare un’informazione giusta con lo sguardo spaventato, mentre la medesima informazione si può fornire con uno sguardo sereno; il risultato è opposto, e la persona che abbiamo davanti – per la quale generalmente conta molto di più la comunicazione che l’informazione nosografica fredda – avrà ragione di trarre conseguenze diverse.

La comunicazione è qualcosa che usa linguaggi simbolici, invece l’informazione può usare linguaggi oggettivi, impersonali, squisitamente medici. D’altra parte questo non significa affatto svalutare il contratto terapeutico ed il consenso informato, come si sta cercando di fare oggi: è una grande sfida, importante, purtroppo segnata da molte contraddizioni, anche se questo non vuol dire ancora sminuire l’elemento contrattuale, di consenso, di

informazione, perché proprio siglando un contratto si dà prova del tipo di alleanza che si stringe. Il momento della sigla del contratto è quello in cui l’alleanza ha modo di manifestarsi, di confermarsi. Il consenso rappresenta il requisito indispensabile di ogni attività sanitaria e l’esercizio della medicina deve essere improntato soltanto a presupposti che considerino costantemente la necessità di un bilancio positivo fra i possibili rischi e i benefici attesi, fra i costi (anche in termini di sofferenza) e i risultati, il tutto con una attiva partecipazione del paziente che deve essere edotto anche dalle possibili alternative diagnostiche e terapeutiche e delle conseguenze in caso di omissione del trattamento. Il paziente deve essere messo in grado di compiere una scelta consapevole e di decidere liberamente, anche se la sua scelta cadrà sull’opzione non ritenuta “quella migliore” dall’operatore; potrebbero infatti esserci motivazioni che il clinico non conosce e che influiscono invece sulle decisioni del paziente.