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Responsabilità dell’operatore sanitario e della struttura

Fra i cittadini si è diffusa la cultura del diritto alla tutela della salute, a nella mentalità e nelle aspettative delle persone comuni la salute finisce con l’essere vissuta come un diritto in sé, e si creano spesso una serie di equivoci, di rivendicazioni, di attese che in qualche modo aumentano il contenzioso medico legale.

Il problema si pone da parte del SSN - ed è quindi trasferito poi ai singoli Enti, ASL – nei termini di un’assunzione di obbligazioni che, in materia di salute e di medicina è, come è noto, un’obbligazione di mezzi e non, salvo casi particolari, di risultati, nel senso che a livello della figura individuale del professionista vige l’obbligo di mettere a disposizione tutto quanto la scienza e la tecnica li consentono, ma non è possibile garantire la guarigione dove ci sono in atto delle necessità di tipo diagnostico-terapeutico, dato che la materia biologica è estremamente complessa e, nonostante talora si impieghi il massimo della perizia, della diligenza e della prudenza e si osservino tutte le leggi, i regolamenti, gli

sperata. Al fine di ridurre la variabilità soggettiva delle scelte diagnostico-terapeutiche si cerca di far ricorso alla standardizzazione dei processi, all’adozione delle condotte appropriate basate sull’evidenze scientifiche.

Il valore giuridico delle linee-guida e dei protocolli è fondamentale e demarca il minimo esigibile: in definitiva essi rappresentano la summa di esperienze, la soglia al di sotto della quale non è consentito andare. Dal punto di vista della responsabilità non seguire linee- guida e protocolli significa assumere una sorta di responsabilità oggettiva (contrapposta alla responsabilità soggettiva che è quella del bene agire personale) e si realizza, anche da parte della struttura, un’adempienza contrattuale per mancato impegni di mezzi e per mancata adesione di protocolli. Sul piano dell’iniziativa personale, quindi l’operatore sanitario può individualmente agire con perizia, prudenza e diligenza, ma è vincolato anche dall’esistenza di linee-guida e di protocolli che rappresentano un bagaglio consolidato ed indiscusso di scelte possibili.

Il sistema genera nei cittadini aspettative che, seppure talvolta doverose, finiscono con il caricare l’ASL di responsabilità contrattuali circa l’impegno preso con il cittadino, indipendentemente dal fatto che l’attività sanitaria sia stata ben espletata o mal condotta. Quindi la responsabilità contrattuale finisce con il misurarsi sul raggiungimento dell’obiettivo, mentre la responsabilità personale si valuta sulla qualificazione delle condotte. La presenza di protocolli e di linee-guida dovrebbe quindi aiutare ad alleggerire gli oneri personali dell’operatore; in realtà il problema non è così semplice perché poi si possono innestare – sempre dato per scontato il comportamento personale dell’operatore improntato a prudenza, diligenza e perizia, secondo la miglior scienza ed esperienza del momento storico – scollamenti organizzativi e/o strutturali dovuti a motivi vari che possono comportare un risultato diverso da quello atteso.

Oggi la giurisprudenza prevalente estende all’attività sanitaria delle strutture pubbliche il concetto di responsabilità contrattuale, che si prescrive in dieci anni, vale a dire che il cittadino che si ritiene danneggiato da un’attività sanitaria ha tempo dieci anni non dalla prestazione, ma dal momento in cui è venuto a conoscenza del fatto che quella determinata prestazione sanitaria poteva avergli recato un danno. Ciò significa che per conoscere esattamente quante denunce ricadono in un determinato anno bisognerebbe attendere degli anni e solo dopo, con i dati alla mano, si riuscirebbe a sapere quanti casi si avrebbero di responsabilità professionale sanitaria.

Ne discendono enormi criticità a tutti i livelli, con un impennata nel costo dei risarcimenti. Anche il valore economico del cosiddetto danno biologico ha avuto un incremento dagli

inizi degli anni ’80 ad oggi. È abbastanza noto che per tale motivo le compagnie di assicurazione che non ritengono più remunerativa l’assicurazione delle aziende sanitarie ma la considerano un enorme perdita, si ritirino dal mercato.

Oggi, è esperienza di tutte le regioni italiane e di molti paesi stranieri, vi sono aziende sanitarie che non trovano compagnie disposte ad assicurarle o, se le trovano, le condizioni sono completamente diverse rispetto a un tempo e i costi quasi insopportabili.

Altri punti dolenti per le Aziende Sanitarie e per i singoli sanitari riguardano il modello tipo di assicurazione: i nuovi contratti già proposti o che verranno proposti ai prossimi rinnovi prevedono almeno tre variazioni significative rispetto al passato:

1. enorme aumento del premio da pagare che incide sul bilancio;

2. i nuovi contratti sono stipulati con la clausola che si definisce claims made, il che vuol dire che, nel momento in cui cessa il rapporto assicurativo fra la compagnia assicuratrice e l’azienda sanitaria viene sospeso di fatto ogni tipo di rapporto, per cui anche i sinistri che gravano sugli anni di copertura assicurativa non verranno più presi in carico dalla Compagnia se denunciati dopo l’interruzione del rapporto assicurativo;

3. la nuova normativa sul pubblico impiego prevede che l’amministrazione possa rivalersi sul dipendente nel caso in cui l’errore sia stato commesso per dolo o colpa grave.

Inoltre, per una serie di fenomeni che si sono sviluppati attorno all’errore professionale sanitario, si è maturato un concetto fino a poco tempo fa assolutamente estraneo alla giurisprudenza italiana, tipico invece di quella americana: il cosiddetto “risarcimento punitivo”, come se il danno da trattamento sanitario fosse una tipologia di danno particolarmente abbietto, nel senso che le soluzioni giuridiche del genere di quelle adottate nei casi di responsabilità professionale sanitaria difficilmente vengono applicate ad altre fattispecie.

Il problema attuale è capire perché si sta verificando tutto questo. Banalmente si sarebbe portati ad affermare che “la casistica in tema di responsabilità professionale medica aumenta perché peggiora la qualità della sanità” e questo non è solo non vero, neppure a livello statistico, perché il fenomeno della responsabilità professionale medica si è verificato più precocemente e con maggiore intensità proprio in quelle città dove lo standard medio di assistenza sanitario è elevato, quindi certamente l’aumento dei casi non può essere dovuto a tale motivo, anzi l’assistenza sanitaria indubbiamente è migliorata nell’arco degli ultimi decenni.

Il cittadino è cambiato rispetto a un tempo, sicuramente è più consapevole dei suoi diritti, soprattutto in tema di salute. Vi è anche un fatto etico però. Oggi il cittadino ha certamente – rispetto all’italiano medio di dieci/vent’anni fa – un minor grado di accettazione della malattia e/o dell’invalidità come evento naturalistico, è sempre più portato a trovare le cause al di fuori di se stesso. Attualmente, e in questo certamente la stampa ha fornito un notevole contributo, il cittadino è convinto dell’onnipotenza della medicina.

Altro elemento importante riguarda l’enfatizzazione dei risultati connessi all’attività sanitaria, tanto da ingenerare enormi aspettative nei cittadini. Questo vale, per esempio, per le tecniche chirurgiche mininvasive e per tutta una serie di procedure terapeutiche sicuramente più vantaggiose, anche per il paziente, rispetto a quelle tradizionali, ma che comunque sono gravate come altre da effetti collaterali, da complicanze e da possibili danni peggiorativi: in simili casi enfatizzare eccessivamente i benefici e nascondere o anche minimizzare eccessivamente i possibili rischi espone poi, nel caso non si raggiunga il risultato sperato, ad un’azione risarcitoria da parte del paziente.

È rilevante anche il mutamento del modo di intendere giuridico del concetto di colpa negli ultimi anni: in sede giudiziaria, per raggiungere una maggiore tutela del cittadino, si è operata una modifica dell’orientamento e ciò ha comportato una maggiore severità nel valutare il comportamento dei medici. Le due cose non sono separate, bensì in stretta connessione fra loro, perché il nostro orientamento giuridico, non prevede la risarcibilità di un danno se alla base non c’è una colpa: allora, per estendere il più possibile il numero di casi risarcibili, bisogna necessariamente esasperare il concetto di colpa.

La Cassazione Civile ha più volte affermato che, fatto salvo il caso in cui non si tratti di una prestazione di speciale difficoltà, qualora si verifichi un evento avverso per il paziente – quello che si definisce complicanza o una condizione peggiorativa a seguito di un trattamento sanitario, il paziente deve solo dimostrare il nesso causale fra il danno e la prestazione sanitaria e non la colpa dell’operatore, colpa che diventa presunta fino a che il convenuto non è in grado di dimostrare che ha fatto tutto quanto il possibile per evitare il verificarsi dell’evento. Questo nella consapevolezza che nella pratica clinica è frequente registrare una serie di complicanze, mediche o chirurgiche, di cui non è possibile conoscere la vera causa. Operando in una simile logica il cittadino viene tutelato, ma ovviamente il concetto di colpa sarà affermato, ancorché in via presunta, nella consapevolezza che un certo numero di volte in realtà la colpa non sussiste, in quanto si è trattato di una complicanza accidentale, imprevedibile ed inevitabile.

Altro fenomeno in aumento è il ricorso in ambito penale nei confronti degli operatori sanitari ed è evidente che ciò verifica non è un proseguire le finalità proprie delle indagini penali – cioè di punire un soggetto che ha commesso un reato - ma come un sistema per accedere più facilmente al risarcimento del danno in sede civile. Ciò comporta commistioni fra ambito penale e quello civile e, laddove il civile può essere affrontato dalle Compagnie Assicurative, il penale riguarda invece esclusivamente la figura del soggetto indagato.

Per gestire il fenomeno è fondamentale che gli operatori abbiano la percezione del problema, e che si continui nel processo di sensibilizzazione della classe sanitaria e delle società scientifiche. Esiste oggi un importante problema inerente la responsabilità professionale sanitaria, tale da condizionare l’esercizio della professione: una tappa fondamentale è rappresentata dalla predisposizione delle linee-guida, non solo per i clinici, ma anche per chi effettua gli accertamenti.

Oggi nel nostro ordinamento, purtroppo, sono poche le disposizioni normative del codice civile (c.c.) che riguardano l’errore professionale medico, e sono le stesse che valgono per l’architetto, per l’ingegnere e per il costruttore di frigoriferi. La differenza sostanziale che vi è fra l’esercizio della professione medica e tutte le altre arti e professioni, è che l’esercizio dell’attività sanitaria può comportare dei rischi per il paziente ed è evidente che una simile attività non possono valere le medesime legge e gli stessi articoli di codice che valgono per tutte le altre professioni.