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La questione ungherese ha costretto l’Unione europea a prendere atto dell’assenza, a livello europeo, di strumenti idonei a fronteggiare inadempimenti che si traducono in violazioni non tanto della lettera, quanto dello spirito dei Trattati e del diritto europei. Ciò che si è verificato in Ungheria negli ultimi quattro anni, difatti, non è sintetizzabile nella sola adozione di alcune leggi eventualmente contrastanti con il diritto UE, bensì si è tradotto in un cambiamento quasi totale dell’intero ordinamento.

L’adozione di un nuovo testo costituzionale dopo l’ingresso nell’Unione è un fenomeno unico nella storia dell’integrazione europea, laddove gli altri Paesi dell’ex blocco sovietico facenti parte, insieme all’Ungheria, del cd. “allargamento ad Est”, negli anni Novanta avevano adottato una nuova Costituzione quale base per la transizione democratica; pertanto, le Istituzioni europee, nel corso dei negoziati di adesione di questi Stati, avevano potuto condurre le loro valutazioni sulla base di un testo che tuttora è alla base dell’organizzazione di quegli ordinamenti. Invece, nel caso dell’Ungheria, il suo ingresso nell’Unione era avvenuto in seguito alle valutazioni condotte dalle Istituzioni europee sulla base della precedente Costituzione del 1949, così come profondamente emendata nel corso della transizione democratica.

Già l’adozione di un nuovo, problematico, testo costituzionale dopo l’ingresso nell’Unione pone di fronte al cd. “dilemma di Copenaghen”, ovvero alla mancanza di strumenti di valutazione degli Stati già membri circa il rispetto dei valori fondanti dell’integrazione europea altrettanto severi rispetto a quelli di cui l’Unione dispone nei confronti degli aspiranti membri. Alla nuova Legge Fondamentale ungherese, poi, è andata ad aggiungersi la corposa legislazione

194 organica, che ha causato problemi non minori di compatibilità con il diritto UE.

Tuttavia, le materie più tecniche e dettagliate di questa legislazione – si pensi, ad esempio, alla regolamentazione dei mezzi di comunicazione o alla disciplina della Banca centrale – potrebbero essere affrontate più efficacemente dall’Unione se questa si dotasse, per quelle materie, di un atto giuridico di diritto derivato, pur sempre nel rispetto del principio di attribuzione di cui all’art. 5, 2°c TUE. In merito, si ricordi la lamentata lacuna evidenziata dal Parlamento europeo nel quadro normativo dell'UE sui media, disciplinante unicamente i servizi dei media audiovisivi. Una normativa di rango secondario, infatti, di fronte ad una sua violazione da parte degli Stati membri, potrebbe costituire la base legittimante di un intervento delle Istituzioni europee volto a pretenderne il rispetto per mezzo dei tradizionali strumenti contemplati dai Trattati.

Viceversa, risulta più difficile riconoscere nel piano normativo una soluzione a fronte di violazioni sistematiche di principi e valori, ed in particolare, nel caso di specie, dei principi fondanti lo Stato di diritto. L’Unione europea ha sempre dimostrato ritrosia nell’intervenire nei confronti degli Stati membri di fronte ad inadempimenti non traducibili nella violazione di apposite disposizioni normative: di fatto, l’unico strumento di cui allo stato attuale disporrebbe in tal senso, l’art. 7 TUE, non è mai stato applicato.

In sostanza, la netta maggioranza di due terzi formatasi in seguito alle elezioni del 2010, facendo leva sul fatto di essere stata democraticamente eletta, si è sentita legittimata ad adottare una nuova Legge Fondamentale in assenza di un dialogo con le opposizioni e con la popolazione stessa; di conseguenza, ha ridisegnato i settori nodali dell’ordinamento, e, per attribuire definitività all’assetto così risultante, ne ha ricoperto le funzioni chiave, ampliando e riducendo mandati, assumendo il controllo dei media, ritoccando la legge

195 elettorale, modificando l’articolazione degli ombudsman, alterando l’apparato giudiziario. Per arginare, poi, il ruolo di quella che era considerata una delle più forti Corti Costituzionali del mondo, tale maggioranza ha proceduto, innanzitutto, a costituzionalizzare costantemente ciò che la Corte dichiarava incostituzionale, e, poi, a modificarne la composizione aumentando il numero dei suoi membri – tutti, si ricordi, nominati dal Parlamento a maggioranza di due terzi – da undici a quindici. A questo si aggiunga la contraddizione fra l’affermazione formale della primazia della Legge Fondamentale – e, quindi, dell’organo chiamato a verificarne il rispetto da parte delle leggi gerarchicamente inferiori – e la previsione, contenuta anche nel testo costituzionale, della decurtazione dei poteri di controllo di costituzionalità della Corte in materia economica e fiscale, ammettendo così la possibilità che nell’ordinamento possano sopravvivere leggi incostituzionali.

Tale maggioranza, inoltre, si è ritenuta legittimata a cristallizzare la preferenza espressa dal corpo elettorale nel 2010 attraverso l’inserimento della disciplina di dettaglio di quasi tutti gli aspetti dell’ordinamento – dal sistema pensionistico alle forze armate, dalle politiche familiari alla pubblica amministrazione, passando per il sistema giudiziario, le minoranze e così via – in leggi organiche, che possono essere adottate od emendate solo a maggioranza di due terzi e che pertanto difficilmente potranno essere modificate se non si formasse nuovamente un così largo consenso nelle elezioni a venire, o che addirittura potrebbero portare ad una situazione di ingovernabilità. Infine, si tratta di una maggioranza che, forte del consenso ricevuto, ha anche introdotto un nuovo organo, il Consiglio per il Bilancio, il quale, senza che alcuno dei suoi membri sia direttamente eletto, ha ricevuto enormi poteri proprio su quella materia in cui da sempre le popolazioni hanno rivendicato il diritto a far sentire la propria voce

196 per mezzo di un organo democraticamente eletto, ovvero la materia fiscale.

Questo, dunque, lo scenario che l’Unione europea si è trovata a dover fronteggiare: un’ampia ristrutturazione dell’intero ordinamento ungherese, ben lungi dal rappresentare un isolato e circoscritto inadempimento ai valori comuni e al diritto europei. In particolare, il principio della separazione dei poteri ed il connesso sistema di checks and balances, fondanti di uno Stato di diritto, sono continuamente messi a dura prova nell’ordinamento ungherese a causa dell’indebolimento e della minaccia all’indipendenza di alcune delle istituzioni cruciali per garantire lo Stato di diritto. Orbene, l’Unione ha dimostrato di non avere gli strumenti necessari per fronteggiare un tale scenario.

Per quanto riguarda la procedura d’infrazione di cui all’art. 258 TFUE, innanzitutto, allo stato attuale essa è idonea a porre rimedio unicamente a singoli e limitati inadempimenti di uno Stato membro, laddove invece, in una prospettiva de iure condendo, dovrebbe essere considerata l’ipotesi di una procedura d’infrazione sistematica, che consentirebbe alla Commissione europea di collegare fra loro i vari inadempimenti commessi da uno Stato membro; soprattutto in vista di un eventuale ricorso per infrazione, ciò consentirebbe di dotare la Corte di Giustizia di uno sguardo d’insieme più ampio circa il progressivo allontanamento dal percorso d’integrazione europea che quello Stato sta realizzando.

Quanto ai meccanismi di cui all’art. 7 TUE, poi, il carattere politico, le soglie di attivazione molto alte e l’assenza di un ruolo decisivo svolto da un organo giurisdizionale hanno portato alla loro inapplicabilità. Questa costante inoperatività, tuttavia, rischia di trasformare la loro presenza all’interno dei Trattati da elemento deterrente ad incentivo per quegli Stati membri che, consci dell’impunità cui andrebbero incontro, potrebbero essere spinti ad

197 individuare soluzioni non consone ai valori fondanti dell’Unione di fronte a situazioni di contingente difficoltà – in specie economico- finanziaria –, procedendo ad un abbassamento delle garanzie poste a tutela dei valori fondamentali. Peraltro, è possibile dubitare dell’efficacia dei meccanismi descritti dall’art. 7 TUE ad assicurare un pronto intervento di fronte alle violazioni dei valori comuni europei di cui all’art. 2 TUE, in quanto sia il carattere politico che le soglie di attivazione molto alte renderebbero tali meccanismi in grado di operare solo quando un contrasto con i valori fondanti dell’Unione si fosse ormai realizzato e consolidato. Si aprirebbe dunque il problema di individuare quali rimedi le Istituzioni europee potrebbero chiedere agli Stati membri di porre in essere quando ormai questo contrasto si fosse così radicato. In particolare questo è vero per il caso di specie, dove un confronto tra le caratteristiche dei meccanismi di cui all’art. 7 TUE e il carattere sistematico e serrato che ha caratterizzato le riforme ungheresi rivela che, agendo sulla base dell’art. 7 TUE, le Istituzioni europee sarebbero potute intervenire quando ormai quasi ogni settore dell’ordinamento fosse stato riformato.

Per migliorare l’efficacia dei meccanismi di cui all’art. 7 TUE, ma anche per ovviare alla loro inoperatività, sono state avanzate varie proposte in una prospettiva de iure condendo. Una di queste è stata quella di attribuire un maggior ruolo, nell’ambito dell’art. 7 TUE, alla Corte di Giustizia che, in quanto organo giurisdizionale, condurrebbe una valutazione maggiormente imparziale e questo potrebbe contribuire a ridurre il carattere politico di quei meccanismi e, di conseguenza, anche il rischio di critiche di partigianeria da parte dello Stato interessato. La soluzione proposta dalla Commissione europea, poi, è stata quella di introdurre un ulteriore meccanismo preventivo all’interno dell’art. 7 TUE, che consentirebbe di avviare un dialogo con lo Stato membro non appena siano raccolte chiare indicazioni di una minaccia sistemica allo Stato di diritto, abbassando così le soglie

198 di attivazione dell’art. 7 TUE. Ancora, è stata avanzata la proposta di sviluppare il rispetto dei valori comuni europei attraverso la vigilanza da parte dei singoli individui, interessati alla protezione dei loro diritti, sulla base della copertura offerta dalla cittadinanza dell’Unione. Da più parti, infine, è stato proposto di istituire, accanto alla funzione consultiva svolta dal Consiglio d’Europa e, in particolare, dalla sua Commissione di Venezia, un apposito organo proprio in seno all’Unione europea incaricato di monitorare in via permanente sul rispetto dei valori comuni europei negli Stati membri, oppure di modificare in tal senso il mandato e le competenze dell’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali.

L’ipotesi di un monitoraggio costante da parte di esperti indipendenti appare come la più opportuna per circostanze come quella in esame, in quanto garantirebbe, innanzitutto, una conoscenza più approfondita dei singoli ordinamenti e delle loro tradizioni quanto agli strumenti posti a garanzia del rispetto dei valori fondamentali; di conseguenza, un monitoraggio costante consentirebbe di individuare in via preventiva o quantomeno contestuale eventuali violazioni dei valori comuni europei, così assicurando all’Unione un maggior spazio di intervento rispetto ad un meccanismo che verrebbe attivato solo quando lo scostamento da tali valori si fosse ormai compiuto. La conduzione del monitoraggio da parte di soggetti indipendenti, poi, consentirebbe di escludere il carattere politico del procedimento almeno dalla fase di valutazione della sussistenza del rischio di violazione dei valori sanciti dall’art. 2 TUE da parte dello Stato membro. Infine, per garantire la legittimità democratica di questo meccanismo, dovrebbe essere assicurata la partecipazione anche del Parlamento europeo alla procedura di nomina dei soggetti incaricati dell’attività di monitoraggio.

In tal senso, il legislatore europeo potrebbe, ad esempio, guardare al modello della Commission de suivi/Monitoring

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Commission presente sin dal 1997 in seno al Consiglio d’Europa: incaricando più relatori del compito di monitorare in via permanente ciascuno un singolo Stato membro e di riferire periodicamente alle Istituzioni europee, verrebbe arginato il problema degli interventi intermittenti nei vari Stati – ovvero solo quando profili di incompatibilità con i valori e il diritto europei si siano già manifestati – , che non consentono una profonda visione d’insieme del rispetto dei principi fondanti dell’acquis europeo nei vari Stati membri.

Appurato che gli strumenti attualmente a disposizione dell’Unione europea – nella specie, la procedura d’infrazione di cui all’art. 258 TFUE e i meccanismi di cui all’art. 7 TUE – non sono in grado di consentire all’organizzazione di fronteggiare situazioni di sistematico contrasto con i valori comuni europei, si deve tener conto che la questione ungherese è ben lungi dall’essere risolta: in seguito alle elezioni del 6 aprile 2014 il partito FIDESZ ha nuovamente ottenuto una maggioranza di due terzi in Parlamento, il 27 maggio 2014 la Corte europea dei diritti dell’uomo ha dichiarato l’incompatibilità fra la CEDU e la previsione della cessazione anticipata del mandato del Presidente della Corte Suprema ungherese, ma questi non è stato ancora reimmesso nel suo incarico, la Corte di Strasburgo, poi, deve ancora pronunciarsi sui ricorsi presentati da due gruppi di giudici ungheresi circa la compatibilità con la CEDU della disciplina che ha previsto l’abbassamento dell’età pensionabile dei magistrati – anche se l’ormai notevole ritardo con cui la Corte si pronuncerà potrà inficiare l’effettiva capacità d’incidenza di tali pronunce –, inoltre, l’Ungheria ha adottato solo parzialmente le misure richieste dall’esecuzione della sentenza della Corte di Giustizia del 6 novembre 2012, mentre non ha dato alcun seguito alla pronuncia dell’8 aprile 2014 della stessa Corte.

Pertanto, l’Unione europea potrà avere ulteriori occasioni di pronunciarsi sulla questione ungherese e, alla luce di essa, di riflettere

200 sugli opportuni strumenti di cui dotarsi per garantire una tutela più forte dello Stato di diritto e degli altri valori enunciati dall’art. 2 TUE. In attesa di verificare la concreta realizzabilità della soluzione auspicata dalla Commissaria Reding – ovvero l’abolizione dell’art. 51 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea – l’Unione deve infatti dimostrare un’attenzione verso la tutela dei valori comuni europei almeno pari a quella che dimostra sulle questioni economico- finanziarie. Aumentando in tal modo di credibilità agli occhi dei cittadini europei, rimarrebbe poi da osservare la reazione degli Stati membri di fronte alla necessità di ulteriori cessioni di sovranità.