VECCHI PROBLEMI PER NUOVE INTESE: BREVE EXCURSUS STORICO
5.2. Il Consiglio Federale delle Chiese Evangeliche d’Italia e l’avvio del dibattito sulle Intese
Nel periodo che intercorre tra il 1948 ed il 1984 le previsioni contenute nell’art. 8 c. 3 della Costituzione non trovarono alcuna concreta attuazione. Le più strutturate e rappresentative tra le realtà confessionali acattoliche di quell’epoca compirono alcuni interessanti tentativi di sollecitare l’attenzione del Governo sul tema dell’attuazione della costituzione in materia di libertà religiosa: in quell’ottica un ruolo di primissimo piano lo ebbe proprio il dibattito sulle intese. Le principali organizzazioni protestanti, tra cui figurano soprattutto la Chiesa Valdese e l’Unione Cristiana Evangelica Battista d’Italia, si erano da tempo costituite in un ente esponenziale di coordinamento ed azione unitaria denominato Consiglio Federale delle Chiese Evangeliche d’Italia, con sede legale in Roma313: queste
due confessioni rappresentavano il ramo delle c.d. chiese riformate, fortemente influenzate dalle dottrine di pensatori come Calvino che, con l’affermarsi della teologia protestante luterana, intesero a loro volta riformare alcuni aspetti della stessa ed ottennero notevole riconoscimento presso le popolazioni nordeuropee; la Chiesa Apostolica in Italia, che si unì al Consiglio negli anni ‘60, apparteneva al ramo delle chiese pentecostali, di cui la principale esponente in quegli anni era l’Opera delle Assemblee di Dio. Il Consiglio Federale delle Chiese Evangeliche, fondato nel 1946 su impulso proprio della Tavola Valdese e della Chiesa Battista, oltre che delle comunità
313 La sede dell’ente si trovava in Roma, Via IV Novembre, 107. L’indirizzo è
costantemente riportato in tutti i documenti ufficiali del Consiglio fino all’anno del suo scioglimento e della costituzione della Federazione Chiese Evangeliche in Italia, tutt’oggi esistente.
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metodiste allora presenti sul territorio italiano314, sin dall’inizio aveva
tentato di inserirsi nel dibattito giuridico e politico del dopo guerra, inviando all’Assemblea Costituente le proprie osservazioni sugli sviluppi del dialogo inerente la libertà religiosa e confessionale, anche esprimendo forti critiche nei riguardi della configurazione che la stessa prese dopo l’approvazione dell’art. 7 e la costituzionalizzazione dei Patti Lateranensi315. All’avvio del dibattito sulle intese, come si è visto,
permanevano forti conflitti tra stato e chiese, che neppure l’abrogazione della circolare Buffarini Guidi riuscì definitivamente ad archiviare. Continuarono ancora per alcuni anni le chiusure dei templi e gli arresti a carico dei pentecostali e dei credenti di altre confessioni, primi tra tutti i Testimoni di Geova, che diedero adito in più di un’occasione ad interventi della Corte Costituzionale316. In quel clima
314 Cfr. G. Peyrot, Gli evangelici nel loro rapporto con lo Stato dal fascismo ad oggi,
Società di Studi Valdese, Torre Pellice, 1977, p. 18.
315 Il Consiglio Federale delle Chiese Evangeliche d’Italia inviò all’Assemblea
Costituente tre dichiarazioni: la Dichiarazione del 1° settembre 1946 sulla libertà di coscienza, la Dichiarazione del 27 Febbraio 1947 sulla libertà di culto e la Dichiarazione 9 Aprile 1947 sulle garanzie della libertà di Religione. In esse venivano ribaditi i tre punti espressi nel Manifesto agli Italiani del 20 Maggio 1946 ed affisso nelle principali città italiane, così riassumibili: i) piena libertà di coscienza e religione, con le massime garanzie di tutela della libertà di associazione, propaganda, discussione, stampa in tema spirituale e religioso; ii) piena indipendenza dallo stato per ciascuna confessione, cui deve essere garantita la massima libertà ed autonomia per quanto concerne l’apertura dei templi, la nomina dei propri ministri, l’organizzazione di riunioni pubbliche e private, l’ordinamento e le attività degli enti ecclesiastici, la libertà di dotarsi dei propri statuti e stabilire i propri precetti in ambito spirituale; iii) laicità della scuola pubblica e libertà dell’insegnamento religioso privato, giacché laicità non significa professione di ateismo ma neutralità dello stato, non confessionale e libero da ogni ingerenza ecclesiastica; Cfr. ivi; Le dichiarazioni del Consiglio Federale delle Chiese Evangeliche d’Italia sono consultabili presso la Biblioteca della Facoltà Valdese di Teologia, Via Pietro Cossa 42, sez. Evangelizzazione in Italia, vol. Miscellanea III, class. 615 G 2.
316 Le sentenze della Corte Costituzionale n. 45 del 1957 e n. 59 del 1958 dichiararono
definitivamente l’illegittimità costituzionale dell’art. 25 del T.U delle Leggi di Pubblica Sicurezza, in quanto richiedeva l’autorizzazione dell’autorità di pubblica sicurezza per lo svolgimento di culti in luoghi aperti al pubblico, nonché degli artt. 1 e 2 del R.d n. 289 del 1930, che prevedevano la necessaria autorizzazione governativa per
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gli indirizzi interni alle chiese evangeliche optarono per l’elaborazione di un’intesa collettiva per tutte le confessioni protestanti, con l’aggiunta di eventuali specificazioni che prendessero in considerazione le particolari esigenze di ciascuna di esse. Vista la rilevante attività che aveva caratterizzato il Consiglio Federale delle Chiese Evangeliche negli anni della Costituente e la crescente importanza che andava acquisendo, proprio quest’ultimo divenne per due decenni il fulcro del dibattito sulla libertà religiosa delle minoranze: l’opera di elaborazione di Giorgio Peyrot, volta alla valorizzazione delle previsioni contenute nella Costituzione in tema di libertà religiosa, sarà poi ripresa nel corso della trattativa per l’intesa valdese del 1984 per stabilire, da un lato, le procedure da adottarsi nella conduzione dei negoziati e dall’altro le materie che l’intesa avrebbe dovuto regolamentare. La questione delle procedure fu da subito oggetto di scontro tra Ministero dell’Interno e chiese evangeliche: in uno scambio di note, le chiese sostennero che la natura delle intese di cui all’art. 8 c. 3 della Costituzione dovesse intendersi quale atto esprimente un testo definitivo vincolante allo stesso modo il governo e le confessioni, sottoscritto all’esito di trattative bilaterali condotte da rappresentanti plenipotenziari di entrambe le parti. Il Ministero, al contrario, adottò una linea interpretativa del dettato costituzionale volta, nel quadro della permanente vigenza della Legge sui Culti Ammessi, a considerare le intese come richieste di modifica di quella legge che le chiese potevano eventualmente avanzare al Governo, cui solo spettava la decisione se dare o meno un qualche
l’apertura dei locali di culto delle confessioni acattoliche. In entrambi i casi i giudizi di legittimità costituzionale furono promossi nel corso di procedimenti penali a carico di pastori evangelici per violazione dell’art. 650 c.p. Gli imputati furono rappresentati dal prof. Arturo Carlo Jemolo: le memorie difensive depositate presso la cancelleria della Corte Costituzionale sono consultabili presso la Biblioteca della Facoltà Valdese di Teologia, ibidem, dd. 5-6.
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seguito. Anche qualora l’intendimento governativo fosse stato in quella direzione, tuttavia, l’esito finale del procedimento sarebbe dovuto risultare nella modifica della normativa del 1929-30, valida per tutte le confessioni. Il disegno di legge governativo, successivamente, sarebbe stato emendabile dal Parlamento prima della definitiva approvazione317. Nel 1951, una Dichiarazione del Consiglio Federale
delle Chiese Evangeliche indirizzata al Governo, richiama tutti gli atti che, sino a quella data, erano stati compiuti nel tentativo di addivenire ad una risoluzione comune delle questioni preliminari sul metodo da adottarsi per la conduzione delle trattative, nonché sulla natura giuridica delle Intese318. Il dibattito si era poi arrestato a seguito di una
lettera del Ministero dell’Interno la quale dichiarava, come anticipato, che «l’affermazione contenuta nel punto 3 (relativa alla qualifica delle intese come accordo bilaterale vincolante tanto per il Governo che per le confessioni, N.d.A.) non può essere accettata in quanto intende dare alla parola “intese” una specifica, precisa portata che il termine generico non consente e che importerebbe un parallelismo fra il Concordato con la Santa Sede e le intese con le rappresentanze delle confessioni religiose diverse dalla Cattolica che non è giuridicamente
317 Cfr. G. Peyrot, Gli evangelici, cit., pp. 27-28.
318 Cfr. Dichiarazione del Consiglio Federale delle Chiese Evangeliche d’Italia del 20
Luglio 1951, consultabile presso la Biblioteca della Facoltà Valdese di Teologia, ibidem, d. 55, p. 1. In essa sono richiamati un Indirizzo al Governo italiano del 5 Febbraio 1948 presentato al presidente del Comitato Interministeriale per la tutela delle libertà costituzionali, una Segnalazione al Governo italiano inviata il 7 Luglio 1948 al Presidente del Consiglio dei Ministri, una Nota presentata al Ministro dell’Interno durante una udienza svoltasi in data 20 Gennaio 1949, una Nota consegnata al Presidente del Consiglio dei Ministri nell’udienza del 27 Gennaio 1949, un Memoriale al Governo italiano redatto il 17 Maggio 1950 ed inviato al Presidente del Consigli dei Ministri il 25 Maggio dello stesso anno. Il documento fa poi cenno ad una serie di interlocuzioni che si svolsero con la Direzione Affari dei Culti presso il Ministero dell’Interno, con la quale sorse il richiamato dissidio circa la natura delle Intese e le procedure che avrebbero dovuto informare la loro redazione.
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ammissibile»319. Il Consiglio Federale delle Chiese Evangeliche, nella
richiamata Dichiarazione del 20 Luglio 1951, mediante una lunga serie di rimandi ai lavori preparatori della Costituzione, argomentò in senso contrario all’interpretazione fornita dal Governo320 e sostenne
nuovamente la necessità che le Intese dovessero consistere in un accordo bilaterale tra le rappresentanze dello Stato e delle Confessioni acattoliche alla cui conclusione doveva seguire la firma di un documento unitario da parte di entrambe le delegazioni. Quell’accordo avrebbe dovuto costituire la base per la futura trattativa con la quale il Parlamento avrebbe inteso regolare la materia dei rapporti stato-confessioni acattoliche, con possibilità di emendamento del testo ma solo per ragioni adeguatamente motivate e dietro consultazione delle rappresentanze delle organizzazioni interessate321.
La dottrina dell’epoca era essenzialmente concorde con la visione di
319 Ivi, p. 2.
320 Cfr. Ivi. Nel testo sono riportati discorsi dell’on. Giuseppe Dossetti (DC), di cui in
Res. Ass. Cost, seduta del 21 Marzo 1947, pp. 2324, 2325 e 2333; dell’on. Stefano Riccio (DC), Ibidem, seduta del 13 Marzo 1946, pp. 2056-2060; dell’on. Stefano Jacini (DC), Ibidem, seduta del 14 Marzo 1947, p. 2114; dell’on. Giuseppe Cappi (DC), Ibidem, seduta del 12 Aprile 1947, p. 2785; dell’on. Roberto Lucifero d’Aprigliano, Ibidem, seduta del 25 Marzo 1947, p. 2452: I discorsi in questione convengono tutti -ed apertamente- sulla natura di atto bilaterale delle intese e sullo spirito concordatario che dovrà animarle, motivato dalla volontà di garantire una sostanziale parità di trattamento tra tutte le confessioni ed evitare il ritorno alla politica giurisdizionalista che aveva caratterizzato i decenni precedenti al Concordato. Il discorso pronunciato da Giuseppe Dossetti, principale fautore degli artt. 7 e 8 della Costituzione, afferma che «il principio della necessità di un’intesa tra lo Stato e le singole confessioni religiose non è per far piacere ad una o più chiese, ma per enunciare, nella sua piena portata e nei suoi termini più concreti, una delle fondamentali garanzie (la libertà di coscienza e di religione, N.d.A.) che formano appunto l’oggetto proprio e specifico di ogni costituzione»; M. Ruini, Relazione al
Progetto di Costituzione, p. 10: «[…] Alle altre confessioni il progetto di Costituzione
garantisce autonomia, libertà di ordinamenti e l’intervento dei loro rappresentanti nel definire i rapporti con lo Stato.».
321 Cfr. Dichiarazione del Consiglio Federale delle Chiese Evangeliche d’Italia del 20
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Giorgio Peyrot circa la natura delle intese322 e, come si è visto, sarà alla
fine questa impostazione ad essere accolta dal Governo e a costituire ancora oggi lo spirito più profondo delle Intese stesse. Peyrot, e con questi il movimento protestante italiano, divergevano dalla richiamata dottrina per un punto sostanziale: esso concerneva la natura giuridica degli ordinamenti confessionali. Le confessioni evangeliche, nell’ottica di una completa equiparazione con la Chiesa Cattolica, pur non sostenendo di possedere esse stesse la personalità giuridica di diritto internazionale, ritenevano che i loro ordinamenti fossero da considerarsi originari e perciò del tutto indipendenti da quello statale. Ciò non comportava, come potrebbe intendersi, la volontà di ritenere valide norme interne in contrasto con i principi costituzionali, ma piuttosto il riconoscimento della loro preesistenza sul piano morale e del diverso ordine in cui le stesse erano chiamate ad operare - quello spirituale - nel quale lo Stato non era titolato ad intervenire in alcun modo323.
Malgrado la Dichiarazione del 20 Luglio 1951 contenesse già un primo abbozzo delle tematiche che si auspicava le intese avrebbero trattato, in gran parte desumibili dalla struttura e dal contenuto della Legge sui Culti Ammessi, nessuna trattiva fu all’epoca intrapresa: l’anima più estremista della Democrazia Cristiana, all’inizio di un lungo periodo di dominio incontrastato della scena politica italiana, si dimostrò particolarmente intollerante verso la popolazione di fede protestante e finì in più occasioni per minarne le prerogative costituzionali. Un
322 Cfr. G. Bascieri, L. Bianchi d’Espinosa, C. Giannattasio, La costituzione italiana: commento analitico, Noccioli, Firenze, 1949, p. 35; cfr. F. Cosentino, V. Falzone, P.
Filippi, La costituzione della Repubblica Italiana, Colombo, Roma, 1948, p. 40; cfr. A. Bertola, Corso di diritto ecclesiastico, Giappichelli, Torino, 1959, pp. 93-94; cfr. G. Balladore Pallieri, La nuova costituzione italiana, Marzorati, Milano, 1949, p. 38; cfr. V. del Giudice, Manuale di diritto ecclesiastico, Giuffrè, Milano, 1948, p. 98.
323 Cfr. Dichiarazione del Consiglio Federale delle Chiese Evangeliche d’Italia del 20
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esempio particolarmente significativo può essere dato dall’interrogazione parlamentare che l’on. Mario Riccio rivolse alla Presidenza del Consiglio dei Ministri il 18 Aprile 1951, la quale era volta a «conoscere se non si ritenga di far cessare la subdola propaganda religiosa protestante alla radio che offende ed insidia l’anima religiosa cattolica della popolazione italiana». A quell’interrogazione rispose per iscritto, in data 11 Maggio dello stesso anno, l’on. Giulio Andreotti, all’epoca ricoprente l’incarico di sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, nei termini che seguono: «si comunica che in merito ai rilievi formulati dalla S.V. questa Presidenza ha provveduto a richiamare la particolare attenzione del Ministro per le Poste e le Telecomunicazioni, al quale spetta […] la funzione di vigilanza e controllo sulle radiotrasmissioni e sull’ente concessionario». La protesta del Consiglio Federale delle Chiese Evangeliche fu immediata e si concretizzò in una formale protesta trasmessa alla Commissione per l’Alta Vigilanza sulle Radiodiffusioni della Camera dei Deputati324, la quale riporta una lunga serie di soprusi
e limitazioni che, sia prima che dopo la predetta interrogazione, le chiese evangeliche avrebbero subito. Tra queste rileva particolarmente il fatto che pochi giorni dopo l’invio alla Presidenza del Consiglio della richiamata interrogazione, la R.A.I abbia improvvisamente cessato di indicare, nelle trasmissioni che indicavano il programma radiofonico della settimana, le modalità con cui era possibile ottenere le trascrizioni del sermone evangelico che la Domenica veniva trasmesso sin dagli anni dell’occupazione militare
324 Protesta del Consiglio Federale delle Chiese Evangeliche d’Italia indirizzata alla
Commissione per l’Alta Vigilanza sulle Radiodiffusioni della Camera dei Deputati del 7 Giugno 1951, consultabile presso la Biblioteca della Facoltà Valdese di Teologia, ibidem, d. 56.
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alleata325. Come si è potuto evincere, una delle motivazioni principali
che hanno condotto alla mancata attuazione del dettato costituzionale in materia di Intese deve ricercarsi nello spirito confessionista che, nella sostanza, animava la classe politica italiana dell’epoca. Niente di nuovo, sul fronte dei rapporti tra Stato e chiese evangeliche, avvenne per molti anni. Nel Memorandum del 17 Gennaio 1955, con il quale il Consiglio delle Chiese Evangeliche intese protestare per la mancata abolizione della circolare Buffarini Guidi, già richiamato nel paragrafo precedente, si volle riproporre una sollecitazione all’attuazione del dettato costituzionale in tema di Intese, ma tale sollecitazione non ottenne alcuna risposta326. Tuttavia già nel 1953 le principali chiese
evangeliche si stavano adoperando attivamente per la predisposizione, in seno al Consiglio Federale, di una piattaforma comune che contenesse le proposte da presentare al Governo per l’elaborazione di un’Intesa che si voleva applicabile a tutte le confessioni coinvolte. Nel Documento A del 12 Novembre 1953, i membri del Consiglio Federale approvarono un primo schema di materie che si riteneva fosse imprescindibile trattare nell’Intesa, deliberatamente modellate sull’articolato della Legge sui Culti Ammessi e del relativo regolamento di attuazione, oltre che sulle specifiche previsioni contenute agli artt. 18 e 25 del T.U delle Legge di Pubblica Sicurezza e sulle disposizioni del Codice Penale in materia di tutela del sentimento religioso. Nello schema di proposta di Intesa è fatta palese la volontà di chiedere l’abrogazione formale della Legge n. 1159 del 1929 e del Regio Decreto n. 289 del 1930, ritenuti non più coerenti con i valori espressi nella Costituzione in tema di libertà
325 Cfr. Ibidem, p. 3.
326 Cfr. Memorandum del Consiglio Federale delle Chiese Evangeliche sul problema della libertà religiosa in Italia, consultabile presso la Biblioteca della Facoltà Valdese
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religiosa e parità confessionale. In particolare, furono oggetto di attenzione le disposizioni riguardanti l’autorizzazione alle alienazioni327, la vigilanza e la tutela governativa328, l’approvazione
governativa dei ministri di culto329, l’autorizzazione all’apertura dei
locali di culto330, la regolamentazione delle modalità di svolgimento
327 R.d n. 289 del 1930, art. 18 (abrogato ex L. 127 del 1997 ed ex L. 191 del 1998):
«Le domande intese ad ottenere, ai sensi dell'art. 2 della legge, l'autorizzazione governativa per gli atti e contratti costituenti alienazioni di beni, debbono essere presentate dai legali rappresentanti degli istituti agli uffici per gli affari di culto presso le procure generali del re delle Corti di appello e dirette al Ministro per la giustizia e gli affari di culto. Fra gli atti o contratti, per i quali è necessaria l'autorizzazione governativa, si comprendono oltre le alienazioni propriamente dette, le affrancazioni di censi e di canoni, i mutui, gli atterramenti di piante di alto fusto, le esazioni e gli impieghi di capitali, le locazioni ultranovennali di immobili, le liti, sia attive che passive, attinenti alla consistenza patrimoniale dell'istituto.».
328 Ivi, art. 13: «Oltre alle norme speciali stabilite nel decreto di erezione in ente
morale, gli istituti dei culti diversi dalla religione dello Stato sono soggetti alla vigilanza ed alla tutela governativa. Tutte le attribuzioni spettanti allo Stato sugli istituti sopra menzionati sono esercitate dal Ministro dell'Interno e dagli organi dal medesimo dipendenti.»; art. 14:«La vigilanza governativa di cui all'articolo precedente include la facoltà di ordinare visite ed ispezioni agli istituti indicati nell'articolo stesso. Quando siano accertate, comunque, gravi irregolarità nell'amministrazione di tali istituti ovvero quando l'amministrazione non sia in grado di funzionare, il Ministro dell'Interno può sciogliere l'amministrazione medesima e nominare un commissario governativo per la temporanea gestione.».
329 Legge n. 1159 del 1929, art. 3: «Le nomine dei ministri dei culti diversi dalla
religione dello Stato debbono essere notificate al Ministero della giustizia e degli affari di culto per l'approvazione. Nessun effetto civile può essere riconosciuto agli atti del proprio ministero compiuti da tali ministri di culto, se la loro nomina non abbia ottenuto l'approvazione governativa.».
330 R.d. n. 289 del 1930, art. 1 (illegittimità costituzionale dichiarata con Sent. n. 59 del 1958): «Per l'esercizio pubblico dei culti ammessi nello stato, i fedeli di ciascun
culto possono avere un proprio tempio od oratorio. L'apertura di un tempio od oratorio al culto deve essere chiesta dal ministro del rispettivo culto, la cui nomina sia stata debitamente approvata a termini dell'art. 3 della legge, con domanda diretta al Ministro per la giustizia e gli affari di culto e corredata dei documenti atti a provare che il tempio od oratorio è necessario per soddisfare effettivi bisogni religiosi di importanti nuclei di fedeli ed è fornito di mezzi sufficienti per sostenere le spese di manutenzione. L'apertura è autorizzata con decreto reale emanato su proposta del Ministro per la giustizia e gli affari di culto di concerto con quello per l'interno.».
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delle riunioni di culto nei templi331. Le norme citate, la cui forte
impronta statalista era idonea a minare irrimediabilmente l’autonomia e l’indipendenza delle Chiese nell’amministrazione delle res spirituales, erano considerate fortemente discriminatorie dalle chiese evangeliche ed il Consiglio Federale era risoluto nel volerne richiedere la totale abrogazione. Esse, infatti, consentivano forti ingerenze dello stato nelle attività delle confessioni acattoliche, quali la possibilità di eseguire controlli sulle amministrazioni di tali enti, potendone eventualmente disporre il commissariamento, autorizzare la nomina dei ministri di culto, l’apertura di oratori e templi nonché la conclusione di atti di acquisto e di alienazione di beni. Non esisteva, in pratica, alcuna attività che le confessioni potessero legalmente compiere in autonomia. L’abrogazione di tali previsioni, tuttavia, non era di per sé sufficiente a garantire la reale indipendenza delle chiese affiliate al Consiglio Federale, per cui si ritenne necessario inserire nella proposta di intesa alcune norme che garantissero l’esclusiva autorità di ciascuna chiesa, oltre che per la nomina, anche per il trasferimento e la revoca dei ministri di culto, da rendere effettivi