Il d.lgs. n. 66/2003, coerentemente con la direttiva cui dà attua-zione, disciplina gli aspetti fondamentali dell’orario di lavoro ai fini della tutela della salute del lavoratore e, in particolare, l’orario normale di lavoro, i limiti di durata massima settimanale, le pause e i riposi giornalieri e settimanali, le modalità e le condi-zioni di ricordo al lavoro straordinario e al lavoro notturno, nonché le ferie.
Un primo profilo da rilevare, ancor prima di definire le singole discipline e considerando il quadro costituzionale, è l’assenza – a seguito della riforma – di una definizione normativa della durata massima giornaliera della prestazione lavorativa, la quale può es-sere ricostruita soltanto a contrario in base alla disciplina di pause e riposo minimo giornaliero, con dubbi rispetto alla previsione costituzionale (art. 36, comma 2) che ne richiede la disciplina per legge, oltreché rispetto alla clausola comunitaria di non regresso rispetto alla normativa vigente (V. FERRANTE, Il tempo di lavoro tra persona e produttività, cit., p. 114).
Allo stesso modo, occorre premettere la nozione di orario di la-voro (rispetto alla quale è costruita a contrario quella di tempo di riposo) adottata dal legislatore interno su istanza della direttiva, definita nei termini di «qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni». L’adozione della impostazione
comunitaria è stata criticata perché ai tempi della riforma era no-ta l’ambiguità terminologica, che già aveva dato luogo a una rile-vante giurisprudenza europea, così come erano chiari i rischi del-la riduzione al dualismo tra orario di del-lavoro e tempo di riposo con riferimento ai tanti tempi terzi (reperibilità, tempo tuta, tempo di viaggio, ecc.) dualismo che non supera i problemi del previgente sistema basato sulla definizione di “orario di lavoro effettivo” e su specifiche discipline dei tempi terzi (V. F ERRAN-TE, Il tempo di lavoro tra persona e produttività, cit., p. 116 e, amplius, pp. 222 ss.; in tema anche G. RICCI, Tempi di lavoro e tempi sociali, ecc., cit., pp. 292 ss., con riferimento ai diversi tempi terzi e ai tempi interstiziali; si veda, anche, nonostante riconosca un mi-glioramento rispetto al sistema precedente, G. BOLEGO, Finalità e definizioni, in V. LECCESE (a cura di), L’orario di lavoro. La norma-tiva italiana di attuazione delle direttive comunitarie, cit., pp. 68-77. Il risultato di tale impostazione è, secondo alcuni, «il sacrifico della dimensione del tempo non lavorato» (G. RICCI, op. ult. cit., p.
304). I problemi rilevati da parte della dottrina trovano espres-sione in una intesa attività giurisprudenziale sulla corretta ricon-duzione dei tempi terzi all’interno o al di fuori della definizione di orario di lavoro: sul punto si veda la rassegna di C. M AZZAN-TI, I tempi intermedi nella nozione binaria di tempo di lavoro, in Argo-menti di Diritto del Lavoro, 2019, n. 2, pp. 221-233, e, in particola-re, Cass. 15 maggio 2013, n. 11727, e Cass. 27 luglio 2017, n.
18654 (in tema di reperibilità), Cass. 25 maggio 2018, n. 12935, e Cass. 11 gennaio 2019, n. 505 (in materia di tempo-tuta), Cass. 9 ottobre 2018, n. 24828 (in tema di tempo-viaggio).
Quanto ai profili di disciplina, la normativa si apre con due di-sposizioni relative rispettivamente all’orario normale di lavoro e la durata massima settimanale dell’orario di lavoro, prevedendo in entrambi i casi un ampio spazio di deroga da parte della con-trattazione collettiva: l’orario normale di lavoro è fissato in 40 ore settimanali, con possibilità di deroga migliorativa (art. 3); la durata massima settimanale è fissata dalla contrattazione colletti-va, fermo restando il rispetto delle 48 ore massime su un
perio-do di sette giorni, da computarsi come media su un perioperio-do non superiore a 4 mesi, salvo specifico intervento della contrattazio-ne che lo estenda a 6 o addirittura 12 mesi (in quest’ultimo caso devono sussistere ed essere esplicitate le ragioni obiettive, tecni-che o organizzative). Tale disciplina viene integrata dai successivi artt. 5 e 6 in tema di lavoro straordinario, cui il datore di lavorò può ricorrere in misura contenuta, secondo quanto previsto dalla contrattazione collettiva o in assenza della stessa, previo accordo con il lavoratore e nei limiti di 250 ore annuali o, comunque, laddove ricorrano specifiche condizioni legate a esigenze ecce-zionali. Lo straordinario deve essere computato a parte e si pre-vede, delegando alla contrattazione collettiva la fissazione del quantum, una maggiorazione retributiva per le ore di straordina-rio, cui si aggiunge la possibilità, sempre in via contrattual-collettiva, di prevedere in alternativa o ad integrazione l’introduzione di riposi compensativi. Ai fini del computo della durata massima settimanale si escludono dal computo i periodi di ferie o di malattia, così come le ore di straordinario cui è cor-risposto un riposo compensativo (art. 6).
Il sistema così delineato rispetto ai limiti di estensione della du-rata della prestazione lavorativa – cui si aggiunge la dudu-rata mas-sima giornaliera – si caratterizza per «condizioni di flessibilità
“spinta” degli orari», sollevando, in parte della dottrina, perples-sità rispetto alla idoneità di assicurare una adeguata tutela della salute e sicurezza dei lavoratori (G. RICCI, Tempi di lavoro e tempi sociali, ecc., cit., p. 319). In particolare, si è sottolineato come una disciplina fondata su medie settimanali e caratterizzata da ampia flessibilità sia nella collocazione dei tempi di lavoro (multi-periodalità e flessibilità nell’uso dello straordinario), insieme con l’eliminazione dei vincoli alla durata massima giornaliera com-prensiva di straordinario che nella definizione a contrario prevista dalla normativa vigente arriva ad una estensione prossima alle 13 ore di lavoro, risulti inidonea a preservare la salute del lavorato-re, soprattutto laddove la contrattazione collettiva non sia in grado di esercitare pienamente le deleghe legislative (G. RICCI,
op. ult. cit., pp. 319 ss., e, amplius, F.M. PUTATURO DONATI, Fles-sibilità oraria e lavoro subordinato, cit., pp. 22-45). Peraltro, si è sot-tolineato come il complessivo sistema vada ad impattare sul la-voratore anche in termini retributivi, grazie alla introduzione del sistema alternativo della banca ore (tra gli altri, V. FERRANTE, Il tempo di lavoro tra persona e produttività, cit., pp. 114-115).
Alla tutela nell’estensione temporale della prestazione lavorativa si aggiungono due altre declinazioni della garanzia delle condi-zioni di salute e sicurezza del lavoratore, quella relativa ai riposi e al tempo di non lavoro e quella relativa alle limitazioni al lavoro notturno.
Quanto ai riposi, l’art. 7 introduce un minimo giornaliero di 11 ore per ogni 24 ore, da fruire consecutivamente salvo che per at-tività caratterizzate da frazionabilità della prestazione o regimi di reperibilità, così determinando, in via implicita, la durata massi-ma giornaliera per sottrazione dalle 24 ore (tra gli altri, C. S PI-NELLI, Il riposo giornaliero e la durata massima della giornata lavorativa, in V. LECCESE (a cura di), L’orario di lavoro. La normativa italiana di attuazione delle direttive comunitarie, cit., p. 297; di effetto proprio ed effetto derivato parla G. RICCI, Tempi di lavoro e tempi sociali, ecc., cit., pp. 338-345). Peraltro, è stato sottolineato che «quella rica-vabile per sottrazione dall’art. 7 è una soglia massima che, pur apparendo ipoteticamente raggiungibile, pare suscettibile di esse-re lambita o effettivamente toccata solo in situazioni di concesse-reta tollerabilità psicofisica e comunque solo invia eccezionale» (S.
BELLOMO, L’ambivalenza funzionale dell’orario normale di lavoro. Tra dimensione retributiva e delimitazione dell’impegno lavorativo ordinario, in V. LECCESE (a cura di), L’orario di lavoro. La normativa italiana di attuazione delle direttive comunitarie, cit., p. 149). Quanto al computo del riposo minimo, il riferimento alle 24 ore deve essere inteso come mobile, ovvero a decorrere dall’inizio della prestazione (C.
SPINELLI, Il riposo giornaliero e la durata massima della giornata lavora-tiva, cit., p. 300). L’incertezza interpretativa intorno alla vincola-tività del riposo minimo giornaliero in presenza di più rapporti
di lavoro è stata risolta, invece, da una circolare del Ministero del lavoro (n. 8/2005) che ha sottolineato come sussista in capo al lavoratore un obbligo di comunicazione dell’ammontare di ore svolte nell’ambito dei diversi rapporti (C. GUZZETTA, Sulla cumu-labilità e sull’interruzione dei riposi giornalieri e settimanali, in Il Lavoro nella Giurisprudenza, 2008, n. 2, pp. 133-134). Rispetto alla effetti-vità della tutela, si è poi sottolineata la pervasieffetti-vità del regime di deroghe alla disposizione sia interne all’art. 7 sia per il tramite dell’art. 17 (su tutti, ancora G. RICCI, Tempi di lavoro e tempi sociali, ecc., cit., pp. 339-340).
Quanto, poi, alla tutela del riposo su base giornaliera, si prevede (art. 8) una pausa giornaliera finalizzata al «recupero delle energie psicofisiche» ed eventualmente alla consumazione del pasto, laddove la prestazione ecceda le 6 ore giornaliere. La disciplina è rimessa alla contrattazione collettiva e, in assenza di specifica previsione, si prevede il riconoscimento di un minimo di 10 mi-nuti di pausa, la cui collocazione tiene conto delle esigenze pro-duttive (C. SPINELLI, La disciplina delle pause, in V. LECCESE (a cura di), L’orario di lavoro. La normativa italiana di attuazione delle di-rettive comunitarie, pp. 324 ss., cui adde G. RICCI, op. ult. cit., pp.
345-353, che lamenta una scarsa efficacia in termini di hard law).
Chiudono la parte relativa ai tempi di non lavoro le discipline in materia di riposi settimanali (art. 9) e ferie annuali (art. 10).
Quanto al riposo settimanale si prevede un riposo di 24 ore con-secutive su base settimanale, di regola di domenica e computabi-le su un periodo di 14 giorni. Importanti deroghe al principio consecutivo sono concesse sia per il tramite della contrattazione collettiva sia in condizioni individuate dalla disposizione, cui si aggiungono le deroghe al riposo domenicale, portando la dottri-na a lamentare un impatto fortemente depotenziato della disci-plina (G. RICCI, op. ult. cit., pp. 253 ss.), soprattutto rispetto alla sua funzione secondaria di liberazione del tempo libero (oltre a G. RICCI, op. ult. cit., si veda, in particolare, A. OCCHINO, Il tempo libero nel diritto del lavoro, Giappichelli, 2010, passim; di “rigidità
apparente” parla A. ALLAMPRESE, G. LELLA, Riposi settimanali, in V. LECCESE, L’orario di lavoro. La normativa italiana di attuazione del-le direttive comunitarie, pp. 341 ss.). Con riferimento aldel-le ferie, si prevede un periodo minimo di ferie retribuite della durata di 4 settimane, di cui 2, da godere consecutivamente se richiesto dal lavoratore e nell’anno di maturazione, salva diversa previsione dei contratti collettivi, e 2 da godere entro 18 mesi dal termine di tale anno. Tale periodo di ferie non può essere compensato mo-netariamente ad eccezione del caso di risoluzione del rapporto di lavoro, coerentemente con il principio costituzionale dell’irrinunciabilità delle ferie. La disciplina, migliorativa rispetto a quella previgente, ha ingenerato alcuni dubbi interpretativi ri-spetto alla collocazione delle ferie e alle modalità di organizza-zione delle stesse e rispetto alla quale si sono discussi anche gli spazi di deroga concessi alla contrattazione collettiva (G. RICCI, Tempi di lavoro e tempi sociali, ecc., cit., pp. 375 ss., cui adde R. DEL
PUNTA, La nuova disciplina delle ferie, in V. LECCESE (a cura di), op.
ult. cit., pp. 382 ss.).
Infine, con riferimento all’ambito di tutela relativo alla presta-zione di lavoro notturno, gli artt. da 11 a 15 del d.lgs. n. 66/2003 disciplinano le limitazioni, le modalità di organizzazione e gli obblighi di comunicazione, la durata, le specifiche tutele nonché le condizioni per il passaggio al lavoro diurno. A monte, si pone un tema definitorio stante la diversa declinazione, in termini di durata della prestazione dopo la mezzanotte e prima delle 5, tra periodo notturno e lavoratore notturno (M. DELFINO, Il lavoro notturno e a turni fra problemi teorici e questioni applicative, in Argomenti di Diritto del Lavoro, 2014, n. 1, pp. 50-73). Quanto alle limitazioni si prevede, oltre alle modalità di accertamento dell’inidoneità e al divieto di adibizione della donna in stato di gravidanza e fino all’anno di età del figlio, una lista di soggetti non obbligati allo svolgimento di attività di lavoro notturno e una delega alla con-trattazione collettiva per l’individuazione di ulteriori soggetti esclusi dall’obbligo di prestare lavoro notturno. Rispetto alla po-sizione dei soggetti esonerati dall’obbligo, si è sottolineato il
ri-schio di ineffettività della tutela, nel momento in cui la facoltà di usufruire dell’esonero è lasciato alle dinamiche di forza nello svolgimento del rapporto individuale (G. LEONE, La disciplina del lavoro notturno: fra potere del datore di lavoro e suoi limiti, in V. L ECCE-SE (a cura di), L’orario di lavoro. La normativa italiana di attuazione delle direttive comunitarie, cit., p. 418), peraltro con la necessità ai fi-ni della tutela di rivolgere per iscritto il proprio difi-niego come si evince dall’art. 18-bis in tema di sanzioni (M. DELFINO, Il lavoro notturno, Il lavoro notturno e a turni fra problemi teorici e questioni appli-cative, cit., pp. 50 ss.) Quanto alla organizzazione del lavoro not-turno si prevede un obbligo di consultazione con le rappresen-tanze sindacali in azienda o, in assenza, territoriali con un termi-ne di discussiotermi-ne fissato in sette giorni. Inoltre, si prevede un li-mite di durata di 8 ore di media su 24 per il lavoro notturno, sal-vo diverso periodo di riferimento fissato dalla contrattazione collettiva, cui è rimessa altresì la definizione di eventuali riduzio-ni dell’orario di lavoro o di trattamenti indenriduzio-nitari. Specifici limi-ti sono previslimi-ti con riferimento ad alcune lavorazioni in termini di fissazione del periodo di computo sia in termini restrittivi che estensivi (L. CALAFÀ, La disciplina del lavoro notturno: organizzazione e durata, in V. LECCESE (a cura di), op. ult. cit., pp. 435-437). Con riferimento alla tutela delle condizioni di salute del lavoratore notturno si prevede in capo al datore di lavoro la copertura dei costi di un sistema di valutazione delle condizioni del lavoratore sia preventivamente che su base periodica (almeno ogni due an-ni). Il datore di lavoro è altresì tenuto ad approntare servizi e mezzi di prevenzione adeguati e almeno equivalenti a quelli pre-visti per il lavoro diurno, nonché appropriate misure per i lavo-ratori notturni esposti a rischi particolari: nel primo caso è tenu-to a dare informativa alle rappresentanze sindacali, nel secondo ad una previa consultazione. Infine, la normativa prevede, in ca-so di ca-sopravvenienza di condizioni di salute incompatibili con lo svolgimento di lavoro notturno, l’adibizione al lavoro diurno e delega alla contrattazione la definizione delle modalità e la ge-stione dei casi in cui tale assegnazione non sia possibile (art. 15)
(G. LEONE, La disciplina del lavoro notturno: accertamento dell’idoneità e tutela della salute dei lavoratori, cit., pp. 447 ss.).
1.1.3. Le deroghe alla disciplina in materia di orario di